Col cuore in mano

1985–2015 Trent’anni dal primo trapianto di cuore a Bergamo

Bergamonews
10 min readDec 3, 2015

di Isaia Invernizzi@ Easyinve

Illustrazione di Alessandro Adelio Rossi

“Quanto è passato, Paolo?” Le lancette dei secondi attraversano il quadrante al rallentatore. Ore 2,23 del mattino. 23 novembre 1985. Nella sala sala operatoria degli ospedali Riuniti di Bergamo Paolo Ferrazzi e Lucio Parenzan si scambiano uno sguardo. Il cuore che hanno impiantato nel petto di Roberto Failoni, 48 anni, non dà cenni di vita. Gli occhi di tutta Italia sono puntati su quella sala di pochi metri quadrati. E’ la prima volta che qui viene tentata un’impresa simile. Ore 2,24. Una “smorfietta”, appena percettibile. I secondi iniziano a trottare, la squadra di medici è tesa. E’ l’attimo decisivo. Non è stato sbagliato un solo passaggio, niente può andare storto. Ore 2,25. Il cuore comincia a battere di buona lena. Gli ultimi tre minuti sono sembrate ore. Il silenzio viene rotto da un applauso. In quella sala operatoria è stata appena scritta la storia.

Il professor Paolo Ferrazzi non dimenticherà mai quella notte: Il primo trapianto a Bergamo, il suo primo trapianto.

“Cosa ricordo di quelle ore? Sono state speciali. Abbiamo fatto tutto come andava fatto. Un lavoro minuzioso, soprattutto nella preparazione. Insieme a Lucio Parenzan valutammo un candidato che non stava rischiando la vita. Poi è arrivato Failoni, con un edema polmonare. La scelta era rischiosa ma è stata fatta a favore della medicina e del paziente, per il loro bene. Anche se fuori c’erano oltre 100 giornalisti siamo stati coraggiosi. Tutto è andato bene, non ci sono state complicazioni”.

Paolo Ferrazzi

Cosa è cambiato in 30 anni? “Proprio quella notte abbiamo capito che ogni paziente è un caso da studiare a fondo. Un trapianto non vale l’altro. Serve una preparazione caso per caso, per valutare tutte le implicazioni. Questa consapevolezza ha permesso a tutto l’ospedale, in tutti i reparti, di crescere e migliorare. Rispetto a 30 anni fa si fanno meno trapianti. I donatori sono diminuiti, ma soprattutto ci sono malattie che si curano con terapie farmacologiche o con interventi alternativi al trapianto”.

Lei che è un pioniere, cosa si aspetta dal futuro? “Dovrebbe essere consentito uno studio più approfondito sui cuori espiantati, per capire le origini delle malattie e cercare cure preventive. Io credo che dovrebbe essere obbligatorio, per gli ospedali che hanno un centro trapianti, investire nella ricerca”.

Quali consigli darebbe a un medico che vuole seguire la sua strada? “Specializzarsi nei tanti settori della medicina coinvolti da un trapianto. E poi ovviamente studiare tanto. E’ una strada lunga, la ricerca e lo studio sono fondamentali”.

Roberto Failoni, il primo trapiantato di cuore a Bergamo

Il dono di Nicholas

Nelle sale operatorie dei Riuniti e del nuovo Papa Giovanni XXIII i medici hanno provato quel brivido 918 volte. Quasi mille cuori hanno ridato vita a persone altrimenti destinate alla morte, un risultato possibile solo grazie a quel primo pionieristico intervento del 23 novembre 1985. Per celebrare quell’impresa l’ospedale organizza due giornate in cui i cittadini potranno ascoltare la testimonianza dei protagonisti di questa “energia per la vita”. Ad esempio mr. Reginald Green, padre del piccolo Nicholas, ucciso in una sparatoria.

La famiglia era in vacanza in Italia, diretta in Sicilia. La loro auto viene scambiata per quella di un gioielliere: i rapinatori iniziano a sparare e Nicholas, 7 anni, muore. “Due giorni dopo quei colpi mortali — racconta in questo video il signor Green –, i medici del Policlinico di Messina ci dissero che non c’era più niente da fare. Ed è stato in quel momento che abbiamo capito quanto diventava importante che la scelta che stavamo per compiere fosse stata presa prima, insieme a mia moglie, in un normale momento di serenità familiare. Fu Maggie, in quel momento di disperazione, a ricordarmi di quella promessa. Perché lì, davanti a un figlio perso per sempre, certe decisioni è difficile prenderle se non le hai già maturate prima. Quel giorno, vedendolo per l’ultima volta sul lettino dell’ospedale, avrei voluto donare anche le sue lentiggini”. Il sacrificio di Nicholas non è stato vano: “All’epoca — sostiene Reginald Green — l’Italia aveva il tasso di donazione degli organi più basso delle principali nazioni in Europa Occidentale. Subito dopo la morte di Nicholas, nel quarto trimestre del 1994, le donazioni si impennarono e nei successivi dieci anni sono cresciute anno dopo anno fino a triplicare! Non conosco nessun’altra nazione che abbia raggiunto un tale tasso di crescita e così migliaia di persone, molte delle quali giovani, che sarebbero morte, oggi invece sono vive. Un incremento di tale portata deve avere molteplici cause, inclusi i rapidi progressi della medicina, la dedizione di un’armata di professionisti del settore sanitario e volontari, il supporto della Chiesa e delle autorità civili. Ma appare chiaro che la storia di un bambino ha cambiato il modo di pensare di milioni di persone”.

