La dignità della parola

Franco Bifo Berardi
2Grip
11 min readFeb 2, 2022

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di Luciana Bianchera

Foto Istubalz

“Quando le madri ci vestivano di rosso
Per affidarci alle onde senza riva
Si confondevano gli indumenti con il tramonto
Nelle acque che arrossavano con noi
Marmi dal candore violato
Dal sangue dei capri
Per il sacrificio di Isacco”
Enza Silvestrini “L’Assedio”

“In cerca del proprio Io lontano vanno gli esseri umani”
Yasunari Kawabata

Vorrei iniziare questo breve scritto con un inno al silenzio, a quel silenzio che ti fa sentire il sangue che scorre lungo il tuo corpo, ti fa sentire parte di uno spazio sconfinato, ti assesta nelle tue appartenenze di gruppo, di pensiero, di affetto.
Quel silenzio che non è non aver niente da dire ma decidere se e quando valga la pena di usare la parola, come e a chi rivolgerla, con quale obiettivo, con quale attitudine.

Da qualche tempo ho l’impressione che stiamo vivendo il terzo inverno in cui poche cose sono rimaste abituali o, come generalmente diciamo, normali.
Un altro inverno che alterna momenti gridati, abusi di informazione, mai esattamente verificata, con sentimenti di smarrimento, solitudine, decostruzione di pratiche relazionali che, piano piano, senza che ce ne rendiamo proprio conto, rischiano di liquefarsi.

La situazione di pandemia sembra averci fatto introiettare una autorità ordinata e dispotica: distanze, controlli, vaccini, tamponi organizzano il nostro abitare questo tempo tra un giorno e l’altro di lavoro, di sonno, di rabbia, insomma di vita quotidiana. Qualcuno tra noi avverte l’insinuarsi di sentimenti di tristezza, spossatezza, una sorta di resa difficile da mettere in parole, come un camminare lungo un sentiero affacciato su un abisso, come direbbe Flavio Ermini.
Si sente la fatica di ritrovare un sogno collettivo, una speranza di Cambiamento con cui identificarsi con entusiasmo e vitalità.

E io non posso, ora, non chiedermi: e l’amore, la fratellanza, lo scambio di parole con gli amici e le amiche, quello scambio che ti scalda il sangue in quegli spazi ritagliati tra una attività e l’altra? Quella sorta di sostegno che disegna i giorni, dà loro un senso nella reciprocità, nel pensare comune, nell’accogliersi come diversi ma insieme, quel disegno di amore tra le persone caldo, allegro su cui appoggiarsi e permettere agli altri di appoggiarsi?
Che cosa ne è di tutto questo nel vociferare ininterrotto di ordinanze e contro ordinanze, in questo allestimento di scenari catastrofici che il linguaggio imperante e la strategia del pensiero unico stanno rendendo sempre più drammatici?

Così mi capita di rifugiarmi di tanto in tanto in qualche spazio-tempo di silenzio e, da lì, ripensare alla vita vissuta.
A questo particolare dolore che non conoscevamo, ai sogni che mi assalgono la notte spesso spaventosi e disperanti.

In fondo quel che sento è che qualcosa in tutto questo andare, mi sfugge, non sto capendo realmente il senso di questo tempo rubato, sgualcito, sospeso.
L’incontro con l’altro in particolare, in quanto specchio di me stessa, mi presenta dilemmi inquietanti e talvolta invece si illumina come una strada percorribile in cui mi sento ancora viva e piena di possibilità.

In particolare ora sto pensando all’Altro Straniero, l’Altro migrante e a quella babele di lingue suoni e silenzi che caratterizza i nostri incontri orientati a comprendere meglio una sofferenza o certi smarrimenti con il fine, a volte improbabile, di sostenerli.

E in questo campo dell’accoglienza, più che mai densa di parole che escludono, negano, proibiscono cadendo come pietre sulle strade di migliaia di migranti, proprio qui puoi toccare con mano la responsabilità della parola, di linguaggi che si manifestano come l’espressione di un certo tipo di pensieri istituzionali, giuridici, politici di esclusione, pungenti come il filo spinato tanto invocato per sottolineare i confini.

