Il cervello è un social network

90 miliardi di neuroni, ciascuno dei quali si connette potenzialmente con altri 20 mila, formando nel complesso 100 mila miliardi di sinapsi. L’idea del cervello fatto come un network la riteniamo molto moderna, ma in realtà arriva dal passato. Ce lo racconta Roberto Furlan vice direttore dell’Istituto di Neurologia Sperimentale dell’Ospedale San Raffaele di Milano.

AISM onlus
7 min readMay 23, 2017
Roberto Furlan (IRCCS San Raffaele) durante il talk che si è svolto a Milano il 17 maggio 2017 in occasione di Pint od Science

C’era una volta la frenologia. Era la seconda metà del 1700, e Franz Joseph Gall, un medico tedesco, teorizzava che il cervello fosse diviso in regioni e (per ridurla all’osso) che ciascuna fosse preposta a un compito specifico. Oggi la frenologia non c’è più e il pensiero che permea le neuroscienze è un altro: il cervello è visto come un grandissimo social network. Cosa significa? “Che le funzioni cerebrali sono il frutto di una circuiteria, in cui moltissime aree, che svolgono elaborazioni differenti, sono coinvolte contemporaneamente”, risponde Roberto Furlan, medico e ricercatore, vice direttore dell’Istituto di Neurologia Sperimentale dell’Ospedale San Raffaele di Milano, dove è responsabile dell’unità di ricerca in Neuroimmunologia Clinica. Furlan lo dice con in mano una pinta di birra, all’Ostello Bello Grande di Milano, dove lo scorso 17 maggio si è tenuto uno degli incontri di Pint of Science, organizzato in collaborazione con AISM. Dal 2013, la manifestazione porta brillanti ricercatori a parlare di cellule e provette nei pub. Così ecco il neuroscienziato di fronte a un folto pubblico che forse di neuroni non si intende molto, ma di social network sicuramente sì.

Questa idea del cervello fatto come un network — dice — la riteniamo molto moderna, ma in realtà arriva dal passato. Ci sono precursori nella storia che vedono molto lontano e uno di questi era il danese Niccolò Stenone: siamo nella seconda metà del 1600, Stenone è all’Università di Firenze e intuisce che le funzioni cerebrali possano essere localizzate in circuiti. Per chi conosce come funziona un computer è facile da capire, ma per quei tempi era un pensiero rivoluzionario”.

Ecco qualche numero per capire di che circuiteria parliamo: 90 miliardi di neuroni (le cellule del cervello che elaborano le informazioni), ciascuno dei quali si connette potenzialmente con altri 20 mila, formando nel complesso 100mila miliardi di sinapsi (contatti). “Un cablaggio complessivo di due milioni di chilometri — dice Furlan — di cui un milione e mezzo è concentrato in appena mezzo litro di sostanza grigia”. Per avere un riferimento, basti pensare che la circonferenza terrestre misura circa 40mila chilometri e la distanza tra la Terra e la Luna 384.400. “E il funzionamento di questa rete — riprende il neuroscienziato — consuma quanto una lampadina di quelle piccole: 20 watt, che corrispondono al 20% del consumo di un corpo a riposo”.

Ancora oggi, comunque, siamo ben lontani dall’aver compreso come funzionino i network che abbiamo nella scatola cranica. “In questo momento — riprende Furlan — ci sono decine, forse centinaia di laboratori in cui i ricercatori si stanno chiedendo, ad esempio, come funzioni la memoria. Sappiamo che non esiste una sede della memoria, che è una qualità diffusa, ma non abbiamo nemmeno una teoria delle reti della memoria. Quello dei network è un concetto: un modello che stiamo investigando con tecnologie relativamente limitate. Le più avanzate sono quelle di imaging funzionale, che mostrano quali aree si attivano contemporaneamente durante lo svolgimento di un compito e ci permettono di ipotizzare delle connessioni. In questo modo possiamo ricavare delle mappe dei network: sono tutte elaborazioni arbitrarie e in continua evoluzione”.

Nelle neuroscienze, c’è chi affronta il problema da tutta un’altra angolazione. Tra le tante teorie della mente che si stanno elaborando in questi anni, c’è quella di Daniel Kahneman — che gli è valsa un Premio Nobel — secondo cui abbiamo due ‘cervelli’: uno costantemente all’opera, veloce, e uno lento, che entra in funzione solo quando lo richiediamo. “La realtà che conosciamo adesso esiste da neanche cent’anni”, racconta lo scienziato. “Pensiamo invece a quando eravamo prede. Se senti un ramoscello che si spezza alle tue spalle e gli uccellini smettono di cantare, non ci pensi due volte ad arrampicarti sul ramo più alto. Ci rifletti poi, con calma, sul fatto che poteva essere una lucertola e non la tigre dai denti a sciabola. Comunque, se fosse stata la tigre, quel riflesso del cervello veloce ti avrebbe salvato la vita. Questo sistema ‘1’, primordiale, che oggi usiamo molto mentre guidiamo per esempio, è quello evolutivo: fantastico e indispensabile. Purtroppo è soggetto a errori sistematici ed è facilmente ingannabile. Il sistema ‘2’, invece, è quello lento, capace di calcolo, di elaborazione profonda, e ci dà i prodotti più qualitativi del nostro pensiero. Tutto questo per dire che siamo ancora molto lontani dal riuscire a spiegare i comportamenti con la teoria dei network e dal metterla insieme alle teorie della mente, come quella di Kahneman”.

