L’ombra dell’infantilizzazione nelle sottoculture giapponesi.

Giada Farrah Fowler
7 min readJun 12, 2015

Manga 漫画, è il termine che indica i fumetti prodotti in Giappone.
La tradizione è molto antica: si rifà agli emakimono 絵巻物, rotoli di carta o di seta del XI — XII secolo che raffiguravano scene quotidiane, fatti di cronaca, leggende. Oggi, spesso, il successo di un personaggio di un manga si risolve in una trasposizione più o meno fedele delle sue avventure sotto forma di anime (dall’abbreviazione di animeshōn, traslitterazione giapponese della parola animation, animazione).

Manga e anime derivano anche dal teatro di carta, il kamishibai 纸 芝 居, tipico della tradizione folkloristica giapponese.

Nel mercato editoriale nipponico i manga vengono suddivisi in macrocategorie, ognuna corrispondente ad un pubblico di destinazione suddiviso per fasce d’età:
* i kodomo 子供 sono pensati per bambini fino a 10 anni;
* gli shōjo (少女 e gli shōnen 少年漫画, rispettivamente per le ragazze ed i ragazzi dai 10 ai 18 anni;
* i seinen 青年 per il pubblico maschile maggiorenne;
* i josei 女性 per le coetanee
Esiste infine il genere hentai 変態, a sfondo erotico o pornografico. Siamo di fronte, quindi, ad un pubblico vastissimo ed eterogeneo.

Per quanto riguarda i personaggi è necessario scindere tra kyara e character, rispettivamente “icone votate allo sfruttamento commerciale e personaggi di spessore narrativo”: i primi rappresentano il caposaldo del merchandising, i secondi sono “d’autore” e puntano maggiormente sugli approfondimenti psicologici, sull’originalità dei temi, sulla cura nella realizzazione tecnica.

L’influenza di questi prodotti nel nostro paese è da sottolineare, anche perché essi:

costituirono uno dei primi e più potenti impulsi alla creazione di comunità infantili spontanee, basate sulla condivisione di esperienze comuni.

Nessuna produzione di disegni animati ha raggiunto il successo degli anime giapponesi: i cartoni americani a cui eravamo abituati precedentemente divertivano, quelli giapponesi si aprono all’interpretazione, turbano, angosciano. La suddivisione in fasce di età in Italia non viene applicata e l’indifferenziazione del medium televisivo ha portato alla loro fruizione un pubblico estremamente eterogeneo. Quando agli inizi degli anni Ottanta è decollata l’importazione nel nostro paese dei cartoni giapponesi non sono mancate le polemiche: gli anime rompevano le categorie estetiche tradizionali dell’animazione, il “potere” era nelle mani di bambini, che vivevano conflitti e drammi interiori, la dose di violenza non era trascurabile, poiché:

gli anime sono finzione, esagerazione, racconto iperbolico, ma al contempo raffigurano sub specie metaphorica il mondo della vita, con i suoi attimi di intensità e le sue pause, con i moti dell’animo più violenti e i sentimenti più delicati.

Spesso non pacificamente ed accompagnati da critiche e reticenze, pur costituendo prodotti culturali locali, i manga e gli anime si sono comunque insediati nel tessuto collettivo culturale di molti paesi.
Sarà soprattutto la produzione giapponese degli anni Novanta ad innescare un’intensa fascinazione per la cultura di massa del Sol Levante ed il sorgere nei paesi occidentali di comunità di nippomaniaci, organizzate attorno a fanzine, fumetterie, fiere specializzate e, più tardi, forum, newsgroup, siti Internet.

È semplice individuare all’interno dei manga e degli anime i tratti già evidenziati della società giapponese: la cultura aziendalistica, la dedizione e devozione al lavoro, la produttività, il senso del dovere e del sacrificio di sé, sono tutti temi riscontrabili in anime come Naruto, Dragon Ball, I cavalieri dello Zodiaco; l’assenza di un genitore, il contrasto tra generazioni, la solitudine dei ragazzi nel mondo degli adulti, sono rintracciabili in Remì, Pollon, Belle and Sebastian.

