La sagoma di Trump

Stefano Pace
5 min readJul 19, 2016

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Trump sale sul palco della convention

Una silhouette in controluce, mentre in sottofondo si sente “We Are the Champions” dei Queen. L’entrata di Trump alla convention ha sorpreso vari osservatori, anche se la campagna di Trump ha ormai abituato a scelte imprevedibili. Nel rito delle convention, il candidato che deve essere formalmente nominato come contendente per le elezioni di novembre normalmente non compare nei primi giorni della convention, bensì solo alla fine per il discorso di accettazione.

L’entrata di Trump

Più che la presenza di Trump sul palco, è stato lo stile di entrata a incuriosire. Un’apparizione che adotta una retorica eroica abbastanza usata in altri contesti, dal rock allo sport. La sagoma scura su sfondo chiaro, il senso di sospensione e poi la rivelazione della star: fasi tipiche di un eroismo un po’ stereotipato. Musicalmente, “We Are the Champions” dei Queen è scelta piuttosto trita. Una novità (per gli americani) sarebbe stata magari l’adozione del geyser sound dei tifosi di calcio islandesi, risuonato nel campionato europeo in Francia.

L’entrata di un wrestler

Qualcuno compara l’entrata di Trump a quelle dei lottatori di wrestling, come fa Jeff Stein su Vox: “Trump still managed to seize the spotlight with a WWE-style entrance”. Il riferimento non è banale. Roland Barthes, nel suo Mythologies, esaminò la lotta come teatro enfatizzato del contrasto fra bene e male, con i suoi purissimi eroi e i suoi cattivissimi malvagi. Parte della comunicazione politica — soprattutto durante gli eventi mediatici come una convention — adotta le semplificazioni esagerate. Semplificazione: io sono buono, l’altro è cattivo. Esagerazione: io sono assolutamente buono, l’altro è assolutamente cattivo.

Nell’entrata di Trump non è espresso direttamente il bene contro il male, ma il richiamo stilistico è comunque a un mondo semplice, binario, bianco e nero. Un mondo che parte dell’elettorato di Trump spera torni alla base, quando l’America era di qui — forte e autonoma rispetto alle bizze globali— e il resto del mondo da un’altra parte. La sagoma scura che si staglia sicura con contrasto netto sul bianco dello sfondo. Nessun tentennamento è ammesso. Una semplicità illusoria, in un mondo che ha più linee di collegamento che cerchi di contenimento, e proprio per questo affermata con chiarezza didascalica.

Il corpo

Forse quella sagoma ci dice altro. Tutta la campagna di Trump ha adottato un approccio corporeo e i discorsi sul corpo hanno accompagnato le varie fasi della competizione in atto. Una delle espressioni più evidenti della corporeità è nel quadro di Ilma Gore, che dipinge un Trump nudo e imbolsito, per criticarne la politica. Un quadro che è stato proposto in vendita alla notevole cifra di $1.44 milioni, a dimostrazione del fatto che tocca un nervo presente in questa fase della politica americana.

Il low five di Trump e Jeb Bush

Un altro esempio di come il corpo sia usato e citato è nel low-five che Trump e Jeb Bush si scambiano durante uno dei dibattiti delle primarie. Un sonoro clap che Trump propone al suo avversario Bush e che Bush accetta per un momento di ilarità da pacche sulle spalle e piccole gomitate fra vecchi amici.

Dal clima sorridente e smanacciante si passa invece a un corpo che diventa oggetto di offesa se riguarda le donne. È il Trump che — con una mossa che ci fa piombare in stereotipi antichi e purtroppo mai completamente superati — offende Carly Fiorina per… il suo viso: “Look at that face! Would anyone vote for that? Can you imagine that, the face of our next president?!”.

Fiorina e Trump

Ad aggiungere corporeità mal pensata sono anche le scuse di Trump dopo le frasi rivolte a Fiorina. In un dibattito, Trump prova a fare ammenda, usando l’espressione “She’s got a beautiful face”. Probabilmente il got non è da intendere come “ha ottenuto”; è piuttosto un’espressione rafforzativa di “ha un bel viso”. In ogni caso, si rimane dentro un discorso basato sull’apparenza, sull’aspetto esteriore. Un complimento che rimane superficiale per scusarsi di un’offesa non epidermica.

Il corpo dei candidati politici è normalmente oggetto di dibattito. Quest’anno, anche il Washington Post si è lanciato nel misurare le altezze dei vari candidati. La statura fisica come metro di misura della statura politica è metafora, ma anche uno dei mille segnali deboli che i media e la società provano ad elaborare per valutare qualcosa di complesso come un candidato o una piattaforma politica. L’immediatezza dell’apparenza corporea come segnale (spesso starato o ingannevole) di proprietà personali.

I capelli di Trump [Fonte]I

In questa corporeità, la capigliatura di Trump è naturalmente al centro. I capelli del candidato repubblicano sono stati analizzati, discussi e messi al centro di mille ironie. Un’operazione fra il serio e il faceto, fra il politologico e il tricologico.

La sagoma

Tutto questo corpo (mostrato, coperto, citato, esaltato, offeso, malinteso, blandito, usato) finisce in un’assenza di corpo, nella sagoma di Trump.

All’improvviso, Trump non c’è. Il suo corpo appare dopo qualche secondo in cui è solo una sagoma, il disegno stilizzato dei confini del corpo. In quella frazione di tempo è riassunta la storia politica di Trump. Una figura all’inizio indistinta che entra sul palco con passo sornione e poi ottiene le mille luci della ribalta.

Nella sagoma senza tratti ognuno vede ciò che vuole. Forse è la comunicazione che si limita a dettare toni ed emozioni e lascia agli altri proiettare significati e discuterli. Dentro quella sagoma muta c’è chi proietta la star del destino che salva l’America e chi un oscuro politicante, chi spera nella semplicità del bianco e nero e chi teme le banalizzazioni della complessità. Co-creazione di significato fra chi comunica (adottando una retorica dalla presa facile e accessibile) e chi elabora?

La comunicazione per assenza ha un suo potere perché proiettiamo prima le nostre paure rispetto ai nostri pensieri. La pancia del corpo reagisce velocemente e la testa segue razionalizzando. La comunicazione per assenza può avere una sua efficacia perché si affida alla negazione, pronta a infilarsi nei mille incroci delle elaborazioni possibili: “l’avete detto voi, non io”, “non mettetemi parole in bocca”, “vedete ombre dove non c’è nulla”. Il dibattito diventa scambio da talk show, in cui tutto è spalmato in modo omogeneo.

Alla fine, ciò che accade su un palco a Cleveland e sulla soglia di casa nostra siamo noi a deciderlo, in carne e ossa, pancia e testa.

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Stefano Pace

Kedge Business School (assoc. prof.) | Bocconi University (adj. pr.) | Mktg/Consumer Culture | All views are my own | RT≠endorsement