Romanzo collettivo

Non volevamo fallire — Storie del Nordest da chi le ha vissute e per chi viene dopo

Barbara Ganz
41 min readJan 25, 2016

Siamo in tre (ma nuovi ingressi sono ben accetti): una imprenditrice, un professore di organizzazione aziendale, una giornalista — e con tre sguardi completamente diversi vediamo — e viviamo — ogni giorno l’impresa del Nordest.

Crediamo che valga la pena raccontare e salvare il grande cambiamento di questi anni, quello che abbiamo — tutti — perso e quello che in qualche caso abbiamo ritrovato, perché serva da memoria, e magari possa aiutare qualcuno.

Ma i nostri tre sguardi non bastano: per questo vogliamo solo dare il via a un romanzo collettivo, in cui chiunque abbia qualcosa di sensato, utile e onesto da dire possa farlo. Siamo a disposizione per dare una mano a chi non è abituato a prendere la penna (o il pc) e scrivere, ma ogni storia sarà autentica, senza filtri o interpretazioni.

Le regole del gioco

Queste sono le regole che ci siamo dati:

Pubblicheremo su un blog e su un sito le storie che andranno a comporre il romanzo collettivo, saranno gratuitamente accessibili e potranno essere fatte circolare in ogni modo

  • Non chiederemo di esporsi con nome e cognome a chi non vorrà farlo: ci basterà sapere che stiamo veicolando una storia autentica
  • Non ci interessano i numeri, i fatturati, le dimensioni: crediamo che spesso siano le realtà più piccole quelle che hanno dovuto, e saputo, reinventarsi nella lunga crisi
  • Non ci interessano le opinioni o le posizioni personali, politiche, religiose o di qualunque genere
  • Non ci interessano le qualifiche: a raccontare una azienda può essere il suo presidente, l’impiegato, l’operaio, perfino un figlio, un marito o una moglie di chi ci lavora
  • Non racconteremo la crisi: finita o meno che sia: è stata parte del quadro, ma non la protagonista

Ci interessa costruire, non distruggere: le nostre esperienze ci hanno mostrato che raccontare le diverse situazioni, studiarle, accendere le luci sulle difficoltà può servire a cambiare, in meglio, le cose

Il primo capitolo lo scriverà Serenella Antoniazzi , che proprio partendo da un libro — “Io non voglio fallire”, scritto pensando a suo figlio e all’importanza di spiegargli questi anni che hanno rischiato di travolgere anche l’impresa di sua madre — e dall’infaticabile lavoro di informazione portato avanti sulle regole che hanno fatto fallire anche chi non aveva né colpa né pena, è riuscita a far inserire nella legge di Stabilità un fondo per le imprese vittime dei mancati pagamenti. Il fondo Serenella.

Ciascun autore potrà poi passare idealmente il testimone — in altre parole invitare — altre persone che sa portatrici di una storia che merita di essere conosciuta. Altrettanto liberamente ci si potrà offrire di scrivere il proprio capitolo, a due o più mani, inviando una mail a romanzonordest@gmail.com o chiamando questo numero (041 5093071). Se serve una mano per riordinare il materiale o raccontarlo, basterà chiederla.

L’ordine dei capitoli è inverso: l’ultimo è in cima.

Capitolo 7: Profumo di Gelsomino

(testo raccolto dalla famiglia Bacciolo)

I beni personali svenduti — la barca a vela, l’automobile, le attrezzature. La rinuncia al proprio stipendio e a tutti i risparmi di una vita, utilizzati per non fallire mentre il commercialista consiglia di consegnare i libri contabili in tribunale. Temporeggiando, e cercando di sopravvivere, costretti a non pagare l’Iva, e preferendo onorare stipendi contributi e fornitori.

E poi l’umiliazione di chiedere a un figlio un prestito di 20mila euro, necessario per far fronte alla drastica riduzione dei fidi delle banche.

La crisi è arrivata così, nel 2009, capace di mettere in discussione una storia che ritenevi ormai solida, sicura, tua. Può far tremare anche i legami familiari più solidi, e rimette in discussione ogni certezza.

Non era iniziata così, questa storia.

Giorgio al lavoro

Siamo nel 1945, appena finita la guerra: Gelsomino Bacciolo dà vita alla propria azienda, che porta ancora oggi il suo nome. Gelsomino inizia a lavorare partendo da zero: è fabbro, poi meccanico, idraulico, elettricista, commerciante di biciclette, costruttore di piccoli pozzi artesiani, fa servizio noleggio di biciclette e moto Guzzetti, è lattoniere e stagnino. Cerca in ogni modo possibile opportunità di lavoro, da solo, da autodidatta.

Nel 1954 sposa Elvira, che fin da subito riesce a dare sostegno al marito. Sarà capace nell’arco di 4 anni di dare alla luce 3 bambini e risulterà essere una figura fondamentale in futuro. Corre l’anno 1958 quando l’impresa individuale “Bacciolo Gelsomino” con 2/3 operai, viene iscritta alla Confartigianato di Venezia, all’albo delle imprese artigiane. Inizia così una lunga storia di vita, di lavoro, di crescita che nell’arco di quasi 70 anni ha visto succedersi 3 generazioni.

Gelsomino, sfrutta il momento del boom economico del dopoguerra improvvisandosi fabbro, indebitandosi per acquistare la prima saldatrice e costruirsi cosi, uno ruolo professionale capace di mantenere una famiglia numerosa. Armato di coraggio, di grande spirito di sacrificio, lavorando sette giorni su sette, patendo la fame e il freddo, ingegnandosi per utilizzare, ottimizzando, le scarse risorse e attrezzature disponibili.

Da sempre l’azienda si è contraddistinta per la professionalità, la qualità dell’operato e da una etica lavorativa esemplare. Come dimostrano i primi anni di vita l’impresa fabbrile mostra una grande dedizione al lavoro permettendo di aumentare il volume d’affari, gli spazi, le attrezzature che di anno in anno si rinnovano, e soprattutto aumentando le capacità e il numero delle risorse umane.

Erano anni in cui ci si poteva fidare sul valore delle parole tra clienti e imprenditori, vigeva un sano rispetto, dimostrato dal fatto che non venivano calcolati preventivi di spesa, il cliente si limitava a pagare il consuntivo a fine lavoro, senza contestare.

Anni in cui lo Stato Italiano dava spazio alle iniziative private, alla crescita economica e sociale. Gli imprenditori si sentivano sicuri nel poter investire senza troppi “pensieri” per l’azienda e per i collaboratori (L’innovazione tecnica e tecnologica dava l’opportunità di alleggerire, velocizzare, perfezionare il lavoro e ad essere cosi più competitivi nel marcato: furono acquistate saldatrici a filo, a TIG, una cesoia e una pressa-piegatrice).

Una foto storica di Gelsomino

Le prospettive degli anni futuri, negli anni 60–70 erano rassicuranti, ed era proprio in questo clima che giovani imprenditori avevano la reale possibilità di mettere in gioco il proprio intelletto, ingegno, grinta ed energia che solo i ventenni possono esprimere: in questo modo il giovanissimo Giorgio Bacciolo primogenito di Gelsomino impiega poco tempo ad inserirsi nell’azienda, sostituendosi alla figura paterna (Giorgio ricorda ancora la battuta di suo padre: “Caro figliolo questa è l’impresa, arrangiati!”). Una ventata di aria fresca entra nella piccola officina in Via Marco Polo a Treporti, paese che assieme a Burano, Torcello, Lio Piccolo caratterizza la laguna nord di Venezia. Attualmente l’impresa continua ad operare nel giovane comune di Cavallino-Treporti.

Giorgio incomincia a prendere di petto e per certi versi andando, in modo giocoso e sfacciato, alla ricerca del rischio, elemento fondamentale per la sopravvivenza e la crescita della Ditta fabbrile. Nella squadra inizia a delinearsi la decisione e la volontà di occuparsi di commesse di maggiore entità, che richiedono la lavorazione di qualità, con materiali diversi dal classico “ferro verniciato”. Ci si cimenta e si sperimentano lavorazioni metalliche che non seguono uno standard, non più solo serramenti, carpenteria, lattoneria ma lavorazioni uniche nel loro genere.

La zona di comfort aziendale si allarga, cosi come gli spazi lavorativi, il numero del personale, si migliorano vistosamente le capacità di problem solving e il know how. La conseguenze arrivano sotto forma di soddisfazioni personali, un consistente aumento di fatturato, e grandi quantità di utili vengono reinvestite puntualmente nell’azienda.

