Ernesto Ragazzoni, uno spirito libero

Marco Fulvio Barozzi
13 min readFeb 4, 2016

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Ernesto Regazzoni era uno spirito libero, di quelli che non nascono più. Figura anticonformista. e poliedrica, novarese di Orta, Ernesto Ragazzoni (1870–1920), dopo il diploma di ragioniere fu impiegato alle ferrovie, giornalista, conferenziere brillante. poeta e prosatore serio e umorista, saggista intelligente e profetico, anglista, poliglotta, teosofo, niciano, anarco-socialista e alcolista, facendosi beffe di tutti e di se stesso in primo luogo, con un umorismo da cui trapela spesso una vena amara e tormentata, resa attraverso uno stile moderno e, a mio parere, sottovalutato dai critici, in cui è frequente il bisticcio di parole, l’assonanza, la rima interna, da lui considerati come contestazione della banalità dell’espressione tipica del borghesume.

I suoi esordi poetici furono caratterizzati da un’impronta nettamente rivoluzionaria. che si esprime attraverso la satira e la beffa. Così, con Le ballatelle italo-abissine, commentò la prima guerra d’Africa (quella del disastro di Adua nel 1896), voluta dai borghesi in frac:

In cravatta bianca e in frac,

alla sera i crocchi chic

tra le chicchere e i pic-nic

e gli alchermes e i cognac,

con gran pose alla Van-Dyck,

ascoltando Grieg o Bach,

in cravatta bianca o in frac,

alla sera i crocchi chic,

se la ridon del Degiàc

e dei ras di Menelik;

ma l’Italia che fé cric,

jeri, in breve farà crac…

in cravatta bianca e in frac.

.

Pur noi in barba agli Abbacùc,

che impinguati di beefsteaks,

dietro un fumo di giubèk,

profetizzano il zurùch,

da quei negri del cibùc,

Roma avrà il salamelèc,

sempre in barba agli Abbacùc

impinguati di beefsteaks;

e col comodo di Cook,

o di Chiari, e d’uno chèque,

ce n’andremo fin là in break

a sonarci Grieg o Gluck,

sempre in barba agli Abbacùc.

Intorno a quegli anni, con accenti assai simili a quelli del contemporaneo Max Weber, scrisse pagine lucide e profetiche di critica da sinistra, senza nostalgie reazionarie, alla società moderna e all’idea di progresso, che crea una vertigine di avvenimenti e di cose che «ottunde, snerva, rilassa le facoltà ed i sensi. L’amore, così, quando non è lussuria, non è più che un desiderio, l’odio una velleità, la letteratura una gazzetta, l’arte uno sport, l’opinione un affare e la morale un alcunché di molto vago e di molto elastico». La società sembra votata unicamente all’edonismo senza pensare al futuro: “Godere! e per godere il danaro!”

«Lo stesso sonno, quando si dorme, è agitato come è agitata la veglia; lo stesso divertirsi, quando ci si diverte, ha più della sovraeccitazione che dello spasso. (…) Quale anima ora potrebbe serbarsi pura, grande, generosa, in questa necessità che su tutti incombe, di filtrare ogni sentimento pel portafoglio, di fare continuamente dell’aritmetica, di continuamente pesare le miserie, i bisogni, la passioni del prossimo, e di stimarle, analizzarle, classificarle, per trarne un utile, per architettarvi su una speculazione, o semplicemente per impedire che altri faccia altrettanto con noi.

