Life Electric di Daniel Libeskind, Como
Life Electric, Como (foto @ Chiara Elisa Spallino)

La questione dei beni comuni nella città

Lorenzo Spallino
2017/2022
Published in
7 min readJan 18, 2024

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Scrissi questo intervento per un seminario del Dipartimento di Sociologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore dedicato al volume di Giancarlo Consonni, Urbanità e bellezza. Una crisi di civiltà.

Era il 15 dicembre 2017: è incredibile come in questo paese certe riflessioni sull’urbanistica continuino ad essere attuali nella misura in cui si preferisce non affrontarle.

1- La bellezza è dono. La bellezza è mistero. Così si apre Urbanità e bellezza di Giancarlo Consonni, opera che affronta il non facile tema della bellezza civile.

Non affronterò il tema dal punto di vista dell’estetica, né da quello della socialità, ma da quello delle regole, che l’autore tratta in particolare nel secondo capitolo, dedicato al rapporto tra territorio (come bene comune) e diritto di proprietà.

Il rapporto tra beni comuni e beni privati ha momenti storici cui bisogna prestare attenzione. È stato, lo ricorda giustamente l’autore, il codice napoleonico a — passatemi il termine — sdoganare il diritto di proprietà come elemento di parità tra censi, ed è stato Fiorentino Sullo a porre l’accento sul pericolo che un diritto straordinariamente agile e scarno, come lo definì Paolo Grossi, potesse — pur astrattissimo — incidere in modo concretissimo sui diritti generali della comunità.

Sullo pagò di persona la duplice intuizione, per allora precocissima, secondo cui mentre il diritto di proprietà si era strutturato attraverso una forte declinazione del dettato costituzionale, i così detti beni comuni attendevano la definizione operata dalla mano di una Corte Costituzionale ancora da venire.

Oggi ci sembra normale l’attività di una Corte che da un lato assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, ossia l’unità del diritto oggettivo nazionale, e dall’altro fornisce suggerimenti e indirizzi interpretativi allo stesso legislatore, in una sorta di funzione nomofilattica alternativa e concorrente con quella della Corte di Cassazione.

Ma nel 1962 non solo l’azione della Corte era, come si dice, di stretta osservanza, ma neppure era chiaro cosa fossero quelli che oggi chiamiamo beni della vita, comprendendo con questa espressione tutto ciò che abbia attitudine a soddisfare un bisogno umano, materiale o spirituale. E quindi beni materiali, beni immateriali piuttosto che attività umane atte a soddisfare un bisogno delle persone, come la stessa aspettativa ad un comportamento della pubblica amministrazione.

2- Scrive Schmidt, citato da Consonni, che l’occupazione della terra contiene in sé l’ordinamento iniziale dello spazio. Le posizioni di Schimdt non sono più considerate attuali, spesso desiderose come erano di fornire una giustificazione teorica a ciò che di teorico nulla aveva. Oggi la dottrina più avanzata non è quella che si occupa di urbanistica (o di rapporti tra proprietà e urbanistica) ma quella che si occupa di ambiente, solo pochi anni fa considerata la sorella povera, giuridicamente parlando, di un diritto diretta promanazione del diritto amministrativo.

A partire dalla convenzione di Århus del 1998 (sull’accesso alle informazioni, alla partecipazione dei cittadini e all’accesso alla giustizia in materia ambientale), quelle che sembravano affermazioni di principio prive di declinazione sostanziale non solo hanno occupato la legislazione ordinaria ma hanno trovato straordinaria e concretissima attuazione nella legislazione ambientale degli anno 2000 e successivi, arricchendo e arricchendosi del nuovo corso delle pronunce costituzionali in materia di ambiente, paesaggio e diritti comuni.

Un po’ quello che Martinotti scrisse a proposito della progettazione urbanistica degli anni ’60. Visionaria, certo, ma concretissima per gli anni 2000 e oltre, mentre quella degli anni ’90 — che si autodefiniva concretissima — è rimasta nella maggioranza dei casi (fortunatamente) inattuata.

Oggi siamo a un bivio, anzi ad un incrocio: da una parte giunge il diritto alla proprietà individuale che nel corso degli anni si è caricato di quegli elementi all’individualismo diffuso che nei fatti disconosce la funzione sociale della proprietà secondo l’art. 42 della Costituzione, e dall’altra si affacciano i nuovi diritti collettivi che non hanno possibilità di mediazione se non attraverso una rimodulazione del diritto di proprietà.

Sino ad oggi il conflitto è stato evitato attraverso normazioni negative: non fare. Il futuro è la normazione positiva: fai. La normazione negativa ha un vantaggio: statuisce per assiomi su cui è difficile distinguersi. Siamo tutti d’accordo che nel Parco Nazionale dello Stelvio non si possa costruire o che nell’arcipelago della Maddalena non si possano impiantare basi militari. La realtà è che la normazione negativa è debole perché conosce l’eccezione. Tanto è vero che nel Parco Nazionale dello Stelvio si costruisce e che nell’arcipelago della Maddalena ci sono basi militari.

Come la verità di Giovanni Giudici, la normazione positiva vuole “assai più semplici tempre. E ci dice che oggi il diritto di proprietà — come lo abbiamo ereditato dallo Statuto Albertino — si trova di fronte alla domanda: è compatibile con le istanze ambientali? Non è giunto il momento in cui la regolazione non del diritto di proprietà ma della pienezza del diritto di proprietà non è un’eccezione ma la regola di fronte alle istanze ambientali? E cosa intendiamo per istanze ambientali? Temi come tutela del paesaggio, della riduzione del consumo del suolo, dell’ambiente oggi sono declinati come diritti al paesaggio, alla riduzione del consumo di suolo, all’ambiente. E come tali, come diritti, attribuiscono ai titolari, singoli o collettivi che siano, l’arma dell’azione. Ecco la scomparsa, ormai prossima, di quella figura tutta italiana dell’interesse legittimo, ossia di un diritto (depotenziato) a che la pubblica amministrazione si comporti secondo legge.