Il personale della Bacciolo Gelsomino e Figli ora prende familiarizzazione con l’acciaio inox, l’alluminio, l’ottone, il rame. Vengono sperimentati vari trattamenti, diverse applicazioni, nuove forme. Tutto ciò grazie all’esperienza accumulata e alle innovazione tecnologiche.

Già nel 1982 Giorgio aveva previsto che uno strumento come il personal computer avrebbe potuto rivoluzionare il panorama tecnico globale. La Bacciolo e figli Snc (si inseriscono in aziende anche le sorelle di Giorgio) vanta il record di essere stata una delle prime, nell’associazione degli artigiani veneziani, a tenersi la contabilità in “casa”. Successivamente il PC si rivelò fondamentale nella progettazione e pianificazione della parte tecnica del lavoro, e grazie ad internet agevolare l’amministrazione, la segreteria.

L’azienda allarga anche i propri confini territoriali: già negli anni 80 non solo la provincia di Venezia, ma anche la pianura Veneta, le regioni confinanti, in particolare il Friuli, nuove commesse arrivano da città e capoluoghi italiani. In parallelo si incomincia ad imparare a memoria le calli, i campi, i canali e i rii, l’azienda si attrezza per lavorare in diversi contesti nella città che riteniamo essere la più bella del mondo: Venezia.

Gli anni 90 sino ai primi anni 2000 sono l’apice della storia aziendale. “Ogni giorno si sperava che ci fosse bel tempo per poter svolgere e portare a termine all’aria aperta, nello spazio antistante l’officina, l’elevato carico di lavoro”.

Gli spazi non bastavano, cosi come le ore che scandivano la quotidianità. Anni d’oro in cui si potevano contare 20 dipendenti costretti a fare un gran numero di straordinari per poter progettare, disegnare, ordinare il materiale, eseguire, trasportare e posare in opera le più disparate lavorazioni metalliche (e non solo). Iniziando a fidelizzare clientele di un certo livello (Amministrazioni pubbliche, musei, aziende importanti) muovendosi e operando anche oltre i confini nazionali.

La Bacciolo Gelsomino e figli si contraddistingue dalla concorrenza per il fatto di accogliere qualsivoglia commessa e sfida lavorativa. Clienti pretenziosi che desiderano vedere realizzata la propria idea in maniera fedele. Ci si ritrova essere scienziati, architetti, ingegneri per portare a termine le varie richieste che non hanno niente a che fare con la precedente e la successiva.

Ad ogni commessa corrisponde una piccola storia che richiede la massima espressione umana per le capacità intellettive e manuali, in poche parole: vera abilità artigianale! Dove il sapere e la maestria incontra, incrocia e sposa la grande esperienza espressa da mani sapienti che portano la testimonianza di errori, di tentativi, di ferite, di sudore ma soprattutto successo.

L’azienda si specializza negli allestimenti museali, nel saper creare teche espositive, con dimensioni, aspetti estetici e funzionalità eterogenee tra loro. Strutture metalliche che ospitano manufatti millenari dalle più distanti culture e opere artistiche. Ogni teca ha diverse esigenze. Si progettano quindi teche che a loro volta diventano opere d’arte. Caratterizzate per la ricerca, la cura minuziosa dei dettagli, per i meccanismi che hanno nel loro interno diretti a proteggere l’oggetto da esporre. Infatti oltre al metallo l’officina fabbrile opera con aspetti relativi: ai vetri, all’illuminazione, ad impianti di sicurezza, e al controllo climatico. Le opere si presentano eleganti attraverso forme e aspetti estetici unici e inoltre soddissfando magistralmente i requisiti funzionali.

Un’azienda capace di plasmare il metallo partendo da richieste, sotto forma solamente di poche parole chiave accompagnate da disegni indicativi di architetti quali Mario Botta, Francesco Venezia, Fabrizio Plessi e molti altri. La Forza dell’azienda sta proprio qui, nell’accettare di mettersi alla prova di volta in volta, incominciando sempre da zero, e arrivando a dare sostanza fedele ad un’idea chiara solamente nella mente del cliente, battendo così la concorrenza, formata da aziende che non vantano esperienze pluridecennali e forse non hanno mai voluto esporsi in questo ambito lavorativo.

L’apice è la costruzione di un capannone di 2400 mq, sognato da molto tempo. Capace di offrire spazi finalmente adeguati alle crescenti commesse, garantendo una vasta superficie volta ad ospitare macchinari sempre più all’avanguardia (Taglio laser, pressa-piegatrice e cesoia a controllo numerico, centro di lavoro a tre assi). Il salto è compiuto: l’officina degli anni Sessanta è ora un capannone di ultima generazione, per il figlio e il nipote di Gelsomino, scomparso poco anni prima.

Nicolò Bacciolo

É il 2004 e Nicolò, da quattordicenne incomincia partendo dalla gavetta (come ogni lavoratore che si rispetti) a ritagliarsi un ruolo che in pochi anni arriverà a saper rispondere a moltissimi, se non tutti gli aspetti che riguardano la produzione e l’amministrazione.

Sembra che finalmente si siano raggiunti obiettivi ambiziosi, che si possa godere di una qualità della vita tranquilla, serena e felice.

Nel 2009 questa clima agiato e proficuo si interrompe. Nicolò non è fortunato come il padre che 45 anni prima aveva trovato terreno fertile per esprimere il massimo del suo potenziale.

Sono gli anni della crisi, non solo economica, ma politica, e forse anche etica. Il fatturato di dimezza. I mancati pagamenti aggravano pesantemente la situazione.

I margini di guadagno sono ridotti all’osso, le spese e le tasse sono “irrazionali” (nel senso logico e matematico del termine) e i clienti non rispettano i pagamenti, cosi il personale, i fornitori e lo stato stesso non ricevono in modo tempestivo i pagamenti che gli spettano. E’ un circolo vizioso, una frustrante guerra tra poveri che non rende giustizia a nessuno.

Per far fronte agli impegni, Giorgio svende i suoi beni personali, allo stipendio. Le banche riducono i fidi, serve chiedere un prestito al figlio Nicolò. C’è umiliazione, rabbia, paura.

Oggi che i momenti più seri sono stati superati, almeno per ora, grazie alla tenacia di tutti coloro che hanno creduto nello spirito di sacrificio. La strada è ancora molto lunga e tortuosa ma siamo fiduciosi e ottimisti che lavorando assieme per il bene comune potremmo rivivere anni d’oro, nei quali oltre ad una sicurezza economica, era percepibile uno stato d’animo soddisfatto, affiatato e speranzoso”.

Capitolo 6 : Un cuore di inchiostro

di Andreea Iustina Kis Mihailescu

Ho diciotto anni, mi chiamo Andreea, vivo in Romania, in un piccolo paese di montagna. Ho perso il padre da qualche mese, in un incidente stradale. Ho una madre forte, che non ha mai pianto davanti alle sue figlie, che nonostante l’impegno di non farci mancare niente, manca tutto. Mancano le serate tranquille, mancano le parole, mancano le certezze, manca una persona, e la sua mancanza fa male da morire. Rimangono i sogni, i desideri, quelli nessuno può portarmeli via.

Non ho un diario segreto, è piuttosto un semplice quaderno a righe, che ogni tanto gli regalo i miei pensieri. E lui, silenzioso e affidabile, gli accetta sempre.

Il paese dei miei sogni è l’Italia. Ascolto volentieri Pausini e Ramazzotti, e di sabato sera guardo “La piovra”. Trovo Michele Placido affascinante, nei miei sogni da diciottenne ha un posto tutto suo. Piace anche alla mia cugina Daniela, lei è in Italia da qualche anno, si è sposata ed è in attesa di una bambina.

Nel frattempo sto frequentando l’Università; ho scelto chimica alimentare, anche se non mi piace, ma desidero con ardore non separarmi dal mio fidanzato, di un anno più grande, che frequenta la stessa Università.

Avrei voluto fare psicologia o teatro, ma alla fine ho scelto chimica.

Il paese dove studio è a circa 300 chilometri da casa, sulle rive del Danubio, paesaggio incantevole, vita nuova, da studente, che mi ha subito attirata nella sua rete. Rimane solo il fatto che andare ai corsi è un peso, la matematica non la capisco, la fisica sembra arabo, la chimica è da scienziati pazzi. Mi consolo con l’idea che fra non molto andrò a trovare mia cugina, a conoscere la nuova arrivata.

Ho venti anni, non sono più una bambina. Sono in Italia da circa un anno e mezzo. Ho un lavoro, una casa in affitto e un fidanzato nuovo - non perché gli occhi che non si vedono da tanto tempo si dimenticano, ma perché lui ha scelto la classica pausa di riflessione.