Checché si faccia, a furia di trovarsi viso a viso colla corruzione, o si finisce per esserne nauseati, e allora ci si isola e si è al di fuori di ogni movimento della vita attuale, o si finisce per abituarvisi, e per inerzia, a poco a poco per concessioni, si conchiude con l’essere presi nell’ingranaggio e col cadervici dentro. (…) Senza un ideale, così, che converga ad una meta sublime le aspirazioni dell’umanità, affetti, caratteri, opere, oggi, si guastano e si corrompono; ed avviene come dell’ingegno che certi giovani non sono ancora riusciti a domare ed a costringere in una creazione: lasciato inoperoso, abbandonato a sé, esso trabocca, straripa nella loro vita e nelle loro maniere in ogni sorta di bizzarrie e stranezze (…) Ed ecco: l’entusiasmo, quando non è un puro accesso di curiosità, ridursi a nulla più di una passeggiera sovraeccitazione; gli slanci, gli impeti generosi, forzatamente contenuti, sbollire lentamente in sorde recriminazioni; il genio, troppo tormentato alla ricerca del nuovo e dell’originale, attaccarsi allo stravagante, al grottesco e portare alla perversione del gusto e del sentimento; la virtù, nove volte su dieci, non essere che l’impossibilità di fare il male; i vizi, i vizi stessi, diventare, borghesemente, null’altro che le cattive abitudini di gente impotente e pusillanime».

Per Ragazzoni si è ormai entrati nell’Epoca Meccanica, soprattutto perché

«lo spirito della meccanica sembra aver penetrato l’intimo nostro essere medesimo, e i costumi, le usanze, le maniere, tutti i fenomeni sociali insomma, vanno oggi informandosi al suo carattere ed alle sue leggi. (…) Sempre maggiormente posseduti dal loro Genio della Macchina, i contemporanei par non abbiano altro ideale che quello di ridurre tutte le loro istituzioni ad altrettanti meccanismi. (…) Ridotti in tal guisa a funzioni puramente meccaniche i doveri e gli atti dello Stato, lo Stato stesso non è altro, per i più, se non una gran macchina: per i malcontenti, una macchina a imposte, a coscrizioni, a repressioni; per i felici del mondo, una macchina a salvaguardia della proprietà».

Favorevolmente impressionato dal suo talento, Alfredo Frassati lo assunse a «La Stampa», di cui era divenuto direttore nell’ottobre del 1900. A Torino incominciò una vita da bohemien irrispettoso delle convenzioni sociali e amante delle osterie; ebbe anche una figlia illegittima. Ragazzoni manifestava un grande disprezzo per il porco quattrino e il suo odio per i luoghi comuni e il conformismo. Il nipote Giovanni Ragazzoni ricordava ad esempio che “quando gli dolevano i piedi andava in giro in pantofole e, in pantofole, si recava alle prime teatrali o a tenere conferenze in ambienti come il filologico di Milano”. Tutto ciò non gli impediva di essere anche, quando ne aveva voglia, uomo di mondo, ricercato dalla migliore società per la sua conversazione brillante, la facile parola, e la capacità retorica che ne facevano un conferenziere molto applaudito.

Il suo spirito antiborghese non gli impedì di accettare nel gennaio 1901 la direzione del periodico conservatore e monarchico Gazzetta di Novara. Dalle sue colonne annunciava il nuovo secolo con parole assai poco conservatrici:

«Sulla terra vi sono ancora razze oppresse; v’hanno ancora popoli servi; ancora sventurati che non hanno la certezza del pane quotidiano; ancora coscienze non libere da passioni fanatiche e ancora una densa folla che ha sofferto e che soffre schiacciata dal diritto del più forte. Imperrocché questo è stato il secolo della scienza, è vero, ma tal scienza sovente, esso, l’ha messa al servizio della forza. E’ necessario che il secolo prossimo la scienza sia invece scuola e strumento di giustizia».

In un altro articolo contestava l’ingenuo messianesimo socialista, secondo il quale, con la vittoria dei lavoratori, sarebbero scomparse la miseria e le differenze di classe. Per Ragazzoni la lotta di classe, motore di civiltà, si sarebbe mantenuta anche con il socialismo e la religione socialista, che promette una felicità terrestre, va combattuta in quanto illusione sociale. Dell’avvento del socialismo Ragazzoni temeva (e come dargli torno con il senno di poi?) il possibile avvento di una classe dirigente che non sarebbe riuscita a dominare l’inevitabile disorganizzazione determinata dal trapasso di sistema e avrebbe aperto le porte a un regime dittatoriale. Insomma, Stalin era prevedibile.

