Giulio Regeni: alcuni fatti

CILD
16 min readMar 18, 2016

--

Di Ahmed Ragab e Mustafa al-Marsafawi

Questo testo è una traduzione dell’articolo pubblicato in inglese su Jadaliyya — con il permesso della testata. L’articolo era apparso originariamente in arabo su Al Masry Al Youm

25 febbraio: il sit-in organizzato da CILD, Amnesty Italia e Antigone davanti all’ambasciata egiziana a un mese dalla scomparsa di Giulio Regeni (foto: CILD)

Nel freddo di metà dicembre, il ragazzo dai lineamenti europei uscì di casa nel quartiere di Doqqi, al Cairo, passando accanto a un edificio con la targa «Proprietà dell’artista Mohamed Rushdi». Dentro c’era una piccola palestra, davanti alla quale stazionavano sempre diversi giovani, che con i loro corpi imponenti coprivano un muro giallo sbiadito. Quel colore e il gruppetto di ragazzi fermi lì davanti spezzavano il ritmo solitamente tranquillo della via, che si trova a pochi metri dal trambusto di viale Tahrir.

Il ragazzo entrò nel frastuono della stazione della metropolitana, per poi uscire nel silenzio di un tardo venerdì pomeriggio all’inizio di via Qasr el Aini. Da lì si fece strada verso due sale in cui regnava un diverso tipo di cacofonia: i sogni e le speranze dei leader sindacali egiziani.

Giunto al Centro servizi per i lavoratori e i sindacati, cercando di evitare le tante videocamere e macchine fotografiche, si piazzò in un angolo a seguire i discorsi dei leader sindacali e degli attivisti per i diritti dei lavoratori. Duri e diretti, si scagliavano contro il governo per aver diffuso una pubblicazione che invitava al boicottaggio dei sindacati indipendenti.

Stando ai suoi amici, il ragazzo era rimasto profondamente scosso dall’intensità della riunione e dal coraggio di chi interveniva. Qualcuno però l’aveva fotografato, e questo l’aveva turbato. Alla fine di quella giornata, il turbamento si era trasformato in ansia.

Da quando, più di due mesi prima, a metà settembre, era arrivato al Cairo — confidò l’indomani a un amico — era la prima volta che provava una sensazione del genere. Lo riferiscono al quotidiano indipendente Al Masry al Youm alcune fonti che hanno chiesto di rimanere anonime.

Dopo la riunione, Giulio Regeni tornò verso il centro del Cairo, diretto verso lo Strand Cafe nel quartiere Bab al Luq. Ricercatore presso l’università di Cambridge, stava andando a incontrare per la prima volta Fatma Ramadan, leader del sindacato indipendente degli esattori fiscali, una delle due organizzazioni su cui si concentravano le sue ricerche. Accennando alla riunione a cui aveva appena assistito, avviò una lunga discussione con la nota leader sindacale. Ramadan ricorda che la pensavano diversamente. Laddove Giulio vedeva entusiasmo, lei vedeva il solito andazzo; quello che per lui era coraggio, per Ramadan erano solo chiacchiere. Riassume così le loro differenze: «Lui era entusiasta, colpito. Io frustrata e indifferente».

Giulio Regeni

Seduta in un bar a pochi metri da quello in cui incontrò Giulio per la prima volta, Ramadan ricorda: «Mi è sembrato intelligente, gentile, e mosso da uno slancio sincero». Due mesi prima di quell’incontro, per celebrare i suoi vent’anni in Egitto, un altro italiano aveva invitato un centinaio di amici egiziani e stranieri a una festa sul tetto di un albergo di Doqqi affacciato sul Nilo. Lì, in una serata autunnale, Giulio aveva conosciuto Amr Assad. Docente di economia aziendale politicamente a sinistra, Assad sarebbe diventato uno degli amici più stretti di Giulio in Egitto. «Malgrado la differenza di età», dice, «abbiamo fatto amicizia». Nei mesi di ottobre e novembre il rapporto è rimasto perlopiù accademico. «Lo aiutavo a trovare fonti e discutevamo a lungo dei minimi dettagli», ricorda Assad.