Ho ricordi e affetti lasciati in Romania, ma li porto nel cuore, nella mente. Di giorno pulisco delle stanze in un albergo, sempre al mare… Il mare m’insegue, e chissà perché. Non lo amo, ma imparerò ad amarlo. Amo le mie montagne, la mia neve alta. Mancano, la loro mancanza fa male. Rimangono i sogni, i desideri, quelli nessuno può portarmeli via.

D’altronde ho scelto io stessa di cambiare la mia vita. In Italia dovevo restarci due settimane. Ho conosciuto Francesco, un ragazzo italiano, modesto come me. Mi sono affezionata, voglio provare che gusto ha la vita insieme a lui. Intanto ho solo venti anni. La sera lavo i piatti in un ristorante. Non è quello che sognavo da bambina, ma dà soddisfazione, soprattutto quando riesco a mandare alla mamma qualche spicciolo.

Stasera mi sono tagliata con un piatto rotto. Non ho una tessera sanitaria, non ho un permesso di soggiorno, lavoro in nero, non posso andare in ospedale a farmi medicare.

La mia ferita la medicò Francesco.

Il tavolo della cucina era pieno di garze, disinfettanti e antidolorifici. M’innamorai di quelle mani che cercavano di essere sicure, s’improvvisò dottore e l’esperimento riuscì. Dopo qualche settimana, della mia ferita restò solo la cicatrice. Rimasi senza lavoro, senza quel lavoro che mi dava delle certezze. Non mi persi d’animo. Ne trovai un altro quasi subito. Questa volta mi misero in regola, avevo finalmente un permesso di soggiorno, anche se solo stagionale.

Non mi ferii più, ma l’amore per Francesco cresceva ogni istante. La mancanza dei miei affetti lasciati in un angolo del mondo non svanì, cresceva ogni giorno. Quando mia madre mi comunicò che forse sarebbe riuscita a venire a trovarmi, fui felicissima. Normale sarebbe che la figlia andasse a trovare la madre a mille chilometri di distanza, nel nostro caso vince la viceversa.

Ho ventitré anni e sto per sposarmi. Con l’uomo che ha medicato le mie ferite, anche le piaghe del cuore, dell’anima. Italia… il paese dei miei sogni, del mio amore, della mia gioventù, del mio futuro, un destino che ho scelto e non mi pento un istante.

Sono una donna oramai, fra qualche mese sarò sposata.

Stasera, una telefonata è riuscita a mettermi di malumore, a farmi piangere. Era la voce di un uomo, quello che sarebbe stato il mio futuro cognato, a insultarmi, a lanciarmi addosso parole pesanti; attraverso la sua vista offuscata da troppa fantasia, il matrimonio con il suo fratello sarebbe stato per me la fonte di un improvviso “guadagno”. Mi avrebbe “regalato” un permesso di soggiorno a vita, la cittadinanza italiana, e chissà cosa, visto che sono una povera straniera, che viveva in mezzo ai topi, che ha un disperato bisogno di una cittadinanza che non sia la propria, che è alla ricerca disperata di chi sa cosa che nel suo paese non si trova, visto il degrado del vivere, secondo lui.

Sì, lo ammetto. Sto cercando qualcosa, che ho trovato qui. E’ l’amore. Quello vero, incondizionato, quello che arriva all’improvviso e ti sconvolge, ti fa vedere il mondo diverso, dà al cuore un battito nuovo, quello che il mio interlocutore che grida come un matto non ha mai incontrato. Forse le persone tendono a cambiare atteggiamento quando la gelosia s’impossessa della loro mente.

Il fratello minore che si sta per sposare con una straniera per lui è inaccettabile, mi disse che una vergogna del genere non accadrà mai nella sua famiglia.

Francesco è arrivato a casa da circa dieci minuti. Ha notato subito che c’è qualcosa che mi turba. Gli racconto tutto fra lacrime e singhiozzi. Rimane male quanto me, forse anche di più. Mi disse di lasciare perdere, perché ci amiamo veramente, e di sicuro non sarà il suo fratello a dividerci. E così è.

Ho ventiquattro anni, sono felicemente sposata e sono in dolce attesa. Quando ho scoperto di essere incinta, non sapevo se ridere o piangere.

Un figlio è una responsabilità enorme per una coppia. Francesco ha appreso la notizia con una serenità incredibile, contagiosa. Un bambino è qualcosa che porti dentro di te per nove lunghi mesi, tra le braccia per tre anni, e nel cuore fino al giorno in cui mori, e se davvero esiste la vita aldilà, continuerai a tenerlo nel cuore.

Nel frattempo la ditta per la quale lavorava mio marito ha chiuso i battenti. Decine di operai mandati a casa, da oggi a domani. Perché proprio adesso, perché proprio a noi? Come faremo?

Anche se non guadagnava tanto, il suo lavoro ci permetteva di fare una vita decente, semplice, piena di sacrifici, ma ci assicurava la serenità. Passava le giornate a consegnare dei curriculum dappertutto, con la speranza di trovare a breve qualcosa, indifferente che lavoro. Ho sempre apprezzato in mio marito il fatto di adattarsi a qualsiasi lavoro. Ricordo quando mi raccontò di aver incominciato a lavorare da giovanissimo, a fare dei turni notturni massacranti, che scombussolano corpo e mente, ma che danno dignità, aiutano ad andare a testa alta, e sicuramente fanno crescere l’autostima.

Passammo un periodo pesante. Anche il nostro rapporto ne risentiva. A volte litigavamo per delle piccolezze, bastava niente per scattare.

Si dice che i soldi non fanno la felicità. Sarà anche vero. Io credo fortemente che i soldi mantengano la felicità. Purtroppo o per fortuna.

Finalmente il sole è ritornato a splendere. Era tanto che lo stavamo aspettando. Nuovo lavoro, nuovo sorriso, nuove speranze.

Oggi ho trentaquattro anni, felicemente sposata da undici, con una bambina di quasi dieci anni.

Non ho mai avuto un buon rapporto con il tempo. Lo considero il mio peggiore nemico. Mi fa paura la sua corsa matta, senza mai voltarsi indietro.

Sono molti anni che i miei piedi non toccano la terra dove sono nata, le mani che mi hanno accudito, aiutata a diventare la donna che sono oggi. Vorrei ritrovare tutto come lo ho lasciato anni fa, immutabile come in una fotografia: il nonno Virgilio che fuma sulla “sua” sedia, ascoltando la radio e guardando pensieroso per la finestra, la nonna che prepara delle pietanze raccomandandosi che “bisogna mangiare tutto per diventare grandi e forti”.

Loro non ci sono più. Il tempo mi ha confermato che è un lurido traditore.

Sono una donna fortunata. Ho il cuore diviso in due, e tutte e due le metà sono serene. Gli affetti lasciati in un angolo del mondo mancano da morire, è un vuoto che si può colmare solo con delle presenze. Non ho un diario segreto, e nemmeno un semplice quaderno a righe. I miei sentimenti e pensieri sono diventati poesie, racchiuse in un libro, non rilegato in pelle, ma in sogni e desideri, quelli che nessuno potrà mai portarmi via. Neanche il tempo.

Tu sogni in italiano o in rumeno?”- mi chiese un giorno mia figlia.

Metà in rumeno, e l’altra metà in italiano”- le risposi.

Oggi sono passati diciassette anni e fatalità, non ho la cittadinanza italiana. Grazie alle cattiverie e al disprezzo di chi non mi ha mai accettata sono diventata una donna forte, con ambizioni e voglia di fare di più. Alla fine, è vero che non tutto il male viene per nuocere… Diciassette anni che amo il mio marito, ogni giorno di più, alla faccia di chi non ci scommetteva neppure un centesimo sul futuro del nostro rapporto. Ho sempre pensato che l’amore guarda attraverso un telescopio, l’invidia invece attraverso un microscopio, e ho avuto la prova concreta.

Come tutte le famiglie, anche noi facciamo dei sacrifici per arrivare alla fine del mese. Non far mancare niente alla bambina è la nostra priorità principale. Niente di tutto ciò che le è necessario. Sono una madre all’antica, non so se purtroppo o per fortuna, una madre apprensiva, oserei dire come tutte le mamme, ma so perfettamente che non è così, e allora ne vado contenta di come sono. Nel mio piccolo tento ogni istante di dare qualcosa, che un domani le servirà nella vita.

