UX design for beginners: La caffettiera del masochista

Perché leggere Donald Norman è una User Experience indispensabile.

Alessandro Curci
6 min readMay 22, 2017

Il giusto mindset…

Lanciarsi nella realizzazione dell’interfaccia grafica di un’app o di un sito internet è probabilmente uno dei motivi più comuni per cui oggi ci si imbatte nell’espressione “UX design”, ma cosa vuol dire esattamente?

La sua comprensione prescinde dalla sensibilità estetica di un graphic designer, e soprattutto non è appannaggio esclusivo della progettazione di prodotti o servizi digitali.

I progettisti devono produrre cose che soddisfino i bisogni della gente, in termini di funzioni, facilità d’uso e gratificazione emotiva. In altre parole, il design deve essere pensato come un’esperienza totale.
[Donald Norman — La caffettiera del masochista]

Lo UX design (o design dell’esperienza utente) è un ambito di intervento vasto, strettamente legato alla psicologia, che punta il focus su una progettazione votata alla qualità e alla piacevolezza dell’esperienza complessiva; e ciò che serve per comprenderne i reali confini è innanzitutto un mindset.

… e come ottenerlo

Questo è il motivo principale per cui leggere “La caffettiera del masochistadi Donald Norman è straconsigliato a chiunque voglia iniziare (o magari proseguire) con cognizione il proprio percorso di designer, di programmatore o di startupper motivato a lanciare un nuovo prodotto.

Ma com’è possibile che un libro scritto nel 1988 possa essere ancora oggi una lettura così rivelatrice?

La risposta — specialmente per chi sta iniziando ora a mettere il naso nel mondo dello UX design — è esattamente ciò che troverete in questo post, nel quale ho voluto condividere i princìpi e le nozioni cardine che, del libro di Norman, sono un punto di partenza perfetto per la comprensione di ciò che è (ma soprattutto non è) lo UX design.

Design Antropocentrico

O Human Centered Design, è il concetto alla base del libro. Nozione che ritorna continuamente e che, è bene chiarire da subito, non rappresenta un ambito di intervento circoscritto, ma un approccio olistico che deve (o meglio dovrebbe) permeare tutte le fasi di progettazione di un prodotto, fisico o digitale che sia.

Il design antropocentrico (HCD) […] è una filosofia progettuale, un’impostazione che parte dai bisogni, capacità e comportamenti umani, adattando poi la progettazione a quei bisogni, quelle capacità e quei comportamenti. […] Non è quindi un campo d’azione, ma un processo che assicura che i progetti corrispondano alle esigenze e capacità dei destinatari: gli esseri umani. [Donald Norman — La caffettiera del masochista]

Ma quante volte in cucina ci capita comunque di accendere il fornello sbagliato al primo tentativo? Quante volte tiriamo la maniglia senza però riuscire ad aprire una porta sbloccata? Perché spesso leggere un manuale d’uso sembra rendere le cose più complicate?

Questi sono solo alcuni dei casi (e solo in apparenza banali, molti vi sorprenderanno!) che Norman analizza approfonditamente per arrivare a sottolineare quanto l’importanza dell’approccio HCD emerga poi nell’utilizzo degli oggetti, proprio nel momento cruciale dell’esperienza utente: l’interazione.

Principi fondamentali dell’interazione

Il design dell’interazione è l’ambito progettuale in cui ci si concentra sul modo in cui le persone interagiscono con il prodotto, lo scopo è migliorare la loro comprensione di ciò che si può fare, ciò che succede e ciò che è appena successo. [Donald Norman — La caffettiera del masochista]

Di solito, quando un oggetto o un prodotto nuovo si rivela facile da usare, nell’utilizzarlo percepiamo un piacevole senso di soddisfazione e controllo. Questo avviene quando ciò che stiamo utilizzando è caratterizzato una buona visibilità.

La visibilità di un prodotto, fisico ma anche (ovviamente) digitale, è in questi termini la sua proprietà di comunicare immediatamente quali sono le interazioni possibili.

Nella prospettiva del designer tale proprietà deve rappresentare un obiettivo progettuale, che secondo Norman è determinato dalla corretta integrazione di 6 principi:

  1. Affordance (invito): è la relazione tra le proprietà di un oggetto e la capacità di una persona di capire come usarlo.
    [Esempio]: l’affordance di una sedia è, letteralmente, il suo invito a sederci su di essa. Quello di un touchscreen, il suo invito a toccarlo.
  2. Significanti: intesi come qualsiasi segnale o indicatore percepibile che comunichi qual è il comportamento appropriato da avere con un oggetto o un prodotto.
    [Esempio]: la scritta “spingere” su una porta. Le frecce e le icone delle UI nelle applicazioni.
  3. Vincoli e funzioni obbliganti: è ciò che guida l’utilizzo, limitando le azioni possibili.
    [Esempio]: il meccanismo di accensione degli accendini. Il messaggio “Vuoi davvero chiudere senza salvare?” alla chiusura di un software.
  4. Mapping: è un concetto mutuato dalla matematica che indica la qualità della relazione tra elementi appartenenti a insiemi differenti.
    [Esempio]: l’associazione tra interruttori e lampadine comandate. La relazione tra i pulsanti di un joypad e le azioni associate nel videogioco.
  5. Feedback: è la proprietà di un oggetto o di un prodotto di comunicare l’esito di un’azione fatta su di esso, di norma con segnali visivi o uditivi.
    [Esempio]: l’accensione della luce rossa dopo la chiamata dell’ascensore. La doppia spunta di WhatsApp (forse il feedback più efficace e socialmente problematico mai concepito!)
  6. Modello concettuale: è la spiegazione di come funziona una cosa. È importante che sia semplice, così da avvicinarsi il più possibile ad un modello mentale, che rappresenta il modo in cui secondo noi funzionano le cose.
    [Esempio]: il modello concettuale di una leva è semplice, poiché capiamo immediatamente che va abbassata o alzata. Il modello concettuale di un navigatore è semplice: segui le indicazioni.