Fra dicembre e gennaio l’amicizia si fece più profonda. «Ci univa l’amore per l’arte, ed è per questo che siamo diventati amici. Mi parlava dei lavoratori e dei sindacati, d’amore e d’arte», dice. Ecco come Assad dipinge il Giulio ricercatore: «Era infaticabile, intelligente e davvero serio». Affettuoso: «Mi chiedeva consigli sui posti più romantici dove portare la fidanzata, che doveva venirlo a trovare al Cairo». Generoso: «Mi colpiva il modo in cui si rapportava ai venditori ambulanti. Ci chiacchierava a lungo, li andava a trovare sul lavoro». Intraprendente: «Mi disse che voleva partecipare al bando di un’organizzazione inglese per un finanziamento da 10.000 euro destinato ai venditori ambulanti , e che ne aveva parlato con una delle sue fonti nel sindacato». Ma era anche disilluso:

«Quand’è tornato dopo le vacanze di Natale, aveva accantonato l’idea del bando. Gli ho chiesto perché, e mi ha risposto che lo aveva infastidito quello che gli era parso un tentativo di sfruttamento da parte di uno degli ambulanti che incontrava regolarmente».

Spiegò che «gli aveva chiesto di procurargli un cellulare, e fatto capire che avrebbe voluto [il suo aiuto per] trasferirsi all’estero».

Dopo l’arrivo in Egitto a metà settembre, Giulio si era adattato rapidamente alla vita in Egitto. Nel giro di due mesi, qualche parola di arabo e pochissimi amici si erano trasformati in una solida rete di rapporti, che andava dai docenti universitari agli ambulanti della stazione Ahmed Hilmi, così come di Eliopoli e Dar al-Salam.

La distanza fra il civico 8 di via Yambo — una traversa di via Ansari, a sua volta traversa di viale Tahrir — e la fermata della metro Behoos è di circa quattrocento metri. Giulio li percorreva di solito in circa cinque minuti, per raggiungere la metropolitana che lo portava nel mondo del Cairo. Giulio ha percorso questi quattrocento metri, o forse meno, anche il 25 gennaio 2016, quinto anniversario della rivoluzione — l’ultimo giorno in cui è stato visto in vita — per poi svanire di colpo. Secondo il pubblico ministero, il suo telefono avrebbe agganciato per l’ultima volta le celle di questa zona fra le 19.45 e le 20.31.

La pagina che commemora Giulio sul sito dell’università di Cambridge fornisce altri dettagli sul ricercatore. Gli amici lo definiscono intelligente, appassionato di conoscenza, pronto a collaborare e coraggioso. Si scopre anche che non era la sua prima permanenza al Cairo. C’era già stato nel 2012, per un periodo più lungo, lavorando come ricercatore per l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale (UNIDO), dopo essersi laureato in arabo e scienze politiche all’università di Leeds. Era poi tornato in Europa, dove aveva lavorato quasi un anno alla Oxford Analytica, per poi tornare a Cambridge nel 2014 e svolgere il dottorato in economia e sviluppo sociale nel Medio Oriente. Era anche ricercatore ospite presso l’università americana del Cairo (AUC) dal settembre 2015 al marzo 2016, periodo dopo il quale voleva tornare alla sua università. Ma qualcuno ha interferito con i suoi piani.

Hoda Kamel, coordinatrice per le questioni del lavoro presso il Centro egiziano per i diritti economici e sociali, ci accoglie con un sorriso gentile, e subito scompare fra sindacalisti, attivisti e documenti. Torna con lo stesso sorriso, ma senza lasciarle il tempo di rispondere alla prima domanda un visitatore del centro le chiede qualcosa, e lei sparisce di nuovo. L’attività incessante e la sua fitta rete di contatti sono il motivo per cui la professoressa Rabab el Mahdi, referente accademico di Giulio all’AUC, gli aveva consigliato di mettersi in contatto con lei. «Ci siamo visti cinque o sei volte», racconta Kamel. «La prima a ottobre, nell’ufficio del Centro, per dargli un’idea del percorso dei sindacati indipendenti». L’ultimo incontro «è stato il 19 gennaio. Voleva farmi delle domande sul salario minimo in Egitto, quand’è entrato in vigore e a chi ha giovato».

