LE TANTE MANOVRE DIETRO LA MANOVRA

Quando prevale il calcolo politico

Rumor Ex Mundis
15 min readOct 14, 2018

In questi giorni autunnali inizia il lungo percorso istituzionale della manovra 2019, con la nota di aggiornamento al Def che è stata approvata alle camere. In seguito, il documento programmatico di bilancio, che entra più nello specifico riguardo alle misure, dovrà essere inviato a Bruxelles a metà ottobre. A questo punto comincia un dialogo con l’Unione Europea riguardo i contenuti della manovra, con un primo parere che dovrebbe arrivare a fine novembre. La legge di bilancio intanto verrà presentata in parlamento verso il 20 ottobre per cominciare il lungo cammino che porterà alla sua convalida entro la fine dell’anno.

Questo percorso istituzionale non è certo iniziato nel migliore dei modi e purtroppo assistiamo quotidianamente a dichiarazioni e controdichiarazioni le quali ci consegnano un clima avvelenato e a dir poco isterico. La manovra è il primo banco di prova per la tenuta e la credibilità di questo governo e le azioni dei vari attori non sempre sono motivate da logiche puramente economiche, al contrario la politica, o meglio il calcolo elettorale, ha preso decisamente il sopravvento su ogni differente considerazione.

Lo spettro dello spread

Lo spread, quel che sarebbe un differenziale di rendimento tra i nostri titoli di stato e i titoli degli impeccabili tedeschi, possiede la capacità di toglier il sonno a molti italiani e agitare in loro lo spettro di quel che successe nel 2011. L’incremento dello spread btp-bund, che è tornato sui livelli di 4 anni fa, ha avuto nefasti effetti sull’andamento dei titoli bancari, molto esposti sui titoli di stato (che comunque son sempre stati considerati redditizi investimenti a basso rischio). Le banche hanno dunque trascinato a fondo Piazza Affari in varie sedute, bruciando molti miliardi di capitalizzazioni. I danni provocati dall’aumento dello spread sono ormai noti ai più: aumentano i costi per gli interessi necessari a finanziare il nostro debito per lo stato e peggiora il bilancio delle banche, che potrebbero girare i costi aggiuntivi sui tassi variabili dei mutui.

Lo spread rappresenta dunque il principale indicatore di fiducia dei mercati verso i nostri conti pubblici e negli ultimi tempi è stato molto recettivo verso una serie di fatti portati avanti dal governo, i quali possono essere legittimamente definite imprudenze. Il maggiore fattore di rischio percepito nei mercati finanziari è il sospetto o il timore (preoccupazioni che i membri del governo Conte non sono mai riuscito ad allontanare del tutto) che, attraverso un deficit eccessivo, la coalizione di governo si mette nella direzione di uno scontro con Bruxelles con il fine ultimo di uscire dall’Unione e dall’euro. Non si può negare che in una simile visione vi è un generale pregiudizio verso la linea politica dell’attuale compagine governativa, ma è altrettanto innegabile che le attuali forze di governo hanno in passato ventilato e auspicato più volte l’uscita dalla moneta unica, sebbene abbiano smentito tali propositi in campagna elettorale.

Un altro tipo di spread

La valutazione dei rischi connessi al nostro debito non si esprime unicamente nel differenziale tra titoli di stato ma dispone di un altro importante strumento finanziario utile a comprendere quale siano le preoccupazioni dei mercati: i credit default swamps sovrani (sovereign cds). Questa tipologia di derivati creditizi, negoziati nei mercati OTC (over-the-courter) sono sostanzialmente delle polizze assicurative contro il rischio di vedersi sfumare il valore dei propri investimenti in seguito a un default.

Questo tipo di contratti dovrebbe quindi servire a tutelare chi possiede bond governativi, come avviene per molti altri tipi di assicurazioni, ma la finanza permette operazioni che nella vita reale apparirebbero a dir poco bizzarre, del resto chi mai pagherebbe un’assicurazione senza avere una macchina? Il motivo per cui i cds vengono contestati è il loro uso speculativo: un operatore è in grado di comprare cds per il solo fine di “scommettere” sull’aumento del rischio e quindi avere maggiori ritorni, un po’ come scommettere che l’auto del vicino venga rubata; una pratica sulla cui correttezza si potrebbe discutere molto e su cui sono stati fatti svariati studi anche in merito al loro ruolo nell’ultima crisi finanziaria.