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L’incontro “Il Dono di Nicholas: da 1 vita a 7” con Reginald Green è in programma venerdì 11 dicembre, ore 20.45 all’auditorium Collegio Sant’Alessandro via Garibaldi, 3H — Bergamo.

Sabato 12 dicembre invece si terrà il convegno “Trent’anni dopo. L’eredità di Lucio Parenzan e il futuro dei trapianti”. Alle 9 verrà intitolato l’auditorium dell’ospedale a Lucio Parenzan, mentre a seguire sono in programma incontri con i protagonisti di oggi.

Il pioniere

Vi proponiamo alcuni passaggi dell’intervista rilasciata da Lucio Parenzan a L’Eco di Bergamo nel novembre 2005 in occasione del ventesimo anniversario del primo trapianto di cuore. Medaglia d’oro alla sanità pubblica, luminare riconosciuto in tutto il mondo, Parenzan si è spento il 28 gennaio 2014 all’ospedale di Bergamo.

Professor Parenzan, che ricordo ha di quella notte? “Un po’ confuso (ride) … Sono passati vent’anni! Quanto la fate lunga con ’sto trapianto». Tutto qui? «No, scherzavo. Fu una notte magica, con un cuore in mano. Ero molto commosso, molto emozionato. Ricordo tutto: la sala in cui ero a coordinare l’intervento, la rapidità con cui tutti si affannavano ad aprire le porte per non perdere nemmeno un minuto, l’attimo in cui il cuore nuovo di Failoni cominciò a battere … prima solo una “smorfietta”, poi di buona lena, segno che non era in blocco e che tutto era andato bene”.

Lucio Parenzan e Christiaan Barnard

E in quel momento cos’ha provato? “Quando riparte il cuore, tutti battono le mani, non occorre avere molta fantasia. Oggi non si fa più, ma dentro continuiamo a batterle lo stesso. Prima che il muscolo cardiaco ricominci a pulsare passano due, tre minuti: sembrano tempi lunghissimi …”.

C’è qualcosa che oggi non rifarebbe di quell’intervento? “No: quella volta abbiamo fatto davvero tutto bene. In sala c’era Paolo Ferrazzi, che fece sia il prelievo sia l’impianto, Vittorio Vanini, Roberto Tiraboschi e Federico Brunelli. Avevamo il nostro bel libro di come si doveva fare… e poi eravamo pronti, ci eravamo preparati a dovere. L’anno prima avevo mandato Ferrazzi a Birmingham, negli Stati Uniti, a imparare da John Kirklin. Io avevo visto i primi trapianti di cuore già nel 1969, a Palo Alto, quando rimasi un bel po’ con Norman Shumway. L’anno prima ero stato da Denton Cooley che subito dopo l’intervento di Barnard si scatenò facendone un mucchio. All’epoca non c’erano farmaci antirigetto, non c’erano biopsie: in America guardavano il voltaggio dell’elettrocardiogramma per vedere se c’era qualcosa che non andava, tutto lì”.

“Ricordo la soddisfazione di tutti, dei familiari, della direzione sanitaria, della città, l’incontro con i giornalisti… quanta gente ci girava intorno. Certo, c’era anche chi diceva che avremmo dovuto aspettare altri due anni, che non eravamo pronti, ma io sapevo che non era così. Eravamo fortissimi, e non solo noi della Cardiochirurgia, ma anche di tutti gli altri reparti coinvolti: l’Anatomia patologica, le Malattie infettive, il Laboratorio di Analisi, la Cardiologia, la Pneumologia, la Rianimazione e l’Anestesia, il Centro trasfusionale, tutti, tutti… Abbiamo anche imparato tante cose: l’attività di trapianto ha portato all’ospedale una quantità di stimoli che ha fatto solo bene, e questa è una cosa di cui si parla sempre troppo poco. Non c’è reparto che non ne abbia beneficiato, perfino l’amministrazione ospedaliera ha imparato tante cose, anche se forse non vuole sentirselo dire. È andata bene per i trapiantati, ma meglio per i sani che dopo hanno avuto bisogno dell’ospedale”.