Secondo fonti accademiche che hanno chiesto di rimanere anonime, il primo soggiorno di Giulio in Egitto, quello del 2012, si è concluso con l’esplodere dell’isteria governativa riguardo le spie straniere. La televisione di stato trasmetteva annunci per avvertire i cittadini della presenza di spie, si segnalavano casi di cittadini che arrestavano stranieri da loro sospettati di spionaggio, e «lasciare l’Egitto è sembrata la decisione più logica», spiega la fonte. Giulio era consapevole della situazione. «Non faceva nulla di provocatorio. Non si lasciava crescere i capelli e non girava per le strade in calzoncini corti. Non portava accessori al polso né anelli. Aveva sempre i capelli puliti e si vestiva in maniera normalissima. Con sé aveva una giacca e un quaderno».

Secondo altre fonti vicine a Giulio, durante il suo secondo soggiorno egiziano ha cominciato a innervosirsi solo dopo che gli hanno scattato quella foto alla riunione dei sindacati indipendenti, il primo dicembre 2015. L’ansia sembrava condizionare il suo comportamento. «Il 20 dicembre Giulio è partito per andare a trascorrere le vacanze di Natale in Europa», racconta Amr Assad mentre camminiamo verso la sede del giornale.

«È tornato il 2 gennaio. La settimana prima dell’anniversario della rivoluzione mi ha detto che non sarebbe uscito di casa a partire dal 18 gennaio, se non in caso di necessità. Aveva capito che a ridosso dell’anniversario la situazione non era sicura».

Nessuno conosce tutta la verità su ciò che accaduto al tramonto del 25 gennaio. Giulio doveva incontrarsi con un amico italiano, Gennaro, un docente dell’università britannica in Egitto, in piazza Bab el Luq. Da lì sarebbero dovuti andare insieme a trovare Hassanein Kishk, professore di sociologia ed esperto del Centro nazionale per la ricerca sociologica e criminologica. Gennaro ha espresso il suo rammarico agli amici comuni: «Perchè abbiamo deciso di incontrarci in piazza Tahrir? Sarebbe stato meglio vedersi a casa di Giulio, era più vicino a dove abita Hassnein Kishk».

Secondo le dichiarazioni del procuratore Ahmed Nagi, l’ultimo segnale del telefono di Giulio proveniva dal tragitto fra casa sua e la metropolitana. Amr Assad ricorda il loro ultimo contatto telefonico: «Mi ha mandato un messaggio alle sei e mezza, chiedendo se c’era in programma qualcosa per festeggiare il compleanno di Hassanein Kishk». Giulio, che aveva compiuto ventinove anni pochi giorni prima, ha poi chiamato Gennaro alle 19.40 dicendogli che stava uscendo di casa per dirigersi verso la metro. Intorno alla stessa ora ha anche scritto alla fidanzata su Skype, dicendole si stava preparando per uscire (Al Masry al Youm ha tentato di contattare la ragazza, che però su richiesta della famiglia non ha voluto parlare con noi).

A partire dalle 20.31, chi provava a chiamarlo trovava la segreteria telefonica, segno che il telefono era spento o non raggiungibile. Venticinque minuti dopo la telefonata a Gennaro, Giulio non era ancora arrivato. Gennaro ha cercato di chiamarlo fra le 20:18 e le 20:31, ma non ha risposto, e subito dopo il telefono risultava spento. Stando alle dichiarazioni rilasciate agli inquirenti, Gennaro si è allora diretto a casa di Hassanein Kishk. Circa tre ore dopo, preoccupato per l’amico scomparso, ha telefonato a Nura Fathi, una delle più vecchie amicizie egiziane di Giulio, conosciuta a Cambridge. Lei ha chiamato Giulio a casa. A quel punto Gennaro si è reso conto che il ragazzo non era né a casa, né alla festa. Un amico comune, l’avvocato Malek Adly, si è recato ai commissariati di polizia di Qasr el Nil e di Abdin, e ha mandato un collega a quello di Doqqi.