Oltre ai cds che coprono il rischio di insolvenza dei paesi, sono stati introdotti nel 2014 dei cds che coprono il rischio di ridenominazione del debito per i paesi membri dell’Unione Europea. Una possibile uscita dalla moneta unica e la consistente svalutazione che ne conseguirebbe, rappresentano un motivo di preoccupazione per i detentori di titoli di stato italiani, ben maggiori delle preoccupazioni per il fallimento del nostro stato. E’ dunque la differenza tra il valore dei cds per insolvenza (cds idsa 2003) e per insolvenza (cds isda 2014) un tipo di spread molto importante in quanto l’ampiamento del divario tra cds significa che il rischio ridenominazione, ovvero l’Italexit, è percepito molto forte sui mercati.

Il fattore cruciale di questo clima di sfiducia rimane quindi politico, dove permane una sostanziale diffidenza verso l’attuale governo, che viene alimentata dalla reputazione della galassia di economisti che ruotano attorno alla Lega, come per esempio Borghi e i suoi piani d’uscita dall’euro, attraverso i minibot. L’andamento storico dei cds è coerente con gli sviluppi politici degli ultimi mesi: il valore massimo fu toccato il 30 maggio (quando il rifiuto di Savona scatenò una crisi istituzionale) mentre il minimo fu raggiunto il 24 aprile quando il M5S aveva chiuso le trattative con la Lega e iniziato il tentativo di dialogo con il PD. Nel complesso l’aumento dello spread tra i cds conferma la percezione dei mercati verso il rischio di un Italexit, per quanto ci possa sembrare implausibile, che contribuisce a tenere alto il differenziale dei btp italiani.

La resa di Tria

In aggiunta a questo maggiore elemento, non si può non tenere in considerazione l’incredibile pressione politica subita dal ministro Tria, il quale ha tentato di difendere in ogni modo l’obiettivo di deficit del 1.6% dagli attacchi congiunti di Lega e 5 Stelle.

Il ministro ha infine ha alzato bandiera bianca e si è rassegnato a inserire nel Def ben 0.8 punti percentuali in più a quanto aveva previsto e aveva assicurato a Europa e mercati, probabilmente riuscendo comunque a contenere le pretese penta-leghiste e rinunciando a presentare le proprie dimissioni (dando prova di grande responsabilità). Tria puntava a rimanere nel solco tracciato dai precedenti governi e dagli accordi con l’Unione Europea sulla riduzione del deficit.

Infatti, è vero che i precedenti governi hanno avuto percentuali di deficit ben maggiori, ma il trend generale degli ultimi anni andava in una traiettoria discendente. Questo 2.4% diventa preoccupante perché inverte tale tendenza, il che spiega il perché Tria difendeva l’1.6% che si inseriva in questo trend discendente, pur raddoppiando le risorse rispetto alle previsioni del precedente governo.

Al di là della questione sul numero in sé, ciò che ha indotto la salita dello spread è stato il repentino cambio di programma: molti attori finanziari si stavano infatti muovendo nell’ottica della stima iniziale di Tria e una simile variazione ha causato nell’immediato problemi per tutti coloro che si erano fidati delle parole del ministro dell’economia.

Inoltre, vi è un discorso di credibilità del responsabile delle finanze: l’interferenza diretta dei capi politici con il lavoro di Tria ha screditato molto il ministro, la cui posizione è apparsa subalterna, deludendo in parte le aspettative per quello che doveva essere il suo ruolo, ovvero il guardiano dei conti dello stato. Ovviamente, Tria ha dovuto suo malgrado mobilitarsi subito per difendere la bontà della manovra e per allontanare ogni dubbio sulla coesione del governo.

Una lunga serie di bocciature

La manovra aggiornata vale dunque circa 37 miliardi, dei quali 22 dovrebbero provenire da maggior deficit mentre altri 15 dovrebbero essere recuperati da maggiori entrate (8,1 miliardi) e tagli (6,9 miliardi), cifre decisamente ambiziose. Il ministro dell’Economia ha spiegato alle camere che le politiche espansive del governo dovrebbero impattare sulla crescita con una variazione dello 0,6 che andrebbe a sostenere una crescita prevista dello 0,9 per un totale del 1,5% del PIL. Lo 0,6% di incremento del PIL, ha spiegato il ministro in audizione, arriverà dai 12,5 miliardi del blocco dell’IVA (+0,2), dai 16 miliardi del reddito di cittadinanza della quota 100 (+0,3 Pil), dai 600 milioni dell’introduzione della flat tax (+0,1 Pil), da 3,5 miliardi di investimenti (+0,2 Pil), da circa 1,8 miliardi di incentivi e pubblica amministrazione (+0,1% Pil) e da 2,3 miliardi rappresentati da spese indifferibili (+0,1). I 15 miliardi di coperture riducono invece il pil di 0,4 punti.

