Periferie, persone
12 maggio 2017
“Sono un ragazzo di periferia” (G. Giorello)
Ieri sera al Teatro Sociale Giulio Giorello e Stefano Boeri hanno dialogato di periferie sotto la guida di Diego Minonzio.
Ho molti interessi ma confesso che il più importante è quello per la città, paradigma della civiltà europea. Parlare di città significa parlare di organismi vivi, in continua mutazione, dove anni di scelte virtuose possono essere vanificati in pochissimo tempo. Como è una città fortunata, non solo per le sue ricchezze architettoniche o per il contesto in cui è collocata, ma soprattutto perchè non ha (o non ha tutti) i problemi dei luoghi di marginalità di altre città. Perchè? Perchè la Como di oggi è il frutto della aggregazione di municipalità diverse avvenute sotto il fascismo che continuano a mantenere identità forti. Se andate a Civiglio, a Albate, a Monte Olimpino, siete nei quartieri di Civiglio, di Albate, di Monte Olimpino. Non nella periferia di qualcosa d’altro che non è Civiglio, Albate o Monte Olimpino. E nella misura in cui delinea una porzione di città come altro da sé, periferia è un brutto termine, che nega appartenenza ai suoi abitanti. Si dice la periferia di Roma, la periferia di Milano, la periferia di Torino. Si dice il quartiere di Civiglio, il quartiere di Albate, il quartiere di Monte Olimpino. Porzioni vive di città come vivi sono i loro abitanti.
Nata come antitesi al nomadismo e oggi essa stessa attraversata da ogni sorta di mobilità, non solo fisica, la città di oggi è per definizione città nomade. Tra i flussi che la attraversano, uno è quello dalla persona alla comunità, che si realizza in una sorta di esodo da sé verso l’altro: dove questo dinamismo si inceppa, ecco la persona prigioniera di sé, chiusa nella incomunicabilità e nelle catene delle reciproche esclusioni, trasformata in una folla di solitudini. Somma di ghetti che reciprocamente si rifiutano. Sono le parole di un teologo come monsignor Forte.
Periferia vuol dire negare questa permeabilità, vuol dire tracciare un confine, separare. La periferia è, etimologicamente, una linea curva che traccia un confine, racchiude uno spazio. Se non vogliamo limitarci a governare il quotidiano negando il futuro, abbiamo bisogno di osmosi, non di confini. Se vogliamo confinarci nel presente per la paura di non riuscire a governare le trasformazioni, finiremo come i dinosauri di Durenmatt, che per non fare una brutta figura davanti all’evoluzione decisero di estinguersi.
Crediamo che la città sia un luogo di persone libere, creative, solidali, corresponsabili a tutti i livelli? Se la risposta è sì, la città delle periferie di cui Giulio Giorello e Stefano Boeri ci hanno parlato ieri sera non è la rappresentazione dei luoghi di disagio ma è — o dovrebbe essere — la raffigurazione delle ragioni di esclusione da una società che tutti i giorni si professa aperta, moderna, democratica. Credo sia questo il senso di queste riflessioni meritoriamente promosse dal quotidiano La Provincia: rappresentare alla città i motivi di esclusione, perché anche attraverso la loro descrizione, questi diventino occasione di crescita.
Mio nonno si fece stampare un ex libris su cui campeggiava il motto socratico “Io so di nulla sapere”. Quando si parla di urbanistica e di persone mi sembra il punto ineludibile da cui partire.