La Provincia, ed. Como, 23.2.2024

Processo paratie: la lezione di un calvario durato 8 anni

La Provincia, ed. Como, 27/06/2024

Lorenzo Spallino
Published in
3 min readJun 29, 2024

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La vicenda delle paratie ha, finalmente, una data di inizio e una finale. La prima è il 1° giugno 2016, quando si tenne una affollata conferenza stampa in cui la Procura della Repubblica di Como rese noti i dettagli dell’inchiesta “Mimose” che aveva condotto agli arresti effettuati in mattinata dalla Guardia di Finanza: quattro le persone arrestate, di cui due in carcere e due ai domiciliari.

La seconda è il 14 giugno 2024, quando è stata depositata la sentenza cui la Corte di Cassazione ha messo la parola fine alla vicenda. Nel mezzo ci stanno i 12 anni di reclusione comminati dalla decisione di primo grado del 2019. Condanna che, pur importante, non soddisfò la Procura, la quale decise di appellare in quanto il Tribunale, pur condannando gli imputati, ne aveva «inspiegabilmente ridimensionato le responsabilità, facendone dei ^delinquenti^ per necessità, costretti a commettere reati per finire l’opera». Il 13 gennaio 2023 la Corte d’Appello di Milano ribaltò la decisione di primo grado. Assolto l’ex Sindaco Mario Lucini dall’accusa di falso “perché il fatto non sussiste”, prescritte le imputazioni di turbativa e falso relative allo spacchettamento degli incarichi e la mancata rescissione il contratto con Sacaim, assolti tutti gli altri imputati, con due sole condanne confermate per un’imputazione non relativa alle paratie. La Procura, ancora una volta non soddisfatta, appellò per le ipotesi di reato non prescritte. Dopo 8 anni dalla prima conferenza stampa ecco la sentenza della Cassazione che, come è stato sintetizzato su queste pagine, dice soprattutto una cosa: che sono stati contestati «reati laddove reati non ve n’erano».

La domanda che ricorre è: chi ripagherà le persone che hanno subito questo calvario? È una domanda sbagliata. Il sistema non prevede che lo Stato ammetta di avere sbagliato, che qualcuno chieda scusa, che ci sia una sorta di riconciliazione tra accusatori e accusati. Può avere senso chiedersi dove sono i protagonisti di questa vicenda? Temo di no. Da un lato, il dirigente di ANAC che aveva l’incarico di supervisionare il progetto delle paratie, indica a tutt’oggi nel suo profilo Linkedin che tra «le principali opere vigilate con ispezioni, atti di referto, monitoraggio e deliberazioni» c’è la «diga di protezione dalle esondazioni del Lago di Como», il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione ricopre la carica di Procuratore della Repubblica a Perugia e il Pubblico Ministero che sostenne l’accusa è alla Direzione distrettuale antimafia di Milano. Dall’altra parte, quella degli accusati, nessuno di quelli che erano in giunta ha proseguito l’attività amministrativa, mentre l’impegno politico dei pochi che l’hanno continuato si è estremamente ridotto. Difficile dar loro torto. Lo Stato garantisce, o cerca di garantire, che ci sia un giudice a Berlino che rimetta ordine. Che è quello che è successo. La domanda giusta non è nemmeno chi ripagherà questa città delle occasioni perse, dell’immobilismo istituzionale, della paura della firma, del clima di disaffezione alla cosa pubblica che l’indagine ha provocato. Possiamo dirci, senza andare molto lontano, che se le cose fossero andate diversamente oggi avremmo da tempo concluso il cantiere delle paratie (di certo senza la spianata brutalista attuale), approvato un nuovo strumento urbanistico, impostato le procedure di gara per la progettazione in Ticosa, rifatto i giardini a lago. Ma nemmeno questo servirebbe.

La domanda giusta è: cosa abbiamo imparato da questa vicenda? Se non abbiamo compreso, o almeno intuito, il dolore di chi ha sofferto, se non comprendiamo che non è scegliendo la sicurezza e la disciplina che possiamo allontanare la paura di cambiare, se non comprendiamo che l’arroganza e la maleducazione sono errori comportamentali, non attributi della personalità, avremo perso questa occasione. E con le nostre scelte non avremo nemmeno lenito, o tentato di lenire, il dolore di chi ha
operato convinto di fare il bene della città senza sapere di trovarsi dalla parte sbagliata del tavolo. Che è, poi, la ragione per la quale ci definiamo una comunità: prenderci cura l’uno dell’altro, rimediare là dove le istituzioni non rimediano, dimostrare con le nostre scelte che possiamo aspirare a qualcosa di più che sopravvivere.

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