Quando mi appresto al dialogo con gruppi di stranieri o singoli soggetti, so e loro sanno, che entreremo in una sorta di stanza non solo reale ma una camera che altri hanno già riempito di messaggi, di trasmissioni, di giudizi, pregiudizi.
Una stanza in cui da decenni, nel racconto degli eventi, nel dialogo all’interno dei gruppi informali di stranieri si suggerisce come sia meglio atteggiarsi, che cosa dire di te e delle tue esperienze, quanto dei tuoi traumi raccontare per ottenere quali risultati. Si prescrive dunque un copione appreso.

Così ogni volta che incontro un gruppo mi chiedo “come svuotare questa stanza il più possibile da parole già dette, da racconti prefabbricati” per lasciare spazio a un incontro tra culture ed esseri umani sul sottile filo di una autenticità fragile come una promessa, esigua come la luce invernale ma densa e pastosa di implicazioni, affetti, paesaggi, strade percorse, vicende personali che, per qualche ora, si intersecheranno.

E poi non sarà più come prima.

Allora, l’incontro ed il dialogo con lo straniero, sono veramente la responsabilità del tuo sguardo verso di lei o di lui, della cura che metti nello spazio in cui ospitare te, lui, loro, della scelta della lingua in cui si parlerà, italiano, inglese, francese, o se sarà necessario la lingua di origine con l’aiuto di un mediatore.
L’incontro insinua le differenze, le aspettative, le paure, spinge in avanti la sfiducia ed il dolore.
E da lì, spesso, si inanellano gesti di tenerezza, attenzione per le tue e le loro parole, le parole del gruppo.
Da lì capisci che ogni parola apre un sentiero piuttosto che un altro, disbosca una radura, solca un fiume di speranze o tradimenti.

Il tempo di un attimo e ti ritrovi preso dentro ad una conversazione in cui confluiscono brandelli di storia, eventi, violenza miseria e desiderio.
Ascolti con tutto il corpo per sopperire ad una mancanza di conoscenza linguistica e all’ignoranza dell’altrui cultura.
I corpi si fanno protesi verso gli altri, si tendono come salici verso l’acqua della comprensione.
Occhi mani stomaco, tutto entra in gioco in questo ascolto corporeo. Ed è nel ritmo che si riesce a stabilire tra il dire ed il non dire, tra le domande e cenni di risposta, tra i silenzi talvolta lunghissimi, che si intrattiene un’esistenza che ha minuscole opportunità di rinnovamento.
Storie di famiglia, luci, colori, sogni, entrano a far parte di quella babele che piano piano collega e spazza via almeno parzialmente, ciò che le normative e le anguste logiche di potere hanno già prestabilito.

Se l’intercalare e il gioco emozionale funzionano, eccoti li con gli altri davvero, per un po’ a sentire di rituali, di antenati, di futuro, di sciamani, fiumi, deserti e guerre che stanno sotto pelle a chi ti parla e a chi non ha più parole.
In quel momento le parole si fanno immagini e la stanza è un caleidoscopio di avvenimenti e frammenti che quasi puoi toccare con le mani.
La nostalgia percorre lo spazio, incide segni potenti nelle anime di chi sta in relazione, risveglia vicende personali e apre a spazi di temporanea e magnifica empatia.

Ti può capitare di chiudere, di tanto in tanto, gli occhi di fronte a tanta vita e tanta morte. e, la tua stessa vita, ti scorre ancora una volta a piccoli tratti dinnanzi.
Suoni, amori, perdite, teorie, maestri, tutto entra là dentro e sono certa ormai che l’Altro, in qualche modo, avverte il rumore dei tuoi pensieri e ti lascia pensare in una sorta di ritmo perfetto, curioso tra sconosciuti colti dall’intimità.
Molti si portano una mano al petto, in un dato momento in segno di presenza e rispetto.

Tu rispondi con lo stesso gesto o un altro che alluda alla sacralità di ciò che sta accadendo.
È tutto così vitale anche nelle testimonianze più brutali, nelle storie di violenza o abuso, di mare nero come un muro invalicabile, e messo lentamente in parola.
Sono parole dense di anima, per te, per gli altri, per chi verrà e per chi non esiste più: famigliari, compagni scomparsi, antenati.
La parola sacra si fa storia, ricuce fratture, tenta di riconnettere le scissioni, i vuoti dello sradicamento.
La parola del corpo e di qualche anima, ridanno struttura a esistenze martoriate ma che inspiegabilmente, quasi magicamente, restano vigili e desideranti.