Purtroppo per il ministro questi numeri non hanno trovato molto consenso: i tecnici dell’Ufficio parlamentare di bilancio, Corte dei Conti e Bankitalia hanno bollato queste stime come irrealistiche e eccessivamente ottimistiche. Simili critiche erano già giunte dall’estero: a Bruxelles la commissione attraverso la voce di Moscovici, Juncker e altri funzionari mandano da tempo moniti e avvertimenti, che lasciano presagire una possibile bocciatura e conseguente procedura d’infrazione; la BCE ha ricordato l’importanza della riduzione del debito e anche il Fondo Monetario Internazionale si è detto rammaricato per l’indifferenza di Roma verso i suoi consigli sulle politiche economiche. Dulcis in fundo, l’agenzia di rating Fitch ha evidenziato “rischi considerevoli per i target della manovra di bilancio, specie dopo il 2019”, affermazione che induce a pensare che, a fine mese, il declassamento del nostro rating sovrano da parte delle altre maggiori agenzie, Moody’s e S&P, sia inevitabile.

Questo conflitto verbale nel quale si sono alternate risposte ora provocatorie ora rassicuranti, ha visto il governo rimanere comunque compatto sull’idea che il debito pubblico sarà comunque ridotto grazie a una crescita maggiore, senza tuttavia riuscire a dissipare le incertezze e quel che da fuori viene visto come un progetto altamente confusionario, nonostante il premier Conte si dica fiducioso che, una volta vista i dettagli della legge di bilancio, sia l’Europa che i mercati si convinceranno della sua bontà.

In generale, la manovra convince poco sulla sua capacità di spingere la crescita della nostra economia, in quanto la critica più diffusa è lo scarso peso degli investimenti relativamente alla spesa corrente che viene invece molto aumentata attraverso misure onerose. Simili dubbi non sono stati dissipati dall’enfasi con cui il premier Conte ha presentato una cabina di regia per decidere gli investimenti e il coinvolgimento delle partecipate per attrarre ulteriori investimenti. Le forze d’opposizione nutrono un generale scetticismo verso la capacità del reddito di cittadinanza di incentivare il lavoro e anche verso il suo impatto nello stimolare la domanda interna, la cui mancanza è stata effettivamente una delle cause della bassa crescita del nostro paese negli ultimi anni.

Unica importante voce fuori dal coro è quella del fondo di risparmio gestito della JP Morgan che, in una intervista al Sole 24 Ore, ha espresso la sua fiducia nei fondamentali della nostra economia. I rischi connessi all’incertezza politica italiana sono ben remunerati nei titoli di stato, secondo JP Morgan, e questo porta a vedere i Btp come investimenti interessanti mentre non è temuto il ritorno di maggiore volatilità, anzi viene intesa come opportunità di profitto.

Le preoccupazioni del Colle

Dall’inizio del governo Conte, il Presidente Mattarella ha assunto il ruolo di garante della lealtà italiana verso l’Euro, tutti i trattati internazionali e anche della stabilità del bilancio dello stato, dal momento che il pareggio di bilancio è stato inserito nella costituzione. Non ci vuole certo un mago per capire l’apprensione con cui il Presidente osserva una giovane coppia di sboccati leader politici, inclini alla polemica e poco propensi al galateo istituzionale.

Mattarella è però preoccupato soprattutto per la sostanza, non solo per la forma, avendo recepito i molti avvertimento degli organi tecnici e temendo lo scoppio di una crisi con Bruxelles, capace di far impennare lo spread. La necessità di tenere sotto controllo il differenziale btp-bund, anche evitando di esasperare i toni, ha portato Mattarella a incontrare Mario Draghi, anche per capire in quale modo la BCE potrà sostenere l’Italia anche in seguito alla fine del Quantitative Easing.

A questo proposito, pare che la BCE punti comunque a cercare di iniettare liquidità attraverso l’emulazione delle “Operation Twist” della FED, attuate in America nel 1961 e nel 2011. Attraverso questo tipo di operazioni si protegge il costo del debito, vendendo titoli a breve termini per acquistare titoli a lungo termine.

Il partito dei responsabili

All’interno della compagine governativa vi sono fondamentalmente due diversi approcci politici che si distinguono per le modalità con cui attuare la manovra. I cosiddetti “responsabili” vorrebbero optare per una linea più dialogante con l’Europa, comprendono bene gli inviti del Presidente Mattarella a moderare i toni e sono consapevoli della importanza della stabilità finanziaria per il nostro paese.