L’ingrediente principale della mia vita oggi è il sorriso di mia figlia e di mio marito. Sono loro a darmi la carica per affrontare le giornate, soprattutto quando un velo di tristezza e nostalgia mi copre il cuore.

Mi è piaciuto scrivere da quando ho imparato a farlo, e non ho mai smesso. La poesia fa parte della mia vita, le rime si nascondono in ogni angolo del mio essere, ho un cuore d’inchiostro, che ha voluto a tutti i costi conoscere battiti simili al suo; così è nata l’Associazione Culturale Cuoridinchiostro, piccola ma non indifesa, perché il suo punto forte è l’approccio alla lettura, alla scrittura, al disegno, alla pittura, all’arte in genere, che rende indipendenti e forti. L’anno scorso ho pubblicato il mio primo libro, scritto e ideato dai bambini di una classe terza - “Con la testa fra le nuvole- la vita segreta dei numeri”, seguito da “Una promessa mantenuta” e la raccolta di poesie “Sogno in bianco e nero”.

A Concordia Sagittaria, dove vivo, il mio cuore d’inchiostro è stato accolto con gioia ed entusiasmo. In un mondo che le preoccupazioni sono all’ordine del giorno, io cerco con tutte le mie forze di strappare un sorriso, di offrire almeno cinque minuti di spensieratezza a chi ha bisogno e la sa cogliere attraverso una frase, una poesia, un racconto, una pagina di giornale che non parla di suicidi, di debiti e di violenze. Non sempre ci riesco, ma non smetto di provarci.

Chi sono? Il mio nome è Kis Mihailescu Andreea Iustina, nata in Romania, a Targu Ocna il 01/07/1982, carattere sereno, donna ricoperta da una corazza di pietra che ospita un’anima sensibile, moglie e madre, paroliera e giornalista, presidente dell’Associazione Culturale Cuoridinchiostro.

Mi nutro di sole, di aria, di pensieri positivi e di sogni; ho conosciuto il buio, le difficoltà, la falsità e l’ipocrisia, ma non li ho lasciati far parte della mia vita. Li ho graffiati a sangue, costretti a starmi lontano.

Ho delle paure, che a sangue freddo riesco a gestire per quanto possibile. Mi fa paura la vecchiaia. E qui non gestisco più nulla, è impossibile. Il passare del tempo non lo può fermare nemmeno il più bravo mago del mondo, forse solo il più bravo mago della fantasia, ma già quando incominci a chiedere aiuto al mago della fantasia, sei già vecchio. Ritorni bambino. Fantasticando. Come allora.

Non ho dei sogni nel cassetto, i sogni li tengo nel frigorifero, per mantenersi freschi, senza polvere e con odore di chiuso.

Non hanno scadenza e realizzarli è possibile. Perché sono viva, perché sono ottimista e non voglio arrendermi. Mai.

Capitolo 5: Se sei una impresa che produce sorrisi, allora sai cosa fare in momenti come questo

Di Barbara Piazza ( Sales area manager & Training specialist Ruthinium)

Tante persone hanno perso il sorriso, negli ultimi anni. E non pensate — non solo — alla crisi: ci sono altri motivi che possono farti perdere la possibilità di parlare normalmente, prima ancora che di sorridere. E non serve essere anziani. Non potersi permettere qualcosa che ti permetta di riprendere la tua vita — una protesi, dei denti in resina — è un dramma in più. Se sei una azienda che produce sorrisi, allora sai cosa devi fare.

Studenti di odontotecnica

Il 2015 avrebbe segnato un traguardo importante. 50 anni di attività. Era infatti il 1965 quando mio padre Giovanni, assieme al fratello, Vincenzo, avviarono la loro piccola attività inizialmente rivolta alla produzione di gessi e rivestimenti per odontotecnica; la produzione di denti artificiali in resina arrivò qualche anno più tardi. E cosi, quando in azienda cominciammo a ragionare su come celebrare il cinquantesimo anniversario della nascita del marchio Ruthinium, pensai subito che il modo migliore fosse quello di regalare sorrisi veri a chi non poteva permetterseli.

Non sono amante delle celebrazioni in grande stile e per questo, anche se si trattava di un traguardo importante, l’idea di una festa cosi come viene contemplata dalla maggior parte delle persone, non mi sfiorò nemmeno. Il progetto era semplice e consisteva nell’ impiegare i materiali di nostra produzione e i professionisti odontotecnici che collaborano con la nostra azienda, nella realizzazione di protesi mobili totali o parziali interamente gratuite, con la collaborazione di medici dentisti che, anch’essi gratuitamente, avrebbero messo a disposizione il loro studio per la rilevazione delle impronte preliminari e di eventuali bonifiche.

Per fare questo avrei necessitato del supporto dei servizi sociali del comune di Badia Polesine, dove la nostra azienda ha sede, il quale si sarebbe fatto carico di gestire tutta la parte burocratica relativa la verifica dei requisiti di idoneità, ossia residenza nel comune di Badia Polesine e reddito ISEE inferiore a 7.500 euro.

Quando parlai del progetto al primo cittadino ne fu entusiasta e pochi giorni dopo firmammo il protocollo di intesa con tre medici dentisti che , con grande ammirazione, avevano aderito al progetto. Il comune infatti presentò il progetto a tutti i dentisti che esercitano la loro professione nel comune di Badia Polesine, e su 8 , aderirono in 3.

Ad un anno di distanza abbiamo realizzato 25 protesi totali. Ho personalmente incontrato alcune delle persone alle quali abbiamo regalato un nuovo sorriso ed ho scoperto che abbiamo fatto molto di più. Perché una persona edentula prova spesso imbarazzo per la propria condizione, a volte anche vergogna. Non sono solo le difficoltà nella masticazione, quasi sempre pressoché impossibile, ma soprattutto i disagi di carattere sociale e psicologico legati alla propria condizione.

Quando presentai in azienda il progetto Ruthinium Solidale avevo da tempo già in mente un altro progetto, maturato un anno addietro, quando casualmente ad una conferenza scientifico-culturale incontrai un docente di laboratorio della scuola per odontotecnici di San Benedetto del Tronto. Con lui ebbi una chiaccherata sulla scuola — non la loro, ma la scuola in termini generali, la scuola italiana — nello scenario odierno. Fui sconcertata nell’apprendere dei tagli, della scarsità di materiale didattico a disposizione degli studenti, della riduzione delle ore di laboratorio, essenziali per chi, una volta raggiunto il diploma, deve saper “fare”.

Da sempre, essere d’esempio è per me ragione di grande motivazione, e cosi il progetto avrebbe previsto il nostro supporto alle scuole italiane di odontotecnica attraverso l’ausilio di opinion leader, professionisti stimati e riconosciuti in ambito nazionale ed internazionale che avrebbero portato le loro conoscenze, il loro sapere e le loro scoperte nel campo dell’odontotecnica, nella scuola italiana attraverso conferenze, workshop e corsi teorico pratici.

Barbara Piazza, a destra, con la vincitrice del primo trofeo Ruthinium

Prima di iniziare questo progetto, prima di metterlo “a bilancio” avevo necessità di rendermi conto personalmente di quale fosse la reale situazione nelle scuole italiane e da qui nacque l’idea di indire una gara nazionale di realizzazione di protesi mobile, il Trofeo Ruthinium, che mi avrebbe permesso di visitare le scuole partecipanti, di conoscere i ragazzi, i loro sogni, le loro aspirazioni.

Il Trofeo Ruthinium, quest’anno alla seconda edizione, consiste in una gara nazionale di realizzazione di protesi mobile rivolta agli studenti del quinto anno delle scuole italiane di odontotecnica. Per ogni istituto sono ammessi due studenti partecipanti. Da subito il progetto é stato accolto con grande ammirazione e dedizione da parte dei dirigenti, dei docenti e degli stessi studenti. Tra gli impegni per il progetto “Ruthinium nelle scuole” ed il “Trofeo Ruthinium” sono nelle scuole di media più di una volta al mese.

Lavorare con i ragazzi, in mezzo a loro, mi piace molto. Ho 44 anni, sono madre di tre ragazzi, dai 25 ai 14 anni, negli studenti che incontro vedo i miei figli e so quanto sia importante riporre in loro fiducia, quanto valore ha il tempo che a loro sapientemente dedichiamo, e come possa diventare fondamentale che tutto questo avvenga, per merito nostro, nella scuola.

Indipendentemente dall’indirizzo di studi credo che le aziende italiane dovrebbe trovare il modo di entrare nelle scuole, di coinvolgere gli studenti, di stimolarli. I giovani sono il futuro, noi abbiamo il dovere di credere in loro, di aiutarli a credere in loro stessi e di fornire loro i mezzi e gli strumenti per riuscire a farlo.