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Foto di Fabio Proverbio per il documentario “Il Dono”

L’eredita di Lucio Parenzan è stata raccolta da Amedeo Terzi, responsabile del centro trapianti di cuore dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, e Orazio Valsecchi, direttore del dipartimento cardiovascolare dell’ospedale. “Lavoro in questo ospedale da 35 anni e quei 30 anni da quel primo trapianto di cuore è cambiato che l’ospedale è cresciuto, è maturato, è dinventato più adulto — spiega Valsecchi -. Un trapianto di cuore non è solo un gesto. E’ un grosso contenitore che comporta la partecipazione e l’attenzione di tanti attori protagonisti. Abbiamo imparato tutti, tutto l’ospedale è cresciuto con il trapianto di cuore. Non solo la cardiochirurgia, ma anche tutte le altre unità hanno avuto un momento e occasione di crescita. Seguire il paziente prima, durante e dopo ha comportato l’aprire di nuove situazioni: problemi ematologici, infettivologici, ortopedici, psicologici risolti grazie alla ricerca spinta dai trapianti. Ricordo quel giorno di 30 anni fa: “purtroppo” avevo la metà degli anni che ho adesso e ricordo la grande partecipazione, l’impegno nella preparazione, l’emozione del momento e anche i timori per il dopo”.

Amedeo Terzi in un’immagine del documentario “Il dono”

Amedeo Terzi è colui che ora guida l’equipe del trapianto di cuore. “Siamo usciti dalla fase pionieristica, adesso abbiamo certezze e conoscenze maggiori. E’ un intervento che svolgiamo di routine. 30 anni fa invece, soprattutto il primo trapianto, fu un evento eccezionale. Le difficoltà di oggi sono legate al fatto che un tempo il trapianto era riservato a pazienti che avevano una patologia intrattabile, ma da un punto di vista clinico erano più “facili”. Al contrario il donatore attuale è più “anziano” perché l’evento del casco, la diminuzione dei traumi stradali mortali ha ridotto il numero di donatori di cuore e questo fatto ha spostato in avanti l’età del donatore”. Proprio sui donatori, senza i quali non sarebbe possibile salvare migliaia di vite ogni anno, si concentra il pensiero di Valsecchi: “Va aumentata e promossa la cultura della donazione, che ha un significato grandissimo: la perdita di una vita fa rifiorire tante vite. Un soggetto che muore prematuramente può favorire pazienti che aspettano un cuore, un rene, un fegato. La donazione è un atto di grande altruismo, che ripaga veramente tantissimo”.

In questo video potete ascoltare l’intervista completa a Orazio Valsecchi e Amedeo Terzi

A proposito di donazione, l’attività è in incremento e l’opposizione dei familiari è in diminuzione grazie a costanti iniziative di informazione e sensibilizzazione per le scuole e i cittadini. Da segnalare anche l’importanza della nuova procedura di comunicazione con le famiglie dei donatori e la campagna “Una scelta in comune” per la dichiarazione di volontà al rinnovo della carta di identità. Bergamo è l’unico capoluogo di provincia di Lombardia ad esser partito con il programma, a maggio del 2015.

Il personale dell’ospedale ha tenuto corsi di formazione dedicati ai dipendenti di molti uffici anagrafe in collaborazione con l’ufficio sindaci dell’Asl. I risultati parlano chiaro: in Comune a Bergamo, da maggio a ottobre, hanno aderito al progetto ben 1.241 sui 1.295 che hanno rinnovato il documento. La decisione dei cittadini, sia positiva che negativa, stata inserita nel sistema informativo trapianti, il database nazionale che permette ai medici di consultare la volontà di una persona.

Guarda il video del documentario “Il dono”

Foto di Fabio Proverbio per il documentario “Il Dono”

I dati e il futuro

Abbiamo realizzato una semplice infografica per mostrare quanti trapianti, divisi per tipologia, sono stati eseguiti dal 1985 ad oggi. Ma quanto sono importanti i dati, anzi i Big Data in medicina? Parenzan, Ferrazzi, Locatelli e tutti i loro allievi hanno immagazzinato un patrimonio di dati basato sulle espressioni facciali dei pazienti al risveglio dopo un’operazione oppure sul ritmo del respiro.

Ora questo monitoraggio è svolto anche dalle macchine, che hanno solo in parte sostituito e reso più efficiente il lavoro del medico. Ad esempio con l’analisi di milioni di dati con l’obiettivo di perfezionare cuori artificiali per i bambini in attesa di trapianto. Una dimostrazione dell’impatto di questa nuova frontiera è stata fatta ad Austin, in Texas, dalla National Instruments. Dato che il corpo di un bimbo non può ospitare un cuore artificiale, il dispositivo viene posizionato all’esterno e poi collegato al cuore malato attraverso cannule. Ora è possibile mettere alla prova i cuori artificiali simulando per 24 ore la normale funzione cardiaca riuscendo a raccogliere grandi quantità di dati in tempo reale.

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La linea del tempo

Abbiamo realizzato una linea del tempo con tutte le date più significative della storia dei trapianti all’ospedale di Bergamo, prima ai Riuniti e poi al Papa Giovanni XXIIII

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Grazie a Vanna Toninelli, responsabile dell’ufficio stampa dell’ospedale Papa Giovanni XXIII, Federica Belli e Mariangelo Cossolini, responsabile dell’unità di coordinamento prelievo/trapianto organi e tessuti dell’area provincia di Bergamo. Grazie a Orazio Valsecchi, Amedeo Terzi e Paolo Ferrazzi per la disponibilità e a tutti i professionisti che lavorano o hanno lavorato all’ospedale di Bergamo.

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