Il diritto urbanistico — nato come costola del diritto delle espropriazioni sulle ceneri delle epidemie di colera a Londra e a Napoli piuttosto che dei piani nazionali ferroviari francesi della fine dell’800 — ha molto discusso della sua evoluzione, ma mentre discuteva è stato sorpassato dal più giovane e meno sedimentato, diritto dell’ambiente.

Così oggi la dottrina deve giocoforza ammettere che l’unica speranza di evoluzione di un diritto accartocciato sulla discussione di una legge urbanistica nazionale che non verrà mai - avendo le regioni approvato le loro nella sostanziale indifferenza del governo centrale - viene dalle nuove e più fresche istanze del diritto dell’ambiente che oggi si insegna abitualmente in uno con il diritto paesaggistico e dei beni culturali.

3- Se questo è il quadro di riferimento, che ruolo gioca la regolazione nella ricerca della bellezza, motore, prima che fine o risultato, come scrive Consonni?

Devo confessare che è usuale leggere negli scritti di architetti e ingegneri che la normativa urbanistica è in qualche modo un problema nella misura in cui detta brutte regole e quelle poche inapplicabili. Sono regole, si dice, che paralizzano l’attività ordinaria, non pianificano il futuro e nonostante questo non riescono a evitare le produzioni degli archistar.

Non entro nel merito della polemica sulle archistar, avendo gestito come assessore il processo dell’installazione di Life Electric di Daniel Libeskind sul tondello della diga foranea a Como, con annesse polemiche (prima) e migliaia di visitatori (poi), dove c’è voluto un architetto polacco naturalizzato statunitense per capire che le panchine che prima erano posizionate ai bordi rivolte al centro del tondello a ammirare un cestino dei rifiuti, dovevano essere messe al centro e rivolte al lago.

Però vorrei dire, con tutto il rispetto e con il rispetto di tutti, che le norme degli strumenti urbanistici ve le siete scritte voi architetti da sempre.

Non conosco norma tecnica locale che non sia stata scritta da un architetto. Solo da poco, pochissimo, le amministrazioni chiedono di scrivere le norme a chi le norme le applica tutti i giorni, cioè ai giuristi. E il giurista avrà moltissimi e infiniti difetti, ma non pretende di mischiare idealità a tecnica.

Lo dico per esperienza, avendo avuto occasione di collaborare con enti universitari e studi professionali a questo proposito, che ancora l’approccio non è corretto. Lo stato dell’arte oggi è questo: i progettisti consegnano ai giuristi una bozza di elaborato normativo su cui i secondi si applicano, restando però sempre soggetti alla continua elaborazione del materiale da parte dei primi. Domani, ed è un domani vicinissimo, ci sarà un momento in cui i progettisti saranno costretti a chiudere la parte contenutistica e solo in quel momento i giuristi elaboreranno la parte normativa.

In quel momento, e solo in quel momento, assisteremo alla definitiva nobilitazione delle due anime dello strumento: contenuti da una parte e strumenti per assicurare i contenuti dall’altra. Ognuno con le proprie peculiarità, ognuno con le proprie tecniche di scruttura. Senza commistioni.

Per fare un esempio di quanto norme tecnicamente ben scritte possano essere straordinariamente efficaci, pensate al codice civile, alla parte sulla famiglia. E precisamente all’art. 231, intitolato Della presunzione di paternità:

Il marito è padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio” (Libro primo — Delle persone e della famiglia → Titolo VII — Dello stato di figlio → Capo I).

Chiedetevi se una simile, bellissima, semplicità sarebbe stata possibile se a scrivere la norma fosse stato un consulente familiare di estrazione ultraortodossa piuttosto che un analista junghiano. Però così avviene per i piani urbanistici, dove i progettisti cercano spesso di supplire con le norme alle mancanze della parte progettuale riversandovi la propria formazione, la propria appartenenza e qualche volta, permettetemelo, le loro frustrazioni.

4- Il vantaggio di separare contenuto da contenuti può servire alla bellezza? O meglio, può servire a facilitare il raggiungimento di quella urbanità che Consonni auspica quale parte più preziosa della vita associata?

La domanda è sbagliata. Non spetta alla tecnica avere come obbiettivo la bellezza. Perché la bellezza non è un obbiettivo, è un motore. Perché, come ricordava Luigi Mazza in un articolo sul domenicale del Sole 24 Ore di anni fa, l’organizzazione spaziale, pubblica, delle città è espressione delle élite. Se la società non è in grado di esprimerle, se la società non cresce, difficilmente ci sarà quel rapporto dialogico che oggi piazza Gae Aulenti nega.

Perché? Perché se è vero che nel ‘900 i ceti dominanti si sono emancipati dall’appartenenza alla città, questo è stato possibile perché la città, l’organismo città, nulla ha detto su ciò. Ora, senza tornare tornare alle tensioni del concorso per la porta nord del battistero di Firenze del 1401, l’indifferenza verso la forma del proprio futuro è un problema sociale, non architettonico o di estetica.

Ecco. Credo che il tema di oggi, il tema cui si approccia con grande umanità Urbanità e bellezza di Giancarlo Consonni, sia questo.

La bellezza non nasce per caso, non ha nulla di soggettivo, non è appannaggio di singoli, ma è dono e come tale contiene il gesto del dare e quello del ricevere. Misteriosi entrambi, entrambi necessari, entrambi coscienti e consapevoli.

Sarebbe bello discutere di questo, ma direi che per oggi possiamo accontentarci.

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