Capitolo 4: Ma il mondo non ha mai visto così tante opportunità. Ragazzi, non fatevi spegnere

Di Roberto Siagri (a colloquio con Barbara Ganz)

Volevamo fare computer, made in Carnia: e non volevamo doverci preoccupare che qualcuno potesse imitare il nostro prodotto, volevamo che fosse sempre e comunque un passo avanti.

I computer sarebbero usciti dagli uffici, avrebbero invaso tutti gli spazi: Eurotech è nata su questa intuizione, nel 1992.

Eravamo in cinque: tutti usciti da un’altra azienda, ma gradualmente, per non metterla in difficoltà e non rischiare di fare, noi stessi, il passo più lungo della gamba. Avevo pensato che fosse la fabbrica il posto giusto nel quale portare i nostri pc, efficienti nonostante le dimensioni ridotte, poi un imprenditore veneto mi ha aperto gli occhi: guarda qui, guarda quanto spazio, perché dovrei spendere per un computer piccolo che mi costa più di uno grande? Ho capito che dovevo puntare su ambienti piccoli, e i primi sono stati gli autobus del trasporto pubblico, che avevano solo un sistema radio digitale. Avevamo trovato un mercato.

In America c’era un consorzio che puntava sugli standard, per portare i pc nati negli uffici anche altrove, senza dover creare sempre nuovi software: siamo andati a vedere le richieste che avevano, e — allora c’era la liretta, era facile competere — gli abbiamo proposto i nostri pc.

Non ci credevano: voi siete italiani, fate bene la pizza, i vestiti, ma la tecnologia, quella no. Anche adesso c’è un problema di brand Paese: basti vedere quanto si investe in questo settore.

Roberto Siagri

Oggi siamo un gruppo internazionalizzato: più in Giappone e in America che qui. Nel 2001 abbiamo aperto ai fondi di investimento, nel 2005 ci siamo quotati in Borsa, abbiamo fatto aumenti di capitale.

Siamo una fabbrica delle idee, più che degli oggetti: per fare i pc serve il silicio, ma nessun produttore — se non è Apple — se lo fabbrica da sé, si affida a terzi. Il nostro nome non si vede: i nostri computer sono embed, nascosti, un termine che molti nemmeno conoscevano. Ma c’è Eurotech nei treni Alstom o nelle apparecchiature per la risonanza magnetica Hitachi, solo per fare due esempi. La nostra idea — il pc pervasivo, ovunque — si era realizzata, e la miniaturizzazione era compiuta. Un cellulare da 200 euro di oggi è più potente dei primi computer grandi come una stanza. Solo che adesso abbiamo 50 miliardi di dispositivi: come li connetti? Come li fai comunicare?

L’industria 3.0 ha reso intelligenti le macchine, la quarta rivoluzione è coordinarle.

Un esempio? Per Ariston Thermo abbiamo messo a punto una caldaia che prevede quando sta per rompersi e ordina il pezzo mancante: così il tecnico arriva con il ricambio giusto. Pensiamo a una fabbrica: anche adesso le macchine producono una quantità di dati, ma serve un essere umano per raccoglierli a mano. La prospettiva è passare dal possesso all’uso; pago quello che mi serve, come è già adesso per le fotocopiatrici, guardi il numero delle copie fatte e quello basta. Bmw lo ha già detto: l’obiettivo non sarà più vendere le auto.

Ogni rivoluzione industriale ha migliorato la situazione del pianeta, e questa è una rivoluzione sostenibile, cambia la catena del valore.

Prendi Air Bnb ad esempio: senza tirare su un solo muro ha trasformato l’accoglienza.

Prossima tappa il 2025: allora per mille euro potremo comprare un computer con la potenza della mente umana. Ecco perché allora sarà disponibile la macchina che si guida da sola; lo farà un computer, che oggi esiste ma è troppo grande, e troppo costoso. E nel 2050, se il progresso andrà a questi ritmi, un pc da mille euro avrà la potenza di calcolo di tutti gli abitanti del pianeta.

C’è il rischio che le macchine prendano il sopravvento? Io ho una visione positiva: saremo sempre più legati alla tecnologia, ma in fondo il nostro Dna non è perfetto. Se ci tagliamo un dito, non si può riparare: e poi ci ammaliamo, e soprattutto invecchiamo. Niente di particolarmente efficiente, no?

Oggi ci fa paura un virus come Zika; ma se avessimo a disposizione una grande potenza di calcolo, in poche ore si potrebbero fare test che oggi richiedono settimane o mesi, e senza cavie, capire qual è la cura giusta, le dosi, gli effetti. Se potessimo inalare un nanorobot come medicina, non avrebbe gli effetti collaterali che hanno alcuni farmaci oggi: colpirebbero solo il bersaglio, senza sparare nel mucchio.

Certo, è un cambiamento talmente grande che è inimmaginabile: è come quando cambi stato, da liquido a solido, e non sai come potrà essere. Una discontinuità come non c’è mai stata.

In Eurotech siamo in 380, di questi in Italia sono 80. Nella ricerca e sviluppo abbiamo 120 persone: arrivano da tutto il mondo. Molti sono italiani che hanno fatto esperienza all’estero: paradossalmente è più difficile assumere un genovese che non si è mai mosso, perché chi ha lasciato una volta l’Italia non ha il vincolo delle radici, e magari ha anche piacere di portare qui quello che ha imparato.

Ma non li chiamo cervelli di ritorno, sono talenti, solo questo: in fondo la Repubblica di Venezia faceva così, mandava le teste migliori fuori, perché imparassero. Il vero problema è un sistema Paese che non attira le eccellenze dall’estero: perché se la nostra migliore università è la 150.esima nella graduatoria, chi la sceglie?

La tecnologia in Italia non è vista come una risorsa, come qualcosa che può trascinarci fuori dalle difficoltà. Eppure, provate a confrontare la spesa in tecnologia e il Pil dei diversi Paesi: è incredibile quanto siano legati a doppio filo, Italia a parte.

A parte tutto, questo è il momento in assoluto migliore che il mondo abbia mai vissuto. È vero che c’è ancora povertà, e che troppe persone non hanno accesso a cure e istruzione: ma sono sempre meno, e sempre meno saranno. Lo so, vediamo le cose negative e non crediamo al progresso: ma è una questione di amigdala, è la nostra natura che, per difesa ci fa vedere le minacce più delle opportunità. Le buone notizie nemmeno le vediamo.

Io ho due figli, 23 e 25 anni. Uno suona il violoncello, uno studia chimica. Fanno altro, ma non ho mai pensato che l’azienda fosse un “affare di famiglia”. Non li sgrido mai perché smanettano con cellulare: vorrei lo facessero di più. Questo è quello che racconto ai ragazzi e alle ragazze quando mi chiamano nelle scuole: il futuro non deve fare paura, neanche quando le macchine si produrranno da sole e noi dovremo venirci a patti. Troveremo un modo, in fondo abbiamo già messo sotto controllo la nostra natura: una volta ci si uccideva per nulla, ora la ragione vince, o almeno più spesso che nei secoli passati.

Una volta un giovane mi ha fermato alla fine dell’incontro:lei ci ha parlato di sogni, mi ha detto. Non è vero, questa non è mica Star Trek. Ho parlato di cose che potreste fare voi, e se non le farete voi le farà qualcun altro, magari in India. Ragazzi, non fatevi spegnere.

Capitolo 3 — Adesso che ho compiuto 80 anni (che non sono 79, nè 81)

Testo raccolto da Francesca Schenetti

Mi chiamo Giuseppe Petris. Sì, ho 80 anni, che non sono 79 e nemmeno 81. Mi hanno festeggiato e parecchio, anche se non sono mai stato propenso a queste cose. Da piccolo, il giorno del mio compleanno o del mio onomastico scappavo e non mi facevo trovare: non sopportavo che mi tirassero le orecchie. Che brutta abitudine pensavo, perché si deve patire così, non lo sopportavo. Ricordo benissimo che per San Giuseppe me ne stavo fuori tutto il giorno. I miei figli, mia moglie Licia invece ci tengono a queste ricorrenze e quest’anno mi hanno regalato una bella festa.

Mi chiamo Giuseppe Petris, ho fondato la Wolf di Sauris. Era il 1962.