Ma Giulio era scomparso senza lasciare traccia. L’indomani mattina, Rabab el Mahdi — la professoressa di scienze politiche dell’AUC — si trovava a casa sua, vicino al centro della città, quand’è stata svegliata da una telefonata. L’amica di Giulio, in preda al panico, le ha detto che il ragazzo era scomparso. «Ho capito immediatamente che non era stata una scomparsa volontaria», dice la professoressa, che ha poi contattato l’amministrazione dell’AUC e l’ambasciata italiana, chiedendo loro di attivarsi.

«Tutto faceva pensare a quell’ipotesi: l’isteria dello stato nei confronti di quel che non sa, le sparizioni forzate, l’anniversario della rivoluzione con il relativo panico del regime, il telefono spento. Erano tutti segni chiari. Non era una scomparsa accidentale. Dovevamo agire in fretta».

Sull’altra sponda del Nilo, a Maadi, Amr Assad svegliandosi ha trovato più di sessanta chiamate perse e messaggi di Gennaro, amico comune suo e di Giulio. «Erano messaggi terrorizzati. Aveva paura, non sapeva cosa fare». Gennaro è andato al commissariato di Qasr el Nil, Nura e il coinquilino di Giulio a quello di Doqqi. La scomparsa è stata denunciata. Più tardi, gli amici di Giulio hanno cominciato a far circolare con discrezione la notizia, che si è diffusa velocemente, soprattutto fra i suoi amici egiziani, e malgrado le resistenze di diversi italiani. «Gennaro aveva paura che della scomparsa di Giulio venissero a sapere in troppi», ricorda Assad. «Era convinto che mantenere il riserbo lo avrebbe aiutato, ma noi sapevamo di poterlo aiutare solo pubblicizzando la cosa e facendo pressione».

Di lì a qualche giorno ha cominciato a circolare l’hashtag #where_is_giulio, accompagnato da una foto in cui il ragazzo sorrideva, con la barba curata e un maglione verde da cui spuntava il colletto di una camicia più chiara. L’ambasciatore era infastidito da quella che alcune fonti a lui vicine definivano la «flemma della polizia egiziana».

Gli amici di Giulio si sono fatti più insistenti. Che una banda l’avesse rapito per chiedere un riscatto? Una fonte interna alla sicurezza dell’AUC ha risposto a Rabab el Mahdi: «Finché la famiglia o gli amici non ricevono una richiesta di riscatto, è un’ipotesi da escludere». Ne sono allora emerse altre. Verso la fine di gennaio, un membro della squadra investigativa del commissariato di Doqqi dice a un testimone: «Se una persona fosse trattenuta al commissariato di Aguza, a poche centinaia di metri da Doqqi, noi non ne sapremmo nulla».

All’alba del 3 febbraio quella di Ahmed Khaled, autista di minibus, sembrava una giornata come tante altre. Aveva caricato i passeggeri e dato inizio al suo solito tragitto sulla strada del deserto tra il Cairo e Alessandria d’Egitto, ma poi una gomma anteriore a terra lo aveva costretto ad accostare e far scendere i passeggeri nello spiazzo fra il tunnel che porta in piazza Rimaya e la leggera salita che curvando a destra porta al deserto intorno alle Piramidi. Secondo la dichiarazione di Khaled al pubblico ministero del Cairo, mentre sostituiva la ruota diversi passeggeri si erano messi a urinare in quello spazio, ed è così che poco distante hanno scoperto il corpo di un giovane uomo. A un primo sguardo, i suoi lineamenti non sembravano quelli di uno straniero.