I volti per qualche ora si distendono, le membra si rilassano sulle sedie e avanzano tra una fitta nebbia, prospettive di tornare nella vita dignitosamente.
Una dignità che in realtà, non è mai andata perduta e pone piuttosto in discussione, l’esser degno di chi lascia che tutto questo accada.

LA DIGNIDAD DE LA PALABRA

traduzione a cura di Antonio Tari.

“Cuando las madres nos vestían de rojo
Para confiar en las olas sin costa
La ropa se mezclaba con el atardecer
En las aguas que se enrojecían con nosotros
Mármol de candor violado
De la sangre de los cabritos
Por el sacrificio de Isaac”
Enza Silvestrini “El Asedio”

“En busca del propio Yo lejos van los seres humanos”
Yasunari Kawabata

Quisiera comenzar este breve escrito con un himno al silencio, a ese silencio que te hace sentir la sangre que fluye a lo largo de tu cuerpo, te hace sentir parte de un espacio ilimitado, te sitúa en tus pertenencias de grupo, de pensamiento, de afecto.
Ese silencio que no es no tener nada que decir sino decidir si vale la pena usar la palabra, cómo y a quién dirigirla, con qué objetivo, con qué actitud.

Desde hace algún tiempo tengo la impresión de que estamos viviendo el tercer invierno en el que pocas cosas han permanecido habituales o, como decimos generalmente, normales.
Otro invierno que alterna momentos gritos, abusos de información, nunca verificados exactamente, con sentimientos de extravío, soledad, deconstrucción de prácticas relacionales que, poco a poco, sin darnos cuenta, corren el riesgo de licuarse.

La situación de pandemia parece habernos hecho introducir una autoridad ordenada y despótica: distancias, controles, vacunas, tampones organizan nuestro habitar este tiempo entre un día y el otro de trabajo, de sueño, de rabia, en definitiva, de vida cotidiana. Algunos de nosotros sentimos la insinuación de sentimientos de tristeza, de fatiga, una especie de rendición difícil de poner en palabras, como caminar por un sendero que mira hacia un abismo, como diría Flavio Ermini.
Se siente la fatiga de volver a encontrar un sueño colectivo, una esperanza de Cambio con la que identificarse con entusiasmo y vitalidad.
Y yo no puedo, ahora, no preguntarme: ¿y el amor, la fraternidad, el intercambio de palabras con los amigos y las amigas, ese intercambio que te calienta la sangre en esos espacios recortados entre una actividad y la otra? ¿Esa especie de apoyo que dibuja los días, les da un sentido en la reciprocidad, en el pensamiento común, en acogerse como diferentes pero juntos, ese designio de amor entre las personas cálido, alegre sobre el que apoyarse y permitir a los demás apoyarse?

¿Qué es todo esto en el continuo vociferar de órdenes y contra órdenes, en este montaje de escenarios catastróficos que el lenguaje imperante y la estrategia del pensamiento único están haciendo cada vez más dramáticos?
Así que me escondo de vez en cuando en algún espacio-tiempo de silencio y, a partir de ahí, pensar en la vida vivida.
A este particular dolor que no conocíamos, a los sueños que me asaltan la noche a menudo aterradores y dispersos.

En el fondo lo que siento es que algo en todo este ir, se me escapa, no estoy entendiendo realmente el sentido de este tiempo robado, arrugado, suspendido.
El encuentro con el otro en particular, en cuanto espejo de mí misma, me presenta dilemas inquietantes y, en cambio, a veces se ilumina como un camino practicable en el que me siento todavía viva y llena de posibilidades.