Con la moglie Licia

All’inizio la produzione era molto semplice, quasi casalinga. Si lavoravano i prosciutti secondo la tradizione artigianale, in modo assolutamente elementare. Oggi invece, tutto è cambiato. Si sono modificate molto le normative nel nostro settore e seguire la burocrazia che sta dietro ai vari disciplinari è diventato un compito durissimo. Penso che si sia persa la misura in fatto di mole burocratica, troppe carte, troppo di tutto. Stabilite alcune regole certe e chiare; non dovrebbe esserci altro. Tutto sarebbe più semplice e meno gravoso.

Non lo condivido, certo che no. Non ho mai visto un mondo peggiore di quello in cui viviamo oggi.

Si potrebbe fare molto e bene per lo sviluppo e la crescita delle aziende in Italia ed invece, accade il contrario. Abbiamo risorse, volontà, idee, ma troppe volte le leggi non ci tutelano e proteggono, come invece dovrebbe accadere. Per fortuna ho i miei figli e la mia famiglia accanto. Ed ho fede, credo fortemente e questo mi ha sempre aiutato nella vita. Insieme ad una certa rettitudine. Ho cercato di fare le cose per bene, di essere corretto con tutti, anche con coloro che hanno lavorato e lavorano con me. Nei riguardi delle persone che, come avviene purtroppo nella vita, mi hanno ‘offeso’ o che in generale non si sono comportati bene, non ho mai tenuto rancore. Ci sono passato sopra e questo ha consentito che tutti mi rispettassero.

Ricordo che pochi anni dopo aver fondato la Wolf, le cose non andavano per nulla bene.

La banca il lunedì mi chiamava per capire in quanto tempo sarei rientrato del mio debito. L’unica cosa da fare era chiudere, fallire.

Avevo quattro figli molto piccoli da crescere con mia moglie e non avevamo altro che il prosciuttificio. Non abbiamo però mollato, in quel momento in cui tutto faceva presagire il peggio.

Nel tempo, i miei figli sono cresciuti in azienda. Stefano soprattutto ha per così dire imparato pure il ‘pavimento’. Ricordo che proprio Stefano (l’attuale ad) venne assunto come un dipendente qualsiasi durante le sue vacanze estive. Ci siamo rimboccati le maniche e ci siamo dati da fare. Ricordo bene un pensiero che feci dopo i primi lavori per incrementare lo spazio a disposizione: dissi dentro di me che per dieci anni ‘eravamo a posto’, l’anno dopo invece ci trovammo punto e a capo.

Ora raccolgo i frutti. Sicuramente, avere cresciuto i figli in un certo modo, ha generato persone in gamba sotto tutti i punti di vista. Conta moltissimo l’educazione. In parte dipende dal carattere di ognuno, ma tanto fa come vengono cresciuti da piccoli, per il risultato finale. Sempre lasciandoli liberi nelle loro decisioni. La mia filosofia di vita è non portare mai rancore, cercando sempre di aggiustare le cose. Non vorrei dirlo ma ho cercato sempre di mettere in pratica ciò che i vangeli affermano. Non è stata per me solo teoria la fede cristiana: ho cercato sempre di renderla nella concretezza della vita. Questo comportamento ha pagato e paga. Invito tutti a comportarsi in modo netto e corretto, e perdonare, anche quando sembra la cosa più difficile da fare. Davanti ad un’offesa passiamoci sopra. Ci sorprenderemo nel vedere la reazione dell’altro che si sentirà così, ancora più umiliato.

Oggi la nostra azienda oggi conta oltre 50 dipendenti, produciamo e commercializziamo una quindicina di referenze, tra cui il Prosciutto di Sauris IGP e lo Speck di Sauris. Il nostro sistema di lavorazione si avvale delle più innovative tecnologie seppur i processi rimangano di tipo tradizionale ed artigianale. E siamo moderni: il negozio online ha raggiunto i 2mila clienti.

Il futuro? Può sembrare forse un pensiero ‘assurdo’ ma penso che il nostro Paese ed il suo sistema economico peggio di così non possano andare, pertanto, non si può che migliorare.

Capitolo 2 — Così la Libia ha inghiottito anche le nostre imprese (nell’indifferenza generale)

di Gianni De Cecco

Sono un ingegnere civile libero professionista con 36 anni di lavoro alle spalle. Da qualche mese sono andato “anagraficamente” in pensione, ma con lo spirito continuo a portare avanti la mia attività. Sì, purtroppo solo con lo spirito! Tutto ciò che avevo costruito in 36 anni di attività è stato rovinato in poco tempo.

Vorrei raccontare la mia esperienza a partire dal 2006: la società d’ingegneria che avevo fondato nel 1990 aveva circa 40 collaboratori fissi. Capii che per noi sarebbe cominciato un periodo difficile, coinciso con l’inizio della crisi economica.

Conscio della difficile situazione italiana, decisi di prendere la “valigia di cartone” per cercare lavoro all’estero.

Ricevetti la telefonata di un imprenditore friulano, nonché amico, che operava in Guinea Equatoriale. Stava realizzando gli interventi preparatori per la costruzione della nuova capitale immersa nella foresta vergine: Oyala.

Avevo una scarsa conoscenza delle lingue straniere, fatta eccezione per il friulano, ma decisi che questo non mi avrebbe fermato per il malessere che provavo, per quello che stava accadendo in Italia (liberalizzazioni senza regole, gare al massimo ribasso) e il presagio di anni difficili.

Nel 2007, a metà luglio, venni informato che l’aereo su cui viaggiava il mio amico imprenditore, era caduto causandone la morte. La mia esperienza in Guinea Equatoriale terminava prematuramente. Nei mesi precedenti, tuttavia, avevo conosciuto Renzo, un imprenditore veronese che operava in Libia e che mi offrì l’opportunità di collaborare con lui per seguire dei lavori in quel Paese. Nonostante la mia società d’ingegneria fosse una delle più importanti della mia regione, il Friuli Venezia Giulia, per operare all’estero aveva bisogno di affiancarsi a imprese di costruzioni. Parlai con un impresario friulano che si rese disponibile a condividere l’opportunità e partii per la Libia.

All’inizio del 2008, l’Impresario, Renzo, un imprenditore libico di Tripoli ed io costituimmo una società a responsabilità limitata che si proponeva di operare con una branch in Libia. Nel febbraio dello stesso anno, dopo mesi di incontri e contatti, la nostra società e una impresa statale Libica di Al Bayda (Montagne Verdi) costituirono una Joint venture.

Nel luglio 2008 l’HIB (Housing & Infrastructure Board , il ministero delle Infrastrutture libico) affidò alla Joint venture un contratto dell’importo di 433.500.000 lyd (circa 250 milioni di euro) per la progettazione e costruzione di 3mila unità abitative e 86.000 metri quadrati di edifici pubblici.

Il contratto riguardava una porzione della nuova città di Sidi Al Hamri che si sarebbe edificata sulle Montagne Verdi, a sud di Al Bayda, e che doveva ospitare circa 70.000 abitanti (circa 12.000 unità abitative). L’area che doveva accoglierla era adibita a pascolo.

Vista di Al Sidi

In qualità di socio progettista, all’interno della nostra Società, iniziai l’elaborazione del masterplan sulla base dei rilievi dell’area di oltre 900 ettari. Quando presentai al Ministero libico le prime proposte, la JV fu incaricata della progettazione di tutta la nuova città: dalle infrastrutture agli edifici residenziali e pubblici. Nell’ottobre 2008 la nostra branch venne inoltre incaricata di progettare ed eseguire 180 ettari di infrastrutture della città di Cirene e successivamente di progettare 930 ettari di infrastrutture a Tobruk. Il progetto della nuova città prendeva corpo: nel marzo 2009 fu approvato il masterplan dell’intera città e i modelli degli edifici condominiali (tre modelli) e delle case unifamiliari (quattro modelli).

Lavori per la nuova città di Sidi al Hamri

Sfortunatamente in marzo Renzo morì, l’impresario decise di ritirarsi e alla fine del 2009 mi trovai da solo a fare il progettista costretto, per cause di forza maggiore, a fare anche il costruttore. Alla fine di aprile, su disposizione di Saif al-Islam, figlio di Gheddafi, le autorità libiche decisero che tutte le progettazioni che si sviluppavano sulle Montagne Verdi dovevano seguire la Dichiarazione di Cirene, e cioè i principi di sviluppo sostenibile; tutela archeologica; eco-turismo; energie rinnovabili; progettazione urbanistica ambientalmente responsabile; ecc. Questa decisione comportò lo stravolgimento totale del progetto che era appena stato approvato. Il controllo e la supervisione furono affidati dalla HIB a diverse società: AECOM americana, ECOU libica e ALGURG di Abu Dhabi.