I passeggeri hanno avvertito il conducente, il quale ha avvertito il proprietario del minibus, che a sua volta ha avvertito la polizia, per arrivare infine alla procura di Giza, nella persona del procuratore aggiunto Hossam Nassar. Recatosi sul luogo, e dopo aver ispezionato la scena, Nassar ha emesso un comunicato stampa annunciando il ritrovamento di un cadavere in un fosso.

La stampa ha rilanciato la notizia intorno alle 11 con queste parole: «La procura di Giza Sud ha aperto un fascicolo di indagine per chiarire le circostanze relative al ritrovamento di un cadavere non identificato appartenente a un uomo di circa trent’anni. L’ipotesi è che sia morto in seguito a torture, e il pubblico ministero ha autorizzato un’autopsia per determinare la causa del decesso, oltre all’esame del DNA e alla pubblicazione della descrizione del cadavere per permetterne l’identificazione».

Più o meno contemporaneamente, erano quasi ultimati i preparativi per l’incontro fra il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi e il ministro italiano dello sviluppo economico Federica Guidi, accompagnata dai rappresentanti di trentasette grandi aziende italiane. Khaled Abu-Bakr, presidente del Business Council italo-egiziano, dichiarava: «L’Egitto ha preparato numerosi progetti di investimento, soprattutto in materia di energie rinnovabili, petrolio, gas, petrolchimica, industria manifatturiera e ambiente». Ma erano in arrivo brutte notizie. Dopo un incontro mattutino con il presidente al Sisi, inframmezzato da alcune domande sulla scomparsa di Giulio, i lavori — riferiscono fonti italiane a Al Masry al Youm — si sono conclusi a mezzogiorno.

Poche ore dopo, intorno alle 17, l’ambasciatore italiano — che non ha voluto parlare con Al Masry al Youm — ha ricevuto una telefonata da un amico nel governo egiziano: lo informava che il giovane italiano era stato trovato morto, apparentemente dopo essere stato torturato. «L’ambasciatore ha cercato di scoprire dove si trovava il corpo», prosegue la fonte, «ma nessuna delle sue telefonate al ministero dell’Interno ha ricevuto risposta. Solo nella tarda serata del 3 febbraio un vecchio amico gli ha comunicato che il corpo di Giulio si trovava all’obitorio di Zeinhom».

All’interno dell’obitorio regnava sovrana la confusione. Due medici legali stavano per cominciare l’autopsia dopo gli esami preliminari durati circa mezz’ora, quando improvvisamente — stando a una fonte interna all’obitorio che ha preferito rimanere anonima — hanno ricevuto l’ordine di fermarsi.

Ai due medici era stato ordinato di aspettare il capo della struttura, Hisham Adel-Hamid, perché potesse sovrintendere alla stesura del rapporto finale. Alcune fonti, che hanno preferito rimanere anonime, riferiscono a Al Masry al Youm che il telefono di Giulio era stato nuovamente acceso per pochi minuti nella mattina del 26 gennaio, il giorno dopo la sparizione. Aveva squillato, ma senza risposta, dopodiché era stato spento di nuovo. Al Masry al Youm lo ha comunicato al procuratore capo Ahmed Nagi, nell’eventualità che l’informazione potesse rivelare il luogo in cui si trovava Giulio il giorno successivo alla scomparsa. Il procuratore ci ha risposto dicendo di non poter né confermare né smentire.

Quando gli abbiamo chiesto il rapporto finale sull’autopsia, ha lanciato uno sguardo al grosso fascicolo poggiato sulla sua scrivania, contenuto in una cartella blu con la parola «omicidio» scritta a grandi lettere nere, quindi ha alzato lo sguardo e con un sorriso ha rifiutato di diffondere qualsiasi informazione contenuta nel rapporto, che era stato depositato il 14 febbraio.

«Rivelare questi dettagli», ha detto, «non farebbe che complicare un caso già difficile, riducendo le possibilità di catturare i responsabili», aggiungendo però che il rapporto «aveva individuato il lasso di tempo preciso durante il quale Giulio era stato torturato”.