L’avventura alla Gazzetta di Novara terminò dopo la pubblicazione dell’articolo Il paese della muffa, spietata critica della vita piccolo-borghese della cittadina, dominata da una

«acqua morta degli uffici, il mondo degli impiegati; tutta la malsana esalazione che vien su da quel sistema di apparecchi amministrativi i quali non sembrano avere altro scopo che quello di tramutare in inchiostro ed in carta, in statistiche, in elenchi e di seppellire in un archivio – di volgere in muffa, in una parola – le forze vive, le belle energie, le grandi funzioni della società».

Costretto dopo un solo mese di direzione a lasciare il giornale novarese, tornò a La Stampa, abbracciando definitivamente la carriera giornalistica. Nel 1904 divenne corrispondente da Parigi e lo sarebbe stato fino al 1918, con la parentesi di un anno a Londra, nel 1911. Verso la fine della guerra tornò in Italia, passando al Resto del Carlino e, infine, nel 1919 al Tempo di Roma. Sempre contestatore delle corrispondenze di routine, scriveva quando una notizia lo interessava. Nemico dell’etica del lavoro, anticipò alcuni temi del movimento del 1977.

Intanto aveva sempre continuato a scrivere le sue poesie, il cui umorismo non è disimpegno, ma critica, talvolta feroce, talvolta raffinata, delle ipocrisie e dei delitti della società in cui viveva. Così la Laude dei pacifici lapponi e dell’olio di merluzzo, apparsa il 25 gennaio 1914 su Numero, la rivista torinese a cui smise di collaborare quando assunse toni nazionalistici e interventisti.

Ben tappati dentro i poveri

ma fidati lor ricoveri,

mentre lento sui tizzoni

cuoce il lor desinaruzzo

i pacifici lapponi

bevon l’olio di merluzzo.

.

Fuori, il vento piglia a schiaffi

quattro o cinque abeti squallidi:

gli orsi bianchi sono pallidi

pel gran freddo e si dan graffi

l’un con l’altro per distrarsi…

Oh! bisogna ricordarsi

che omai nevica da mesi;

fiumi e rivi presi al laccio

dell’inverno son di ghiaccio

(e che ghiaccio! perché il ghiaccio

è assai freddo in quei paesi);

ma che importa lor? ghiottoni

dallo stomaco di struzzo

i pacifici lapponi

bevon l’olio di merluzzo.

.

E son là, raccolti, stretti,

padre, madre, zii, bambini

(battezziamoli lappini

i lapponi pargoletti?),

e poi c’è la nonna, il nonno,

qualche amico dei vicini;

ciascun preso un po’ dal sonno

perché ha l’epa troppo piena

già di grasso di balena;

pure a nuove imbandigioni

ogni dente torna aguzzo,

e i pacifici lapponi

bevon l’olio di merluzzo.

.

Beatissimi! fra poco

tutti quanti russeranno

in catasta a torno al fuoco,

poi doman si leveranno,

torneranno alla stess’opra,

mangeranno e riberranno

il buon olio di cui sopra,

e cosí per tutto l’anno,

sempre….. fin che moriranno.

.

Cosí svolgesi la loro

vita, piana e senza scosse,

senza mai quell’ansia d’oro

che noi muta in pelli-rosse;

senza il fiel, senza la bile

necessari all’uom civile…..

Ho da dirvelo? una smania

prepotente mi dilania,

ed invan da piú stagioni

in me dentro la rintuzzo:…..

vo in Lapponia tra i lapponi

a ber l’olio di merluzzo!

Un’altra sua celebre composizione è Il teorema di Pitagora, con il finale di ogni strofa, la nota enunciazione del teorema, che si oppone, ripetuto e rassicurante, quasi ipnotico, ai mali descritti nei versi precedenti:

I tempi sono trist! Il vecchio mondo s’usa

a trascinarsi il fianco nel giro dei pianeti!

Le balene si fan sempre piú rare, i feti

voglion dar fuoco all’alcool ove la vita han chiusa.