Inizialmente l’aver a che fare con tante società straniere mi intimorì un po’, ma dopo i primi incontri compresi che le realtà professionali italiane hanno capacità e preparazione come poche nel mondo. Purtroppo tutto questo bagaglio e know how sta svanendo a causa della crisi e del mancato sostegno delle istituzioni alla nostra causa.

Autorità alla posa della prima pietra

ln agosto 2009 la Commissione di controllo si riunì a Udine e approvò il nuovo masterplan della città di Sidi Al Hamri. In maggio 2010 si iniziò lo sbancamento delle strade principali della città e si avvio la realizzazione delle strade di due quarteri il n° 1 e il n° 5. Ciò consentì all’impresa cinese Sinohydro (con un milione di dipendenti dei quali 100.000 tecnici) di avviare il suo contratto riguardante la costruzione di 4mila unità abitative sulla base del nostro progetto.

Il 15 febbraio iniziò la rivoluzione a Benghazi e il 16 ad Al Bayda, sede dei nostri uffici. Venerdì 18 febbraio 2011, dopo aver assistito a tre giorni di scontri fuori dalla nostra casa, decidemmo di rientrare in Italia.

L’autista, dopo la Preghiera, caricò le valigie di noi sei italiani, sul furgone, che chiamavamo Milka per la particolarità del suo colore lilla, per portarci a Benghazi. Infatti, in quella stessa mattinata erano state rese inutilizzabili le piste dell’aeroporto di Al Bayda e così dovemmo viaggiare per circa 200 km. Tutti noi avevamo messo in valigia poche cose, convinti che nel giro di qualche settimana saremmo rientrati in Libia.

Per arrivare a Benghazi, fulcro da cui iniziò la rivolta libica, attraversammo aree colpite da scontri e incendi. Una volta arrivati non trovammo posti disponibili sui voli di rientro a Tripoli. Gli alberghi, situati nel centro città, non potevano essere raggiunti perché infuriava la rivoluzione. Per fortuna alcuni amici ci informarono che sarebbe arrivato un aereo della compagnia Buraq, di cui comprammo i biglietti e così volammo su Tripoli alle 20,30.

Così avrebbe potuto essere: rendering delle abitazioni

Tripoli ci sembrava tranquilla, tanto da andare a cena a piedi (circa 2 km) al ristorante dell’Hotel Corinthia. La rivolta era distante più di 1000 chilometri.

Sabato 19 febbraio ci recammo alla sede dell’Alitalia di Tripoli per fare il biglietto, ma gli uffici erano chiusi per turno di riposo nonostante la situazione di allarme. Andammo quindi all’Ambasciata Italiana per informare gli addetti della nostra situazione. Chiedemmo anche a loro indicazioni su come poter rientrare in Italia, ma non ricevemmo soluzioni. Parlando poi con altri connazionali, capimmo che se fossimo andati in aeroporto la mattina presto avremmo potuto fare i biglietti direttamente ai banchi dell’Alitalia, qualora ci fossero stati posti disponibili.

Domenica 20 febbraio arrivammo in aeroporto alle 4,30 del mattino, il volo sarebbe partito alle 6 circa. Con molta fortuna acquistammo i biglietti, peraltro ad un costo inferiore al solito. Il volo partì in orario e alle 10,30 eravamo già a Trieste.

Non mi rendevo conto che da quel giorno sarebbe iniziato un “calvario”, un periodo molto difficile che non si è ancora concluso.

Lunedì 21 febbraio 2011 rientrai in ufficio a Udine e attesi qualche giorno per capire come comportarmi con i collaboratori che lavoravano alla progettazione ed esecuzione della nuova città ed alle altre progettazioni delle infrastrutture di Tobruk e di Cirene. La società d’ingegneria aveva circa 60 collaboratori fissi a Udine, la società che operava in Libia aveva una decina di collaboratori in Italia e una ventina in Libia, senza considerare le collaborazioni esterne. Quando in marzo iniziarono i raid della coalizione francese, inglese e americana, capii che il rientro in Libia non sarebbe avvenuto a breve. Questa convinzione era suffragata anche dai contatti con i libici che avevano i telefoni attivi.

Inviai le lettere di licenziamento ai collaboratori libici, le lettere di sospensione dell’attività dei contratti per cause di forza maggiore alla HIB e iniziai ad allontanare i primi collaboratori per la cui formazione avevo investito anni

La delusione più profonda fu di avere visto andare in fumo il lavoro di trent’anni di investimenti, di formazione di personale. Al contempo iniziai a darmi da fare per cercare un aiuto dallo Stato Italiano per me e per tutti coloro che si trovavano nella mia situazione, al fine di farci liquidare i crediti che erano stati maturati in Libia.

2009: io e un anziano che parlava italiano

Un calvario, ho scritto, e questo è stato: mi dicono che leggere tutto quello che è accaduto richiederebbe una attenzione fin troppo elevata per un lettore normale. Basti allora sapere che abbiamo lottato, senza risultati. Ci sono state proposte di legge per la liquidazione dei crediti delle aziende italiane in Libia, usando i fondi del trattato di amicizia firmato nel 2008 da Gheddafi e Berlusconi: un accantonamento da 225 milioni di euro all’anno. C’è stato un censimento sulle aziende coinvolte e la loro esposizione, interpellanze parlamentari, tante promesse. Ci dissero che le aziende interessate sarebbero state “contattate entro la fine del 2012 per concordare prospetti di liquidazione e la riattivazione dei contratti ritenuti ancora di prioritario interesse libico”.

Trascorse tutto l’anno 2013 senza ricevere alcuna chiamata e informazione. Trascorse anche tutto l’anno 2014 senza che nessuno ci informasse dell’avanzamento delle nostre pratiche. Fummo costretti ad arrangiarci per cercare di raggiungere lo scopo per sopravvivere sia ai creditori sia allo stato d’animo opprimente.

Il 07 maggio 2015 consegnai il progetto esecutivo delle infrastrutture di Cirene alla HIB di Tripoli. Nel mese di luglio 2015 furono approvate le progettazioni della nuova città e le fatture riguardanti le prestazioni eseguite fino ad allora. Tutto ciò è il frutto di innumerevoli viaggi a Tripoli, specialmente nel 2015 (di cui non racconto le vicissitudini ed i rischi), e della collaborazione di alcuni tecnici libici che mi hanno consentito di concludere tutte le procedure burocratiche preliminari al tanto atteso pagamento… pagamento che non è ancora avvenuto.

Non voglio raccontare nel dettaglio gli stati d’animo di questi ultimi cinque anni passati dal mio rientro in Italia.

Mi sento solo di dire che in quest’interminabile attesa di risposte, vedendo tutto ciò che ho costruito in una vita sgretolarsi inesorabilmente, la sensazione di sconforto e di angoscia è stata così forte da sentirmi completamente impotente e senza forze per reagire… In quei momenti era impossibile trovare pensieri positivi.

Ho pensato molte volte a quegli imprenditori che preferiscono farla finita e credo di riuscire a capire il loro stato d’animo.

La tomba Mohamed Sidi Al Hamri

Assieme agli altri imprenditori presenti in Libia nel febbraio 2011 ci chiediamo il motivo per cui uno Stato non tuteli e risarcisca coloro i quali, senza causa, sono stati costretti ad interrompere i contratti di lavoro. Ci chiediamo il motivo per cui non siamo stati almeno assistiti nelle operazioni di recupero dei crediti maturati e di ripresa delle posizioni raggiunte in Libia con grandi sacrifici e senza aiuto di alcuno.

La maggior parte delle 80 imprese e società, presenti in Libia fino al 2011 e con crediti da esigere, è composta da piccole realtà. Queste piccole realtà negli anni furono richiamate in Libia per riprendere i lavori, ma senza liquidità come avrebbero potuto farlo?

Io l’ho fatto!

Ho risposto alla chiamata di ripresa dei lavori, indebitandomi con le banche. Ho fatto tutto ciò per non essere sostituito e al fine di concludere le progettazioni, che solo in questo modo potevano essere approvate definitivamente, e nella speranza di raggiungere l’obiettivo di essere pagato.

Nonostante ciò gli aiuti sono spesso destinati a salvare solo le medie e grandi imprese. Comprendo che siamo dei piccoli imprenditori e non possiamo competere con le grandi realtà, ma noi, come loro, contribuiamo allo sviluppo dell’Italia e potremmo avere un ruolo nella stabilizzazione della Libia. Anzi, rispetto alle grandi imprese, noi, piccole e medie imprese, siamo quelle che conoscevano il territorio.