Una fonte interna all’Autorità di medicina legale che ha visto la relazione finale prima che venisse consegnata alla procura fornisce altri dettagli: «Il giovane è stato torturato per cinque giorni alterni, non continui. La tortura non è stata ininterrotta. In alcuni dei suoi dieci giorni di sparizione non è stato aggredito». Il procuratore capo ha negato che Giulio sia stato torturato con scosse elettriche sui genitali, mentre l’ambasciatore italiano dichiarava alla BBC: «Ho notato ferite, ecchimosi, bruciature e costole rotte. Non c’è alcun dubbio che il ragazzo sia stato duramente picchiato e seviziato».

Ma la seconda autopsia condotta in Italia ha confermato, secondo il ministro dell’Interno italiano, che Giulio fu sottoposto a «violenze disumane, bestiali». Una fonte che ha potuto vedere alcune foto della vittima dichiara: «Aveva il volto coperto di lividi, le orecchie sembravano tagliate sulla sommità con un rasoio, e i palmi delle mani presentavano segni di legature».

Siamo andati sul luogo del ritrovamento di Giulio nello stesso giorno della settimana e alla stessa ora. Al mattino presto la strada è molto trafficata, e di pedoni se ne vedono pochi. Ci sono però alcune guardie che bevono tè sedute intorno a un fuoco, davanti a un edificio affacciato proprio su quello spazio triangolare che separa il tunnel verso piazza Rimaya e la rampa di accesso e di uscita dalla strada per le piramidi. Inizialmente non vogliono parlare, ma poi indicandoci un punto dicono: «Lo hanno trovato lì».

«Nessuno ha visto niente», dice uno di loro. «È impossibile vedere qualcosa, a meno che non ti fermi, parcheggi la macchina e sali sul marciapiede». Con un accento rurale, un’altra guardia chiede: «Quello straniero che hanno trovato, cosa stava facendo?» La stessa domanda che sentiamo fare a un poliziotto davanti all’ufficio del procuratore capo, ma in tono più acceso: «Che cosa ci fanno, con tutte queste ricerche?!»

Hossam al Mallahi, direttore dei progetti universitari e del settore delegazioni, risponde alla domanda durante un intervista telefonica con il nostro giornale: «Attualmente in Egitto risiedono circa mille ricercatori, affiliati a università private e statali». E spiega: «Il processo di ricerca è ben noto. I ricercatori forniscono contenuti e importanti contributi umani al movimento accademico globale». Le sue affermazioni, considerato il ruolo che al Mallahi ricopre, non sorprendono. Ma altri episodi — per esempio quello di Marie Duboc, anche lei ricercatrice sul movimento dei lavoratori, che alla fine del 2011 si è vista negare l’ingresso in Egitto, nell’ambito delle sue ricerche sui lavoratori di Shibin el Kom — lasciano intendere che altri siano meno comprensivi.

25 febbraio: il sit-in Verità per Giulio Regeni

Durante un’intervista condotta nella redazione di Al Masry al Youm, il capo del sindacato degli ambulanti Mohammed Abdullah dimostra di conoscere bene il lavoro di Giulio: «L’ho incontrato più di dieci volte. Sono andato con lui alla stazione Ahmed Hilmi, dove insieme abbiamo incontrato alcuni venditori. E siamo stati anche a Eliopoli, per incontrarne degli altri».

In un’altra intervista Rabie Yamani, consulente dello stesso sindacato, si mostra ancora più comprensivo: «Queste sono persone che vogliono aiutarci», dice. «Giulio cercava di parlare di spirito sindacale, di come potevamo aiutare gli ambulanti e accrescere la loro sensibilità nei confronti del sindacato». Yamani ci mostra anche degli sms ricevuti da Giulio. In un messaggio si davano appuntamento il 17 gennaio in piazza Tahrir, ma poi Giulio aveva annullato l’incontro per cause indipendenti dalla sua volontà. Yamani si mostra dispiaciuto per Giulio, e dice che anche altri lo sono: «Tutti gli ambulanti che hanno avuto a che fare con Giulio sono tristi e addolorati. Il suo unico obiettivo era aiutarci», dichiara.