Ragionare su questi principi ci regala una prospettiva analitica preziosa quando utilizziamo un prodotto, fornendoci strumenti utili per distinguere tra ciò che può essere considerato buono o cattivo design.

Ma tornando di nuovo nella prospettiva del designer: qual è il punto di partenza per la progettazione di un prodotto con cui sarà semplice interagire e che regalerà un’esperienza di utilizzo appagante?

Bisogni reali e Pensiero progettuale

Il concetto di bisogno è ciò che nello Human Centered Design incide di più sulla corretta impostazione di un progetto.

Ad oggi può suonare scontato che un prodotto o un servizio, perché si riveli utile, debba rispondere ai bisogni dei suoi utenti, ma è soprattutto il processo di individuazione di quei bisogni che fa la differenza tra un design riuscito o meno.

[…] Una volta capito che non è il trapano in sé che vogliamo, possiamo renderci conto che, se è per questo, non vogliamo nemmeno i buchi: quello che ci interessa è montare gli scaffali per i libri. Perché allora non pensare a scaffalature che non richiedano buchi nel muro? O magari libri che non richiedano scaffali? [Donald Norman — La caffettiera del masochista]

Esistono bisogni e bisogni. Senza arrivare a scomodare Maslow, Norman ci dice che molto spesso le persone non sono consapevoli dei loro reali bisogni, e che è il (buon) design a scovarli e soddisfarli.

Come possiamo riuscirci?

Ciò che, in questo senso, fa la differenza tra un utente capace di riconoscere il buon design di un prodotto e un designer capace di concepire il design di un buon prodotto, è l’uso di un pensiero progettuale che, di base, si concretizza nella reiterazione di 4 step.

L’obiettivo di questi step è l’individuazione, attraverso continue approssimazioni, del problema giusto da risolvere e della sua giusta soluzione, facendo particolare attenzione che quest’ultima corrisponda alle capacità delle persone.

  1. Osservazione: proprio perché le persone non sono quasi mai consapevoli dei loro reali bisogni, il solo modo per individuarli è osservarle. In ottica progettuale è importante capire quale sia il target giusto osservando le attività, le motivazioni, gli interessi e le difficoltà delle persone.
  2. Ideazione: è il momento creativo in cui vengono generate e messe sul tavolo le idee. In questa fase è importante non porsi (e non porre) limiti, cercando di produrre molte idee per poi metterle in discussione e “sviscerare anche l’ovvio per far emergere ciò che non è affatto ovvio”. [Donal Norman — La caffettiera del masochista]
  3. Prototipazione: in questa fase viene messa alla prova l’idea scelta, costruendo un prototipo semplice in modo rapido, evitando di concentrarsi sui dettagli per essere veloci sia nel metterlo in campo che nel modificarlo successivamente.
  4. Verifica: Con il prototipo pronto all’utilizzo è ora il momento di farlo usare a un piccolo gruppo di persone che corrisponda il più possibile al target del prodotto, tenendo nota dei (preziosissimi) feedback e facendo caso soprattutto alle difficoltà incontrate nell’utilizzo.

L’importanza della reiterazione degli step emerge proprio in questo momento: la raccolta dei feedback nella fase di verifica darà il via a nuovi cicli di step che, a loro volta, condurranno a successive fasi di verifica e a progressivi perfezionamenti della soluzione.

Inutile pensare che esista un numero preciso di cicli che possa condurre ad una conclusione “matematica” del processo di design. L’importante è verificarne l’efficacia, e Norman lo sottolinea (anche) riportando le parole di David Kelly, Co-founder di IDEO, che ci regala una prospettiva estremamente pragmatica del pensiero progettuale:

“Sbagliare spesso, sbagliare in fretta”

David Kelly — Co-founder di IDEO

Concludendo…

L’intento di questo post era condividere il know-how di base che è possibile acquisire, in maniera estremamente più dettagliata e piacevole, con la lettura de “La caffettiera del masochista”; che oltre a conferire un mindset indispensabile per l’orientamento nelle questioni legate al design di prodotti o servizi, regala un’esperienza di lettura accessibile e spoglia di tecnicismi.

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Alessandro Curci

UX Designer. Father. Dreamer. (Not necessarily in this sequence)