En particular ahora estoy pensando en el Otro Extranjero, el Otro migrante y en la babel de lenguas sonidos y silencios que caracteriza nuestros encuentros orientados a comprender mejor un sufrimiento o ciertos extravíos con el fin, a veces improbable, de sostenerlos.
Así que cada vez que me encuentro con un grupo me pregunto “cómo vaciar esta habitación lo más posible de palabras ya dichas, de cuentos prefabricados” para dejar espacio a un encuentro entre culturas y seres humanos en el sutil filo de una autenticidad frágil como una promesa, exigua como la luz invernal pero densa y pastosa de implicaciones, afectos, paisajes, caminos recorridos, vicisitudes personales que, durante algunas horas, se interceptarán.

Y luego no será ya lo mismo.

Entonces, el encuentro y el diálogo con el extranjero, son verdaderamente la responsabilidad de tu mirada hacia ella o el, del cuidado que pones en el espacio en el cual hospedarte a ti, a él, a ellos, de la elección del idioma en el que se hablará, italiano, inglés, francés, o si será necesario el idioma de origen con la ayuda de un mediador.

El encuentro insinúa las diferencias, las expectativas, los temores, empuja hacia adelante la desconfianza y el dolor.
Y desde allí, a menudo, se ensanchan gestos de ternura, atención por tus palabras, las palabras del grupo.
Desde allí te das cuenta de que cada palabra abre un sendero en lugar de otro, desborda un claro, surca un río de esperanzas o traiciones.

El tiempo de un momento y te encuentras atrapado dentro de una conversación en la que confluyen fragmentos de historia, eventos, violencia miseria y deseo.
Escuchas con todo el cuerpo para compensar una falta de conocimiento de idiomas y la ignorancia de la cultura de los demás.
Los cuerpos se inclinan hacia los demás, se tensan como sauces hacia el agua de la comprensión.
Ojos, manos, estómago, todo entra en juego en esta escucha corporal. Y es en el ritmo que se logra establecer entre el decir y el no decir, entre las preguntas y las señales de respuesta, entre los silencios a veces muy largos, que se entretiene una existencia que tiene minúsculas oportunidades de renovación.
Historias de familia, luces, colores, sueños, entran a formar parte de esa babel que poco a poco conecta y elimina al menos parcialmente, lo que las normativas y las angustiosas lógicas del poder ya han preestablecido.

Si el intercalar y el juego emocional funcionan, aquí estás con los demás realmente, por un tiempo, escuchando rituales, de antepasados, de futuro, de chamanes, ríos, desiertos y guerras que están bajo la piel de quien te habla y de quien no tiene más palabras.
En ese momento las palabras se hacen imágenes y la habitación es un caleidoscopio de acontecimientos y fragmentos que casi puedes tocar con las manos.

La nostalgia recorre el espacio, incide signos poderosos en las almas de quienes están en relación, despierta vicisitudes personales y abre espacios de temporal y magnífica empatía.

Te puede suceder de vez en cuando, cerrar los ojos ante tanta vida y tanta muerte. Y tu propia vida, una vez más, fluye en pequeños momentos delante de ti.
Sonidos, amores, pérdidas, teorías, maestros, todo entra allí y estoy segura de que el Otro, de alguna manera, percibe el ruido de tus pensamientos y te deja pensar en una especie de ritmo perfecto, curioso entre extraños cultos por la intimidad.
Muchos llevan la mano al pecho en un momento dado como señal de presencia y respeto.
Tú respondes con el mismo gesto u otro que alude a la santidad de lo que está sucediendo.

Todo es tan vital incluso en los testimonios más brutales, en las historias de violencia o abuso, de mar negro como un muro infranqueable, y poco a poco puesto en palabras.
Son palabras densas de alma, para ti, para los demás, para quien vendrá y para quien ya no existe: familiares, compañeros desaparecidos, antepasados.

La palabra sagrada se hace historia, recubre fracturas, intenta reconectar las escisiones, los vacíos del desarraigo.
La palabra del cuerpo y de algún alma, devuelven estructura a vidas martirizadas pero que inexplicablemente, casi mágicamente, permanecen vigilantes y anhelantes.

Los rostros se relajan durante unas horas, los miembros se relajan en las sillas y avanzan entre una densa niebla, perspectivas de volver a la vida dignamente.
Una dignidad que en realidad nunca se ha perdido y más bien pone en tela de juicio el ser digno de quien deja que todo esto suceda.

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Franco Bifo Berardi
2Grip
Writer for

born in 1949, based in Bologna, phd in philosophy, writer