Dagli anni Ottanta in poi i protagonisti dello scenario neoconsumistico giapponese, come nel resto delle società avanzate, sono i giovani: essi emergono come gruppo di riferimento privilegiato sul mercato dei consumi.

La società giapponese, in un certo momento della sua evoluzione storica e culturale, decide di porre al centro il giovane.

Il 1977 è l’anno dei suicidi giovanili in Giappone: se ne contano 784. Ma a destare scalpore sulla stampa e alla televisione è il rapido susseguirsi, alla fine delle vacanze estive di quell’anno, fra settembre e ottobre, di una catena di suicidi infantili: tredici per l’esattezza, tutti fra bambini delle scuole elementari. Più che il numero in sé, a provocare sconcerto è la gratuità, l’incomprensibilità del gesto: in tutti i casi mancano le motivazioni, le ragioni dell’atto; quello che colpisce di più è il vuoto di parola, l’incapacità degli adulti che vivevano a contatto del bambino di prevedere, capire, dare spiegazioni a quanto accaduto.

Dal 1977 in poi scendono in campo i sociologi, gli psicologi e le autorità istituzionali: i giovani tenderanno ad essere descritti in termine di privazione, di mancanza, come apatici, apolitici, amorali; saranno gli adulti a parlare per loro, gli specialisti, i mass media.
Agli occhi degli adulti diventeranno un punto interrogativo, un mistero imperscrutabile.

È nell’intervallo di tempo che ci separa da quegli anni che fioriscono due particolari sottoculture: kawaii e otaku.
La cultura kawaii 可愛い si manifesta nell’attaccamento ad oggetti feticcio in colori chiari pastello, carini, dolci, ingenui, adorabili, tondeggianti, paffuti, dalle fattezze piccole e tenere, indifesi, graziosi, che rimandano all’ovattato mondo infantile.

È qualcosa di più d’uno stile di abbigliamento: è una cultura, sviluppata dalle adolescenti, che ha finito coll’estendersi all’intera società giapponese.
È un modo di pensare, di parlare, di scrivere, di gesticolare. È una cultura che ha il suo centro nel mondo degli aidoru (gli idoli giovanili) e negli shōjo manga (i fumetti per ragazze).

Questa moda, basandosi su un atteggiamento puerile, esprime un rifiuto provocatorio, una forma di liberazione dalla società statica, perché giunge a negare la stessa esistenza del presente sociale, in favore di un esibito ritorno all’irresponsabile innocenza dell’infanzia.

Il kawaii diventa business: ogni stagione le industrie sfornano oggetti indirizzati a questa larga fetta di consumatori che abbraccia dalle bambine alle donne adulte ed il mercato italiano risponde subito esportandone l’estetica: si citino, solo a titolo di parziale esempio, le collezioni di moda di Elio Fiorucci e di Fornarina e l’introduzione dei prodotti della Sanrio, che produce il merchandise di Hello Kitty. La fascinazione che esercitano sull’immaginario, sia nipponico che occidentale, viene letta dai sociologi come ulteriore prova dell’infantilizzazione dei giovani e degli adulti contemporanei.
Sono molti gli appassionati adulti del genere lolicon, genere di manga e anime in cui sono presenti personaggi femminili dall’aspetto ingenuo e fanciullesco spesso dipinti in maniera erotica, le cosiddette ragazze-Lolita, “astrazioni ideali della figura femminile, ‘epurate’ quindi da ogni tratto connesso alla sessualità adulta” e shotacon nel caso dell’attrazione quasi sempre in senso sessuale oltre che affettivo nei confronti dei ragazzini prepuberi.