Questi uomini moderati sono rappresentati dal Premier Conte, dai sottosegretari Giorgetti e Buffagni, dal presidente della Camera Fico, ovviamente da Tria e anche da Savona, il quale ha recentemente affermato che in caso di aumento incontrollato dello spread la manovra cambierebbe, seppur sia stato dipinto come un acerrimo nemico dell’unione monetaria. Queste personalità si sono mostrate più disposte a possibili correzioni e frenate, come appaiono essere l’idea di far cominciare le misure più onerose in primavera, possibili clausole che rendano automatici tagli alla spesa in caso di un mancato conseguimento degli obiettivi di crescita e il ripensamento che ha abbassato il deficit programmato per 2020 e 2021 rispetto ai piani originari.

Dall’altra parte è chiaro che quella parte del governo più avvezza alla politica che all’economia rivendichi con maggior enfasi le misure contenute nella legge di bilancio, rispondendo con durezza alle parole provenienti da Bruxelles e dimostrando poca apprensione nei riguardi di ciò che avviene sui mercati finanziari. Appare evidente che l’attenzione di quest’ultimi si concentri principalmente su ciò che avverrà nel maggio dell’anno prossimo.

Assalto a Bruxelles

Il pressing su Tria da parte di Di Maio e Salvini è stato motivato da una volontà politica, volta a monetizzare il maggior numero possibile di consensi entro la primavera di modo da avere lo sprint elettorale necessario a dare la spallata definitiva all’Europa in favore dei sovranisti (per quel che riguarda la Lega) e di ancora non chiare forze alternative (per i 5 stelle). La competizione interna tra le due forze politiche spinge i due leader a alzare l’asticella delle richieste, con il grande timore del M5S di perdere terreno rispetto alla Lega. Il calcolo elettorale si è drammaticamente imposto sulla prudenza del ministro Tria.

L’intento politico diventa perciò apertamente provocatorio ed è condotto principalmente da Salvini e il suo nascituro fronte sovranista, trascinando dietro anche Di Maio, il quale deve ancora annunciare una strategia politiche per le Europee, ma che comunque non può sottrarsi allo scontro con Bruxelles.

Non è casuale la continua delegittimazione dell’attuale commissione che, a detta dei due vicepremier, ha i “mesi contati”, che dal punto di vista della comunicazione politica è senza dubbio vincente, attraverso la narrativa del nemico esterno contro cui scagliarsi.

Il dilemma della commissione

E’ innegabile che le prossime elezione europee siano decisive per il futuro assetto dell’Unione Europea ed altrettanto innegabile che una delle due colonne dell’attuale commissione, il Partito Socialista Europeo, sia destinato a un drastico ridimensionamento se non all’estinzione. E’ molto prevedibile che anche i loro alleati del Partito Popolare Europeo dovranno fare i conti con una riduzione di consenso, seppur più limitata. All’ascesa delle cosiddette forze populiste ormai manca solo l’appuntamento europeo (per ironia della storia proprio quello che nel 2014 aveva consacrato Matteo Renzi) e quasi sicuramente il loro impatto cambierà profondamente gli attuali equilibri: questi partiti hanno visto crescere considerevolmente i loro voti nelle varie elezioni dei paesi membri e il loro impatto sarà amplificato dal sistema proporzionale.

La commissione si trova dunque nella scomoda posizione di decidere tra l’applicare rigidamente le regole europee e consegnare ai leader populisti un ulteriore vantaggio politico nell’imminente campagna elettorale, vantaggio che si somma a uno scenario già favorevole per se, oppure cercare di contenere l’avanzata dei fronti euroscettici non offrendo il fianco a pesanti affondi politici, chiudendo più di un occhio sulla manovra italiana e evitando lo scontro istituzionale.

Dalla prospettiva di Bruxelles questo dilemma appare come drammaticamente insolvibile, in quanto è estremamente difficile capire quale sia la decisione migliore. Da una parte la commissione vorrebbe evitare lo scontro con Roma per ragioni politiche, le quali potrebbero però creare un precedente con altri paesi membri incentivati a non rispettare le regole europee, oltre alla conseguente instabilità finanziaria che si staglierebbe, dall’altra parte i vertici di Bruxelles sono consapevoli che una bocciatura e una successiva procedura d’infrazione avrebbero un’efficacia limitata, in quanto i tempi di tali procedure istituzionali sono abbastanza lunghi.

Le mani sulla BCE

Le prossime elezioni europee sono d’importanza cruciale per la direzione che prenderà il progetto europeo nel quinquennio seguente, contraddistinto com’è da sempre da quell’intreccio tra politica ed economia che governa le scelte della commissione. Infatti, non solo i leader di Lega e M5S confidano molto in questo appuntamento elettorale, ma anche l’ombra sempre presente in questo governo, che tanto ha fatto discutere, ovvero l’attuale ministro per gli affari europei Paolo Savona, a cui molti attribuiscono la paternità spirituale della manovra, che sta iniziando a tessere la sua strategia per riformare l’unione monetaria.