Per consolarti, o povera anima mia, ripeti:

il quadrato costrutto sovra l’ipotenusa

è la somma di quelli fatti sui due cateti.

.

Anima mia, rammenti? dall’ombre d’oggi illusa,

questo non ti riporta al raggio dei dì lieti?

O che non ci fiorivano nel cuor tutti i roseti

al tempo in cui a zuffa coll’algebra confusa,

sui banchi imparavamo, monelli irrequïeti,

che il quadrato costrutto sovra l’ipotenusa

è la somma di quelli fatti sui due cateti?

.

Ora, i tempi a mal volgono. L’un polo l’altro accusa

di accaparrarsi il ghiaccio, e sono ambo inquieti;

l’oche pretendon esser – ahimè! – cigni; i poeti

annegano in tropp’acqua il vino della musa;

le questioni scottanti brucian tutti i tappeti;

ma il quadrato costrutto sovra l’ipotenusa

è la somma di quelli fatti sui due cateti.

.

Il cannone, Tamagno delle battaglie, abusa

della sua voce, e fulmina. – O dunque, dai roveti

ardenti piú non parlano i Jeova ai profeti?

Non tentenna la terra a un guardo di Medusa?

Un mane, techel, phares è a tutte le pareti…

Ma il quadrato costrutto sovra l’ipotenusa

è la somma di quelli fatti sui due cateti.

.

La vita è una prigione in che l’anima hai chiusa,

uomo, ed invano brancoli cercando alle pareti.

Sono di là da quelle i bei fonti segreti

ove tu aneli, e dove la pura gioia è fusa.

Qui, solo hai qualche gocciola di ver per le tue seti.

Il quadrato costrutto sovra l’ipotenusa

è la somma di quelli fatti sui due cateti.

E che dire dell’immaginoso nonsense di Poesia nostalgica delle locomotive che vogliono andare al pascolo, ovverosia la rivelazione delle oscure cause di tanti disastri ferroviari…? E se le locomotive fossimo noi, imbevuti eppure insoddisfatti dello spirito della meccanica?

Dal muro in fondo al prato, in mezzo al fieno

una forma si muove e si distacca,

ed è una vacca

che avanza il muso per guardare il treno,

il diretto che passa all’11 ore;

perché, sappia il lettore

di questa commovente poesia,

in fondo al prato c’è la ferrovia.

.

La vacca guarda: uno dei gran diletti

dei bravi ruminanti,

e possono osservarlo tutti quanti,

è di fermarsi in estasi davanti

ai treni in corsa, specie se diretti.

Ma un po’ per uno: se ci sono vacche

che fan l’occhietto alle locomotive,

anime sensitive,

e non automi o rapide baracche,

ci sono pur delle locomotive,

che guardano le vacche.

.

Le guardano coi grandi occhi di vetro

dei loro due fanali,

ed è con infinita nostalgia

ch’esse si lascian dietro

oltre i fuggenti pali

del telegrafo, a vol, la prateria,

i campi dove ci si può sdraiare

tanto tranquillamente, e contemplare,

lungi obliando le stazioni fosche,

il vol delle farfalle e delle mosche.

«Oh!» sospiran le macchine (e nel mentre,

con il fuoco nel ventre,

tirano via rotando e strepitando)

«quando», ripeton, «quando

potremo essere libere anche noi,

goderci la cuccagna

di vivere in campagna

tra le famiglie placide de’ buoi?

.

Oh! potere campar senza gran stento

di un po’ di fieno e un po’ di sentimento

come certi poeti!

poter far nulla, all’ombra dei querceti;

non piú mangiar carbone e sputar fumo

per l’uso ed il consumo

di gnomi irrequieti

surti dall’umo, e spinti verso l’umo!

Oh gioia, starsi con le ruote all’aria

in grembo all’erbe tenere,

vicino a qualche fonte solitaria

che piglia il fresco sotto il capelvenere!»

.