L’altra sottocultura è quella degli otaku おたく/オタク, termine giapponese che dagli anni Ottanta viene utilizzato per indicare le persone interessate in modo ossessivo a qualcosa, generalmente manga, anime, media, tecnologie, videogiochi o collezionismo, “spesso isolati dal punto di vista dei contatti faccia a faccia con il gruppo dei pari e in balia da una dipendenza dai media stessi”; con lo stesso significato il termine si è diffuso anche al di fuori dei confini giapponesi.

Gli otaku sono emblemi dell’introversione, dell’immaturità, della fuga dal reale, della resistenza a far parte a pieno titolo della società.

Tolgono al gioco ogni dimensione ludica e lo trasformano in un laborioso, esclusivo castello di immagini e di dati, in cerca di un possesso e di un sapere totali. Sono, insomma, divoratori.

Il fenomeno si è consolidato in Italia grazie a Internet ma, a differenza del Giappone, non vi è connotazione negativa nel termine: ci si riferisce a semplici appassionati di questa tipologia di prodotti, che non soffrono però di isolazionismo o dipendenza. Il fenomeno non è paragonabile a quello nipponico, non è presente, per il momento, l’aspetto legato alla devianza psicologico-comportamentale.

Nel 2000 l’artista giapponese Takashi Murakami ha dichiarato di riconoscere nell’estetica otaku una manifestazione culturale sottovalutata ed ingiustamente disprezzata, che rispecchia il nuovo Giappone.
A suo avviso la discriminazione degli otaku è simile a quella perpetrata nei confronti degli hinin 非人, la classe più bassa nella struttura gerarchica della società giapponese durante il periodo Tokugawa (1603–1867), ed è un retaggio della struttura discriminatoria di quell’epoca che continuerebbe a caratterizzare la moderna società giapponese.

Nel 2005 il Washington Post ha raccontato la ghettizzazione degli otaku di Akihabara, un quartiere di Tokyo, il più grande distretto di negozi di elettronica del mondo, uno dei centri più importanti della cultura pop giapponese. L’opinione pubblica adulta giapponese li etichetta quasi unanimemente come persone deboli, inutili alla società, parassiti, egoisti, pervertiti, antisociali.

Dicono di loro che non sono capaci di comunicare con gli altri, che possono stare svegli per quaranta ore consecutive, che odiano il sesso e non sanno cosa significhi crescere. Dicono che sono grassi, che i loro capelli sono lunghi, lisci, unticci, e che in generale hanno l’aspetto stropicciato e sciatto di chi frequenta l’esterno solo per lo stretto indispensabile. Il tempo di uscire a fare rifornimento dei pochi cibi consumati: cibi da bambini, colorati e dolciastri…

Questo genere di pregiudizio si è rafforzato all’inizio degli anni Novanta dopo l’arresto di Tsutomu Miyazaki (1962–2008), un serial killer che aveva ucciso quattro bambini e ne aveva mangiato i corpi: egli risultò essere un tipico otaku. Molti giornali pubblicarono una foto della sua camera, dove migliaia di videocassette e fumetti erano accatastati fino al soffitto, ricoprendo quasi interamente le pareti della stanza. Di conseguenza in molti hanno demonizzato questa cultura, assurgendola a simbolo della patologizzazione dei problemi causati nelle nuove generazioni dall’uso dei nuovi media.

La seconda causa è che gli otaku formano un gruppo sociale chiuso, con un’identità comunitaria forte e difficilmente permeabile: questa tendenza difensiva, seppur comprensibile viste le pressioni sociali di cui sopra, rende comunque molto complicata la comprensione della subcultura che essi vanno costruendo.

Analizzare queste subculture in modo approfondito e senza preconcetti è il primo passo da compiere per la loro comprensione.

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Giada Farrah Fowler

Opinion leader, socia Aci, trascrittrice braille, testimone oculare, insegnante di cockney. Un'infanzia tormentata e un'adolescenza anche più dolorosa.