Mohammed Abdullah, invece, sembra indifferente.

«Prima che Giulio partisse per le vacanze di Natale mi aveva accennato al progetto di un laboratorio per noi ambulanti con una organizzazione britannica. Da quel momento ho iniziato a diffidare di lui. Ho cominciato a stargli alla larga, non mi sentivo più a mio agio».

Il che contrasta con la versione dei fatti fornita da Amr Assad, secondo il quale — come ricorderete — prima di partire Giulio voleva cercare di ottenere quel bando per i venditori ambulanti, ma al ritorno aveva lasciato perdere, e ad Assad che gliene chiedeva il motivo aveva risposto che lo infastidiva sentirsi sfruttato da uno dei dirigenti del sindacato.

Giulio, secondo le testimonianze, non voleva abbandonare il progetto di aiutare gli ambulanti ma voleva farlo senza che Mohammed Abdullah interferisse. Questo gli sarebbe costato la vita.

Mohammed Abdullah ammette di aver preso le distanze da Giulio perché non si fidava più, ma nega di aver riferito i suoi timori sul ricercatore alle autorità. «Noi, se vediamo un cadavere, ci giriamo dall’altra parte», dichiara. «Giulio parlava con tutti i venditori ambulanti. Magari anche loro si erano insospettiti. Lo vedevo sempre al mercato di Ahmed Himi circondato da un sacco di ambulanti. Chiacchieravano e ridevano, e metà di quelli sono informatori della polizia».

Le sue parole non corrispondono alla versione dei commissariati di Azbakiya e Shubra, che condividono la sorveglianza del mercato mediante un dispositivo di sicurezza permanente composto da un ufficiale, un poliziotto di grado inferiore e due reclute. Il colonnello Mamdouh Samir, capo del commissariato di Shubra, nega nel modo più assoluto che Giulio frequentasse quel mercato. «Noi lì abbiamo sempre degli agenti», dichiara. «Se il ragazzo fosse andato al mercato, ne sarei stato informato personalmente».

Il generale Bassem al Shaarawi, responsabile del commissariato di Azbakiya, ripete praticamente la stessa cosa: «Non veniva né al mercato, né alla stazione. Abbiamo telecamere dappertutto. Se fosse entrato nella stazione, per noi sarebbe stato impossibile nascondere la sua presenza».

Dopo tre settimane di indagini, nessuna ipotesi è stata confermata né smentita. Quando chiediamo al procuratore capo Ahmed Nagi quale sia asuo avviso lo scenario più probabile, ribatte all’istante: «Tutte le ipotesi sono ancora aperte. Finora non siamo riusciti a escluderne nessuna». Lo incalziamo chiedendo a che punto il caso verrà chiuso attribuendone la responsabilità a ignoti. «Non lo chiuderemo finché non avremo sentito tutti i testimoni», risponde rapido. «E anche una volta chiuso, qualora dovessero emergere nuovi dettagli verrebbe immediatamente riaperto».

Il 24 febbraio, nel corso della cerimonia di commemorazione organizzata per Giulio Regeni dal dipartimento di scienze politiche dell’AUC, Ferial Ghazul, direttrice del dipartimento di Inglese e Letteratura comparata, ha letto in onore di Giulio alcuni versi del poema «Murale» di Mahmud Darwish:

Ripetono la storia? Qual è l’inizio?

Quale la fine?

I morti non si fermano a dirmi la verità…

Aspettami, morte, lontano dalla terra,

Aspettami nel tuo paese, mentre concludo

Questa fuggevole conversazione con ciò che resta della mia vita.

(traduzione di Matteo Colombo)

--

--

CILD

Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili — Italian Coalition for Civil Liberties. Creator @open_migration e @nonmelaspacci Co-founder: @19mmproject