Droghe, discutere ciò che è indiscutibile - per cambiare.

Giustizia, sicurezza, soldi: ecco tutto quello che la war on drugs non ha garantito ai cittadini. Facciamo un po’ di conti in vista di UNGASS 2016.

NonMeLaSpacciGiusta
7 min readMar 11, 2016

di Andrea Oleandri

Criminalizzazione. Incarcerazione di massa. Violenza. Costi enormi.

Sono quattro fatti, indiscutibili, legati a questi 45 anni di guerra alla droga. Indiscutibili e, proprio per questo, da discutere. E superare.

L’occasione per farlo c’è ed è ormai vicina. Sarà la Sessione Straordinaria dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (UNGASS) sulle droghe che si terrà a New York dal 19 al 21 aprile prossimi.

Convocata in via straordinaria dopo la richiesta dei presidenti di Colombia, Guatemala e Messico (tre dei paesi più colpiti e devastati dalle attuali politiche globali sulle droghe), rispetto all’Assemblea originariamente fissata per il 2019, vedrà i rappresentanti dei Paesi che fanno parte dell’ONU ritrovarsi per discutere se e come superare la guerra alla droga.

UNA QUESTIONE DI GIUSTIZIA

Sono milioni le persone imprigionate in tutto il mondo per aver violato le normative anti-droga, in molti casi per reati connessi all’utilizzo personale.

La criminalizzazione di massa è stata la vera e propria cartina di tornasole della guerra alla droga. In America, paese che nel 1971 lanciò la war on drugs, nel 2014 gli arrestati per aver violato le leggi in materia sono stati 1.561.231, di cui l’83% per il solo possesso. Ancora, quasi la metà delle persone arrestate lo sono state per reati legati alla marijuana (anche qui, perlopiù - e cioè nell’88% dei casi - per solo possesso). Un dato abnorme se paragonato al totale delle persone detenute nelle prigioni statunitensi, 2,2 milioni, il più alto tasso del mondo, e in paragone al dato del 1970 (prima che gli Stati Uniti si gettassero nella guerra alla droga) quando i detenuti erano circa 300.000.

Non va di certo meglio in Italia, dove la guerra alla droga ha visto mettere in campo le stesse politiche (e gli stessi effetti negativi) di quelle statunitensi. Basta guardare i numeri. Al 31 dicembre 2015 di detenuti ne avevamo 52.164, di cui circa il 34% in carcere per reati di droga. Numeri che negli scorsi anni — quelli della Fini-Giovanardi — erano anche più alti. Inoltre la stragrande maggioranza finisce dentro per aver violato l’art. 73 DPR 309/90 che colpisce consumatori e spacciatori; pochi quelli arrestati per l’art. 74 dello stesso DPR, che colpisce l’associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti. Quasi la metà per reati legati alla marijuana.

UNA QUESTIONE DI SICUREZZA

Il Messico è forse la perfetta sintesi del come la guerra alla droga metta in pericolo la sicurezza dei cittadini e dello Stato.

Nel paese i Cartelli dei narcos hanno assunto un potere enorme, controllando grandi porzioni dello Stato (e parte dello Stato stesso, grazie alla corruzione diffusa ad ogni livello) e seminando violenza per le strade. Fino al 2006, prima che la war on drugs entrasse nella sua fase attuale con lo scontro tra il governo e i cartelli, tra 60.000 e oltre 120.000 persone (di cui 1.300 bambini e 4.000 donne) erano state uccise. Dal 2007 al 2014 il totale dei civili uccisi è stato di 164.000 — numero superiore ai morti registrati in Iraq o Afghanistan nello stesso periodo.

Sono numeri da paesi in guerra. Una guerra alimentata dal commercio illegale di armi che ha inondato il paese e che ha inevitabilmente contribuito alla grande violenza del conflitto. Un commercio che lega strettamente il Messico agli Stati Uniti: è dagli USA che arriva circa il 90% di queste armi, un viaggio di direzione inversa rispetto a quello della droga, che dal Messico inonda e rifornisce i consumatori statunitensi.

Spirali di violenza che anche l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (UNODC) mette in risalto quando descrive come il sistema della repressione abbia creato insicurezza a livello regionale:

“Gli sforzi di controllo globale della droga hanno avuto una drammatica involontaria conseguenza: un mercato nero criminale di proporzioni impressionanti. Il crimine organizzato è una minaccia alla sicurezza. Le organizzazioni criminali hanno il potere di destabilizzare la società e i governi. Il business illecito della droga ha un valore di miliardi di dollari l’anno, parte del quale viene utilizzato per i funzionari governativi corrotti e per avvelenare le economie”.

Inoltre, sottolinea l’UNODC in un altro documento: “I cartelli della droga stanno diffondendo la violenza in America Centrale, in Messico e nei Caraibi. L’Africa occidentale è sotto l’attacco del narco-traffico. La collusione tra insorti e gruppi criminali minaccia la stabilità dell’Asia occidentale, delle Ande e di alcune parti dell’Africa, alimentando il commercio di armi di contrabbando, il saccheggio delle risorse naturali e la pirateria”.