Ritengo anche che non bastino i decreti, e che non si possano creare posti di lavoro senza la partecipazione di quegli imprenditori “che ce l’hanno nel sangue”, e che hanno la voglia di fare e di impegnarsi a testa bassa per raggiungere l’obiettivo di sviluppare l’azienda e di sostenere i collaboratori e, poi, anche la propria famiglia.

Oltre alla beffa economica (e alla disperazione che ne consegue) — aveva avvertito Gianfranco Damiano, presidente della Camera italo libica è in gioco «la perdita di un patrimonio di relazioni, di esperienze, di professionalità, che ha richiesto ingenti investimenti in risorse umane, economiche e temporali, mentre la costante aggressività delle aziende di altri Paesi come Turchia, Spagna, Francia, Cina, USA le vede muoversi più agevolmente grazie a una reale sinergia e a una costante “protezione” da parte dei rispettivi organismi governativi di appartenenza».

Una profezia che si è avverata.

Il Governo provvisorio con decisione n° 122/2014 autorizzò la sostituzione della mia società con una impresa turca (AZERJI SOKIA GROUP) nella progettazione ed esecuzione della nuova città di Sidi Al Hamri. Ho comunicato quello che mi stava accadendo alle istituzioni, ma senza ricevere alcuna risposta.

Le domande che mi sono posto in questi lunghi cinque anni sono le seguenti:

  1. Perché il Governo non ha utilizzato i fondi del Trattato di Amicizia per liquidare i nostri crediti? I fondi sono pur stati utilizzati dal Governo Letta per finanziare le ristrutturazioni edilizie, la cassa integrazione (che condivido) e chissà in quali altre situazioni. Anche l’attuale Governo Renzi ha utilizzato quei fondi nella legge di Stabilità del 2015, per realizzare le piste ciclabili.

Perché noi siamo stati dimenticati?

2. Perché il Governo non ha utilizzato i fondi congelati per darci almeno un acconto? Il Consiglio europeo l’aveva autorizzato nel novembre 2011, ma nessuno si è mosso. I nostri problemi, se trattati singolarmente, sono insignificanti rispetto a quelli che la Libia stava e sta attraversando. Inoltre i responsabili libici sono periodicamente sostituiti e così i nostri problemi rimangono irrisolti. Per questi motivi è comprensibile che i tempi di pagamento si prolunghino nell’indifferenza delle Istituzioni italiane.

3. A che cosa è servito informare i ministri degli Affari esteri e dello Sviluppo economico che si sono succeduti e tanti parlamentari ed europarlamentari (più di 100)? Molti si sono dimostrati sensibili alle nostre rimostranze, nonostante i ministeri preposti siano rimasti sordi e non abbiano avviato le procedure che ci avrebbero consentito di risolvere i nostri problemi.

Tv e giornali ci hanno ignorato: noi che stavamo lavorando per mantenere le nostre strutture in Italia, i collaboratori e le loro famiglie e stavamo contribuendo a creare lo sviluppo economico del nostro Paese.

Il mio pensiero va a quelli che sono falliti nell’indifferenza delle istituzioni, anche se non avevano nessuna colpa, se non quella di trovarsi in Libia a lavorare nel 2011.

Alcuni mi hanno detto: potevate assicurarvi con la Sace. A questi rispondo che solo due società su 130 erano assicurate e che tutti eravamo sereni perché ci sentivamo tutelati dal Trattato di amicizia.

Con tanto rammarico vorrei concludere dicendo che l’orgoglio di sentirmi italiano, specialmente quando ero all’estero, è ormai svanito a causa delle delusioni che ho subito in questi anni da chi aveva tutti i mezzi e le disponibilità per aiutarci e non l’ha fatto.

Chi non vive una situazione simile a quella che ho descritto può solo immaginare il malcontento, ma non può capire fino in fondo le ripercussioni psicologiche che abbiamo patito e che continuiamo a subire.

Dimenticavo: anche le banche hanno fatto la loro parte: quando lavoravo in Libia gli interessi erano del 3÷4%, al mio rientro i tassi sul debito sono lievitati e hanno raggiunto percentuali dell’ordine del 17÷18% e oltre. Ora, per far fronte ai debiti dovrò accendere un mutuo che pagherò con la pensione che mi è stata erogata lo scorso novembre, dopo 36 anni di lavoro.

Gianni De Cecco

Capitolo 1 — Adesso basta!

di Serenella Antoniazzi

La nebbia ovatta i rumori, abbraccia il paesaggio e lo trasporta in un foglio da disegno strappato dall’album Palladio. Alle medie l’insegnante di arte ci avvicinava ad una forma astratta d’immagine, dove le sagome tratteggiate a matita venivano sfumate dalla polvere di grafite, creata dallo sfregare della punta contro la lama del temperino. I polpastrelli leggeri imprimevano sul foglio ruvido le sfumature di grigio, segnate ogni tanto da qualche granello ribelle.

Gli stessi polpastrelli, oggi, danno inizio ad un “Romanzo Collettivo”, dove storie del NordEst diventano memoria del passato, riflessione per il presente e speranza per il futuro.

Sono trascorsi tre anni da quando tutto ebbe inizio e mi sembra di essere stata in guerra.

Lo stridere del filo spinato che si avvinghiava intorno a me, intorno alla mia vita. La fatica di camminare nel fango. Il peso della responsabilità. Il cruccio di non essermi fermata prima. La rabbia che sentivo crescere e che alla fine si e’ trasformata in urlo: BASTA ! Adesso BASTA !

La crisi non è un virus, non è un batterio di cui non conosciamo la cura. La crisi è una conseguenza di azioni, investimenti, potere in mano agli uomini. Sono gli uomini che giocano con il destino di altri uomini, ed è per questo che spetta ad ognuno di noi lottare per non essere complici di azioni deplorevoli.

All’inizio pensavo di dover proteggere mio padre dall’onta del fallimento. Dalla vergogna di essere un fallito ed aver perso tutto. La disgrazia di essere ricordato, dopo la morte, come un uomo incapace di gestire la propria azienda. In realtà, queste paure, erano le mie.

Non si nasce con il senso dell’onore. Esso cresce dentro di te, quando metti anima e cuore in quello che fai. Si alimenta giorno dopo giorno grazie ai tuoi sogni, alla volontà di andare avanti aiutato da famiglia e collaboratori.

Il rispetto per il lavoro, la dignità che esso crea, la forza che genera trascinando individui, società, territori. Tutto questo non appartiene ai numeri, non appartiene all’economia: è una scintilla che parte da una persona. Un uomo — o donna — d’onore, che mantiene la parola data con una stretta di mano, che umile ammette le difficoltà e chiede aiuto. Sincero, non trama alle spalle dei suoi collaboratori la via più facile per salvarsi e far morire, disarmati, coloro che hanno creduto in lui.

Ci vuole coraggio ad andare avanti, ma ci vuole altrettanto coraggio a fermarsi. In entrambi i casi c’è una domanda che accomuna la scelta. Perché non vogliamo fallire?

Io non volevo fallire perché non avrei saputo dove andare l’indomani e — nonostante la fatica fisica e mentale si infiltrasse nelle ossa — non volevo morire in silenzio. Un libro poteva diventare la testimonianza da lasciare nel tempo.

La pubblicazione mi aiutò ad intrecciare fra loro le persone che si avvicinavano durante le presentazioni di “Io non voglio fallire” conducendole, poi, verso Ildebrando Lava, presidente Confartigianato San Dona’ di Piave. Aveva gli stessi obbiettivi, salvare le aziende e con loro le persone che lavorano onestamente.

Per me Politica, era solo una parola, che piano, piano divenne “strumento per migliorare la nostra vita”. Il “Fondo Serenella” nasce così: chiedendo, intrecciando, curando relazioni con un mondo fino a ieri per me, completamente estraneo.

Se riuscirò a resistere tenendo in equilibrio cartelle esattoriali, avvisi bonari e conti correnti fino alla pubblicazione dei decreti attuativi e quindi attingere alle risorse messe a disposizione , l’ AGA Snc, sarà salva. In alternativa dovrò cominciare a studiare un’altra via di salvezza!

Vorrei che in queste pagine di romanzo collettivo fossero narrate storie di grande coraggio, infinito amore e grandi battaglie private e pubbliche perché il bene prevalga sul male.

Serenella Antoniazzi

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Barbara Ganz

Giornalista @Sole24Ore da #NordEst. Autrice di Nati altrove, storie di adozioni internazionali. Gattofila. Nel blogganz solo notizie che leggerei io per prima