Il celebre piano B di Savona è stato uno dei fattori che gli han fatto acquisire abbastanza ingiustamente la cattiva reputazione di antieuropeista, nonostante nei suoi intenti il piano b fosse solo uno strumento di pressione per aumento la capacità negoziale nei confronti dei partner europei (soprattutto Tedeschi) per riformare il modo in cui la BCE conduce la politica monetaria. Ad oggi il bluff che voleva architettare Savona è stato completamente smascherato e non è più credibile ma i cambiamenti politici potrebbero apportare vantaggi ben maggiori.

Savona auspica la fine della alleanza tra popolari e socialisti e uno spostamento della politica europea più a destra. All’interno di questo nuovo contesto, sarebbe più facile cercare di contrattare sul punto fondamentale della sua visione dell’Europa: rendere la BCE il garante dei debiti sovrani dei vari paesi. In questo modo il problema degli spread sarebbe molto più contenuto, mentre attualmente amplifica le differenze tra gli stati e pone serie minacce all’unione monetaria. A detta di Savona, è insensato che i paesi dell’eurozona condividano la stessa moneta ma i tassi dei debiti siano così distanti fra loro, per il ministro le condizioni dell’unione monetaria devono essere uguali per tutti anche se ciò comporta un costo.

Nonostante la garanzia ultima della BCE implichi comunque un’esposizione della Germania e degli stati fiscalmente più solidi, grazie a minori costi di finanziamento del debito per gli stati, questa copertura sarebbe solo formale e probabilmente non si concretizzerebbe mai, anzi gli stati indebitati potrebbero mettere in ordine i propri conti molto più velocemente. Per i tedeschi questo potrebbe essere un argomento allettante, anche vista l’attuale avversione a trasferire ulteriori poteri a Bruxelles che, politicamente parlando, sarebbe molto sentita alla destra moderata e sovranista che ambisce a governare l’Europa. I tedeschi dovranno pagare un costo in termini di aumento dello spread, rinunciando ai loro tassi prossimi allo zero (se non negativi), ma in cambio non dovranno più far fronte a tutte le pressioni dei partner europei per politiche fiscali espansive per aiutare le economie in difficoltà. Inoltre, la Germania potrà contare sull’aiuto dell’Italia per impedire il progetto di integrazione fiscale e unione bancaria a cui ambisce la Francia di Macron. In questo senso, l’opposizione delle forze euroscettiche alla maggiore condivisione di rischi sovrani e bancari è musica per le orecchie germaniche, la cui posizione storica di creditori li induce alla prudenza.

In conclusione, quella del deficit al 2.4% è ben poca cosa rispetto a quello che c’è in gioco con le elezioni europee. Paradossalmente, ma non troppo, il fronte sovranista che viene percepito come una minaccia al progetto europeo, potrebbe far confluire tutta una serie di interessi nazionali verso significativi cambiamenti, mettendo in pausa gli auspici progressisti degli europeisti più convinti, rappresentati dal presidente francese Emmanuel Macron. La realtà di fondo è che in tutta Europa esistono fondate perplessità sull’attuale architettura europea e la direzione verso cui l’ascesa dei sovranisti potrebbe spingere sembra essere molto condivisa nei vari stati membri.

Una fase storica

Le tante manovre che influenzano il percorso della legge di bilancio 2019, nascono dalle considerazioni politiche sulla particolare fase storica che stiamo vivendo. Sembra essere veramente impossibile per la politica governare senza mantenere un occhio sui sondaggi, impiegare tatticismi e cedere a facile propaganda.

L’orizzonte limitato dei nostri politicanti si allontana molto dall’ideale di “buon governo” che ancora ammiriamo negli affreschi del Lorenzetti nel Palzzo Pubblico di Siena. Tale approccio politico è sicuramente emblematico del declino della classe politica di questo paese, abbastanza evidente in molti aspetti, e si è insinuato indissolubilmente nella logica del ragionamento politico attuale. La capacità di avere un orizzonte più ampio e di assumersi forti responsabilità sono lontani ideali, i quali non possono più appartenere all’ipervelocità della società contemporanea.

Senza dubbio la fase di transizione storica a cui stiamo assistendo avrà una fine e una sua stabilizzazione, sebbene non ci è dato sapere se ciò accadrà con le elezioni europee della prossima primavera, è innegabile che potremo capire molte più cose dopo il voto di milioni di cittadini europei.

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