In tutto questo i funzionari pubblici di tutto il mondo, che si suppone debbano essere in prima linea nel controllo e contrasto dei traffici di droga, sono spesso i più sensibili alla corruzione. La motivazione è semplice: controllano meccanismi a cui i gruppi criminali hanno bisogno di accedere al fine di svolgere la loro attività. E ci accedono. Dagli agenti di polizia al più basso livello, fino ai politici e militari di più alto rango, gli individui sono regolarmente corrotti, a prescindere dal fatto che ciò avvenga attraverso corruzione o minaccia.

Se quanto accade nei luoghi appena descritti ci sembra così lontano (ma basterebbe guardare ai rapporti che la ‘ndrangheta intrattiene con i Cartelli della droga sud e centro americani per capire che non lo è), allora possiamo avvicinarci un po’ di più parlando del terrorismo internazionale. Non è infatti un segreto che le organizzazioni terroristiche — per ultima ISIS — si finanzino con il traffico di droga (ad esempio, più recentemente, con il Captagon, un particolare tipo di anfetamina). Un traffico dove il nostro Paese fa la sua parte. Secondo Wikileaks, infatti, l’F.B.I. ha riconosciuto “l’interazione opportunistica” tra i gruppi criminali organizzati italiani e gli estremisti islamici.

UNA QUESTIONE DI SOLDI

Gli Stati Uniti ogni anno spendono, per sostenere la guerra alla droga, oltre 51 miliardi di dollari. L’Italia, tra carceri, tribunali, forze dell’ordine, circa 1,2 miliardi di euro.

Quando nel 1999 l’allora presidente della Colombia chiese aiuto agli Stati Uniti per i problemi legati al traffico di droga nel suo paese, enfatizzò il bisogno prioritario di politiche di sviluppo e programmi sociali, più che un rafforzamento dell’agenda militare. Gli Stati Uniti però respinsero questo indirizzo. L’approccio che guidava la guerra alla droga andava mantenuto. La Colombia ricevette 860 milioni di dollari. Di questi 632 milioni vennero spesi per le agenzie di sicurezza, solo 227 milioni per il resto. Una piccola parte degli 8 miliardi di dollari che gli Stati Uniti hanno speso dal lancio del Plan Colombia.

Soldi buttati in un pozzo senza fondo e, soprattutto, spesi senza che i risultati voluti, un mondo senza droga, siano stati neanche lontanamente raggiunti.

SI PUO’ CAMBIARE?

Sì, cambiare è possibile. Lo dimostra l’esperienza di alcuni stati che, sul tema droghe, hanno invertito la rotta. Il Portogallo è uno di questi esempi virtuosi. Pur non avendo legalizzato, lo stato atlantico ha comunque decriminalizzato tutte le droghe.

I risultati, dopo 14 anni, sono sotto gli occhi di tutti e a metterli nero su bianco è Transform:

  • l’utilizzo di droghe, soprattutto tra i ragazzi tra i 15 e i 24 anni, è diminuito; c’è stata un declino anche tra le persone che hanno sempre usato droghe e che continuano a farlo;
  • è diminuito il numero delle persone morte a seguito dell’assunzione di sostanze;
  • è sceso il numero di persone che contraggono l’HIV e ora il fenomeno è diventato più gestibile;
  • il numero delle persone arrestate è diminuito e, proporzionalmente, è aumentato quello di chi si rivolge a strutture sanitarie.

Il tutto per aver spostato la questione droghe dal ministero della Giustizia a quello della Salute.

Proprio per quanto riguarda la questione salute infatti il Portogallo si trovava alle prese con indicatori fortemente negativi, in particolare tra le persone che utilizzavano droghe per via iniettiva. Il numero di decessi era salito, così come i tassi di HIV, AIDS, Tubercolosi e Epatite B e C. Così, nel 2001 il paese decise di cambiare strada. Ci fu un crescente consenso tra le forze dell’ordine e i medici rispetto al fatto che la criminalizzazione e l’emarginazione delle persone che usano droga stesse contribuendo a questo problema che, se trattata in un quadro legale, sarebbe potuto essere meglio gestito.

Così fu depenalizzato il possesso personale di droghe che rimase una violazione amministrativa sulla quale a pronunciarsi non sono più i tribunali ma una “Commissione per la dissuasione dalla dipendenza da droghe”, tavoli regionali composti da personale legale, sanitario e sociale.
Le persone dipendenti in questo modo vengono incoraggiate ad iniziare percorsi di cura e, solo raramente se scelgono di non seguirli, le commissioni li costringono. L’obiettivo infatti è che volontariamente si entri in trattamento.

A completare il quadro sono stati gli investimenti con i quali sono stati espansi e migliorati i programmi di prevenzione, della riduzione del danno e dei programmi di reinserimento sociale. A questo si sono affiancate altre misure di espansione del welfare pubblico, come l’introduzione di un reddito minimo garantito.

Riforme che hanno portato ai risultati sopra descritti e che nessun altro paese dove la war on drugs è ancora in corso può neanche lontanamente avvicinare.

[Sul sito di Non Me La Spacci Giusta offriamo ulteriori dati e approfondimenti sulla insostenibilità della guerra alle droghe e la necessità di un radicale cambiamento di rotta. Per non perdervi nessun aggiornamento, iscrivetevi alla nostra Newsletter]

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Campagna della Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti Civili - per un dibattito informato e una riforma delle politiche sulla droga.