Città
13 aprile 2019
L’edizione italiana di National Geograhic dedica il numero di aprile alla città.
Lo fa, come sempre, con ottime infografiche, foto spettacolari e articoli divulgativi di grande interesse. Da “A spasso per Tokyo” (D. Guttenfelder), attraversata a piedi secondo l’insegnamento di Jane Jacobs, a “Ripensare le città” (A. Moore) attraverso le sfide sostenibili di Peter Calthorpe al neourbanesimo di Le Corbusier, da “Nascita di una città” (N. Lorek), affascinante affresco del più grande centro profughi africano, BidiBidi, e la sua evoluzione verso una dimensione urbana, a “Vite nell’ombra“ (C. H. James), che descrive la convivenza tra uomini e ratti nei grandi agglomerati urbani.
L’editoriale di Marco Cattaneo, direttore dell’edizione italiana, bene sintetizza quello che ci attende:
Le metropoli di domani potrebbero essere agghiaccianti alveari in stile Blade Runner (che, vuole il caso, è ambientato proprio nel 2019). Oppure, con una pianificazione razionale, potrebbero tornare luoghi dove convivere, nel senso letterale di “vivere insieme”.
Ecco. La parola chiave è proprio quella, ^convivere^, dove il punto non è tanto l’ovvietà del vivere insieme accettando le regole che la convivenza impone, ma il vivĕre, che non è lo sperare di star meglio di Vasco.
Il problema, e il limite del numero monografico del National, è che la convivenza passa proprio dalle regole e dalla loro accettazione, esattamente come in una fila per accedere a un museo o per fare il pieno a un distributore.
E su questo c’è poco, se non un accenno nell’intervista a Stefano Boeri (a proposito delle regole invalicabili che andrebbero fissate per Roma nel rispetto di spazi pubblici, verde, trasporti pubblici e flussi turistici) e nell’articolo introduttivo di Jared Diamond (che paragona la rigida pianificazione delle città tedesche all’inviolabilità della proprietà privata di Los Angeles per giungere all’ovvia conclusione che “il liberi tutti danneggia persone e collettività”).
La realtà è che parlare di regole, della loro origine e della loro necessità, è complesso e tutto sommato spiacevole, più che noioso, perché è dietro l’angolo l’obiezione un po’ populista che sono proprio le regole ad aver permesso questo o vietato quello.
A parte il fatto che sono proprio gli esempi di ciò che si è fatto senza, o in deroga, alle regole ad essere infinitamente più numerosi, è vero invece che la storia delle regole in urbanistica ha il suo fascino.
Ha il suo fascino, e la sua parte di ragione, sapere ad esempio che la pianificazione dei suoli nella città industriale si è aperta non con la legislazione urbanistica, ma con quella dell’esproprio.
E, cosa ancora più notevole, che per quanto contemporanei gli eventi da cui muovono le leggi che consentono di sottrarre al dogma della sacralità della proprietà privata i beni necessari alla collettività, nascono da due episodi molto lontani tra loro: l’epidemia di colera a Londra del 1848 e il piano nazionale ferroviario francese del 1842.
Da una parte l’emergenza sanitaria di una città popolata da più di 1.000.000 di persone che prelevava l’acqua da un fiume, il Tamigi, in cui venivano riversati i liquami dei pozzi neri (v. La mappa che cambiò le città, di Marco Fulvio Barozzi), dall’altra l’intreccio tra potere pubblico e iniziativa privata in una visione programmatica di grande respiro.
E l’Italia? Beh, siccome i francesi ci stanno un po’ antipatici e non potevamo essere da meno degli inglesi, scegliemmo la prima strada. Fino al 2001 la nostra legislazione sull’esproprio per pubblica utilità è stata rappresenta dalla legge 2892 per il risanamento di Napoli, promulgata a seguito dell’epidemia di colera del 1884.
Circostanza che spiega perchè (ma è un capitolo un po’ noioso) tutta la storia della legislazione urbanistica ed edilizia italiana sia stata, fino al testo unico del 2001, una reazione all’emergenza.
Le leggi urbanistiche arrivano dopo le legislazioni urbanistiche e tutte, senza eccezioni, individuano nell’esproprio l’arma finale attraverso la quale risolvere i problemi irrisolvibili.
E prima di questo? Prima di questo ci sono le regolazioni del territorio (urbanistica) e del costruito (edilizia), che altro non sono che limitazioni alla libertà individuale.
Detto così sembra una cosa brutta, perchè a questo punto la stessa esistenza di una amministrazione pubblica può essere letta come illiberale.
La realtà è più semplice: come insegna la teoria dei giochi, le organizzazioni esistono perché le capacità computazionali umane sono limitate (A. Schianchi).
Più le amministrazioni (le pubbliche amministrazioni) sono brave a spingere i soggetti conflittuali (i cittadini) a cooperare per il raggiungimento di un’obbiettivo comune, più generano fiducia e più sono attrattive. Ecco perchè le organizzazioni vengono definite meccanismi generatori di fiducia ed ecco perchè il ricorso alla forza (l’esproprio) per risolvere un conflitto urbanistico è davvero l’ultima ratio.
Ma di ciò il pur imperdibile numero monografico del National nulla dice, nonostante solo la fissazione di regole condivise potrà realizzare l’auspicio di fermare l’urbanizzazione caotica figlia del boom economico dei primi anni ‘50 e dello spopolamento delle campagne poi.
Potranno non essere le rigide e spesso inefficaci regole urbanistiche che noi italiani conosciamo, potranno essere altre, con altre forme e contenuti.
Ma l’aspetto affascinante delle organizzazioni sta proprio nel fatto che — nonostante esse non siano in grado di assicurare agli individui che le norme che ne regolano la convivenza consentano di raggiungere un risultato efficiente - è garantita la possibilità di cambiare le regole senza distruggere l’organizzazione che le produce.
Il futuro ce lo giochiamo su questo.
Su norme condivise, comprensibili ed efficaci e, ovviamente, sul coraggio della parte politica ad assumersene la responsabilità della scelta.
Cosa che, purtroppo, richiede un lungo lavoro di preparazione e profonde competenze multidisciplinari che l’orizzonte brevissimo di buona parte della politica attuale temo fatichi ad approcciare.