Roberto Furlan (IRCCS San Raffaele) durante una pausa dopo il talk di Pint od Science

Gli elementi di base della circuiteria, quelli sì, li conosciamo bene. I neuroni sono come dei relè, cioè degli interruttori, che ricevono i segnali di natura elettrica da altri neuroni a monte, li elaborano parzialmente e li trasmettono, tramite l’assone e le sinapsi, ai neuroni a valle (ciascun neurone può anche “decidere” — a seconda dell’intensità del segnale o di altri segnali concomitanti — se ritrasmettere o meno l’impulso).

Pensiamo a quando guidiamo e contemporaneamente parliamo con la persona a fianco, o a quando attraversiamo la strada: ci muoviamo e contemporaneamente stimiamo la velocità delle auto che arrivano. O a chi gioca a tennis, che prevede la traiettoria della pallina e programma la risposta. Sono azioni banalissime, ma se non esiste ancora un automa in grado di compierle è perché richiedono una complessità e una velocità di calcolo incredibili.

Ecco, proprio la velocità della comunicazione del segnale è un punto cardine su cui è importante concentrarsi. “Per spiegarla — dice Furlan — bisogna introdurre un altro elemento di base della biologia: la mielina. Immaginiamo di essere alla guida di un’auto e di vedere le luci posteriori del camion davanti che si accendono di un rosso violento. Dal momento in cui questa immagine colpisce la retina dell’occhio, succedono molte cose. Dalla retina, il segnale passa alla corteccia occipitale, che lo elabora; da qui raggiunge alcune aree associative che gli daranno un significato: ‘il camion davanti sta frenando, devo fare qualcosa’. Segue un altro passaggio ad un’altra corteccia associativa che dice ‘frena!’; quindi arriva alla corteccia motoria che dice ‘tira giù il piede’. Il motoneurone primario invia un impulso che corre giù sulla colonna vertebrale nel midollo spinale, fino al secondo motoneurone, che ha un assone lunghissimo, più di un metro, e raggiunge il muscolo del polpaccio. Che, contraendosi, fa finalmente abbassare il piede sul freno. È un percorso che, anche in chi non è molto alto come me, misurerà almeno due metri”. Bene, la domanda è: quanto ci mette il segnale a percorrerlo? “Su un assone ‘nudo’, l’impulso viaggerebbe a circa un metro al secondo, noi ci metteremmo due secondi a schiacciare il freno e a quest’ora saremmo tutti spiaccicati contro il camion. Invece no, perché esiste una sostanza che riveste l’assone, la mielina appunto, che permette una conduzione elettrica ‘speciale’, la conduzione saltatoria, che ne accelera fino a cento volte la velocità. Se il segnale viaggia a cento metri al secondo, allora abbiamo un potenziale di reazione di due centesimi di secondo. Nella realtà, la maggior parte di noi reagisce in circa due decimi di secondo, comunque sufficienti a frenare con tutta tranquillità mentre continuiamo a chiacchierare con l’amico a fianco”.

In alcuni casi, però, la mielina e di conseguenza i nervi sono attaccati e distrutti dai globuli bianchi che fuoriescono dai vasi sanguigni. Al posto delle fibre si formano allora delle cicatrici, che non sono più in grado di trasmettere i segnali. “Questo è il meccanismo alla base di una malattia come la sclerosi multipla — riprende Furlan — una patologia autoimmune molto frequente, che colpisce in prevalenza giovani donne tra i 30 e i 40 anni. I globuli bianchi attaccano soltanto il sistema nervoso centrale e non quello periferico, sebbene anche lì ci sia la mielina. Il cervello sarebbe in grado di riparare il danno, ma non quando si forma la cicatrice. In questi casi, il network si danneggia”. I sintomi sono i più disparati, perché l’attacco può avvenire in qualsiasi punto, sebbene ve ne siano di più frequenti. L’80% dei pazienti esordisce con forme a ‘ricadute e remissioni’, in cui i sintomi durano in media 4–5 settimane: vuol dire che, in questo lasso di tempo, il cervello ripara il danno oppure lo recupera: “Laddove c’è una perdita definitiva di neuroni e di connessioni, i network si riorganizzano”, conclude il ricercatore: “Non a caso i percorsi di riabilitazione per chi ha la sclerosi multipla non sono soli fisici ma anche cognitivi. Si stimola il cervello in modo tale che trovi la migliore combinazione per recuperare le funzionalità danneggiate”.

Il talk di Roberto Furlan si è svolto all’interno della cornice di Pint of science, evento di divulgazione scientifica al quale AISM ha partecipato con una serie di iniziative parte del programma di Settimana Nazionale della sclerosi multipla (27 maggio — 4 giugno 2017).

Roberto Furlan è responsabile dell’unità di Neuroimmunologia Clinica dell’Istituto di Neurologia Sperimentale, Divisione di Neuroscienze presso l’Istituto Scientifico San Raffaele di Milano e vice direttore dell’Istituto di Neurologia Sperimentale dell’Ospedale San Raffaele di Milano.
E’ ex membro del Comitato scientifico FISM (Fondazione Italiana Sclerosi Multipla).

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Associazione Italiana Sclerosi Multipla. Diritti, persone, ricerca, per un mondo libero dalla sclerosi multipla.