«Ma quando s’è locomotive occorre,

fatalità! – essere sempre altrove,

sempre lasciarsi imporre

la volontà tiranna degli orarii

ferroviarii,

compreso quando piove

e fanno i peggio tempi de’ lunarii!

bisogna sempre aver la testa a segno,…

anzi ai segnali,

e prendersi l’impegno

d’essere puntuali

perché c’è sempre, in questo od in quel posto,

da non mancare una coincidenza.

Se non si può… pazienza,

ma intanto, avanti avanti ad ogni costo!»

.

E le locomotive vanno vanno

senza riposo; eppure

nelle latebre oscure

de’ lor cilindri a triplice espansione

conservan sempre una speranza ed hanno

sempre un’illusïone.

– che proprio mai debba spuntare il sole

del giorno avventurato

che potran rotolarsi in un bel prato

vigilate da buoni contadini?

e fare capriole

insieme ad una lor giovine prole

di saltellanti LOCOMOTIVINI?…..

La poesia di Ragazzoni era spesso un suo modo di contestare la poesia aulica e, forse, qualunque sacralità della poesia. Per questo piacque poco ai critici seriosi e idealisti, per questo fu anche poeta parodistico, prendendo liberamente spunto dai versi dei grandi del passato per dar loro nuova veste giocosa e provocatoria, manifestazione costante della sua esperienza artistica e vitale. Così ad esempio tradusse I dolori del giovane Werter dal riassunto poetico che ne aveva fatto Thackeray:

Il giovane Werther amava Carlotta

e già della cosa fu grande sussurro.

Sapete in che modo si prese la cotta?

La vide una volta spartir pane e burro.

.

Ma aveva marito Carlotta, ed in fondo

un uomo era Werther dabbene e corretto;

e mai non avrebbe (per quanto c’è al mondo),

voluto a Carlotta mancar di rispetto.

.

Cosí, maledisse la porca sua stella;

strillò che bersaglio di guai era, e centro;

e un giorno si fece saltar le cervella,

con tutte le storie che c’erano dentro.

.

Lo vide Carlotta che caldo era ancora,

si terse una stilla dal bell’occhio azzurro;

e poi, vòlta a casa (da brava signora),

riprese a spalmare sul pane il suo burro.

Regazzoni morì a Torino di cirrosi epatica. il 5 gennaio 1920. Lasciò per volontà che i convenuti al funerale si radunassero in osteria per un pranzo. Nella poesia Il mio funerale aveva pensato a questa epigrafe:

Qui giace ERNESTO RAGAZZONI D’ORTA –

nacque l’otto gennaio mille ed ottocentosettanta»

“D’essere stato vivo non gl’importa”.

Di sé e della sua opera ebbe a scrivere:

«Ognuno lavora come crede. Uno dei lavori più graditi, per me, dei più appassionanti, il lavoro dei lavori, è… non scrivere. Ci passerei tutta la vita. (…) La mia fatica di inveterato non scrittore (…) è di condurre, in pensiero, invisibili penne all’assalto di invisibili fogli di carta alla conquista ideale di volumi e volumi che non saranno mai, altro che nella mia mente (…). Mi sono composto, così, dentro, un’intera biblioteca, tutta opera mia, e di cui io solo ho la chiave. (…) La mia teoria (…) è che le idee son fatte per rimanere idee. Sono cose di lusso o pericolose che a portarle sul mercato ci perdono o creano guai. Quante idee – diventate fisse – hanno condotto al manicomio, quante hanno trascinato gente a massacrarsi. (…) È grazie a questi sodi principii che di continuo riesco a regalarmi alla fantasia invisibili pagine meravigliose che scritte sarebbero sciupate».

Ha sostenuto Sebastiano Vassalli nella prefazione all’antologia di poesie e prose Buchi nella sabbia e pagine invisibili, pubblicata da Einaudi nel 2000: “La poesia di Ragazzoni si realizzò in gran parte fuori dal testo, nella vita del suo autore; come è accaduto per altri poeti della dissipazione di sé, la sua fama è arrivata fino a noi, nonostante la critica e quasi in assenza della critica, esclusivamente grazie ai lettori”.

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