Pony Island — In America lo sai che i pony vengon fuori dalla doccia?

The Shelter
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4 min readJan 14, 2016

Articolo a cura di Mauro Ferrante

Esattamente come per il Fight Club, anche la prima regola di Pony Island è che non si parla di Pony Island. Perché parlarne vuol dire incorrere nel rischio di pesanti spoiler solo descrivendo la schermata dei menu. Un bel problema per chi si trova a scrivere una recensione. Cercando di non rivelare troppo, cerchiamo di capire perché un gioco con un simpatico Pony come protagonista sarà probabilmente, segnatevi queste parole, uno dei giochi più chiacchierati del 2016.

Questo screen vi sembra strano? Oh, non avete visto niente ancora. NIENTE.

Sapete cosa è un creepypasta? Il creepypasta è un’evoluzione delle vecchie leggende metropolitane, quelle tramandate oralmente per cui le fogne di New York erano infestate da centinaia di coccodrilli. Miti urbani la cui genesi sconosciuta era parte fondamentale del loro fascino peculiare. Con l’avvento del web questo tipo di storie si sono trasformate trovando in blog, siti dedicati e intere false Wikipedia un terreno fertile per proliferare. Complice l’aura di mistero che si nasconde dietro l’anonimo schermo di un monitor sono nati veri e propri fenomeni il cui trucco non sta tanto nella veridicità o meno dei presunti fatti, quanto nel saper sfruttare le più recenti tecnologie per creare la giusta aura di mistero.

I videogiochi sono ovviamente diventati materiale utilizzabile in questo tipo di racconti. Se i Pokémon contano varie pagine dedicate a miti e leggende, non mancano altre opere con protagonisti giochi senzienti e console indemoniate. Il più famoso resta forse il caso di Majora’s Mask che a causa della sua già ben riuscita atmosfera disturbante ha dato vita al famoso Ben Drowned. Un’altra storia decisamente ben riuscita, anche se forse meno conosciuta, è quella riguarda una cartuccia di Godzilla per NES posseduta da un entità demonica. È proprio questa novella del terrore 2.0 che sembra avere più di qualche affinità con il titolo di Daniel Mullins.

Niente vi dico. NIENTE! NI-E-N-TE!

Pony Island può essere descritto come il “tie-in di un creepypasta”. La sua natura meta-testuale di gioco nel gioco appare chiara fin dai primi secondi. Il vero Pony Island del titolo altro non è che uno spartano endless-runner posseduto da un’entità maligna. Sta a noi cercare di capire cosa sta succedendo attraverso una serie di situazioni che chiamano in causa attivamente la maggior parte di elementi extra-ludici. Dalla poco collaborativa schermata delle opzioni ad una serie di puzzle che vanno ad ambientarsi nel codice di gioco stesso.

La riuscita idea dietro Pony Island, al pari del tentativo di Frog Fractions di giocare con la struttura ludica, è di aumentare sempre di più il coinvolgimento del giocatore che, come in The Beginner’s Guide, qui è chiamato solo ed esclusivamente a indossare i panni di se stesso, cercando di destabilizzare sempre di più la distanza tra finzione e realtà.

Ci riesce usando strumenti sempre più esterni al gioco stesso per come siamo abituati a concepirlo, o detto in altro modo, ci permette di giocare con tutta quella serie di entità collaterali che siamo abituati a pensare “esterne” al gameplay. Come se qualsiasi gioco vedesse già due mondi separati, quello più vicino alla realtà delle opzioni e dei menu, e quello più etereo che si dispiega dopo aver premuto il tasto Start. Due mondi che in Pony Island dialogano costantemente attraverso una serie di brillanti escamotage.

Questo è l’aspetto del “vero” Pony Island. Forse, più o meno, diciamYES MASTER.

Pony Island rientra in quella particola fascia di videogiochi che si occupano di giocare con se stessi, anzi con il mezzo stesso, in una messa in scena genuinamente auto-riflessiva. Insieme ai già citati The Stanley Parable, The Beginner’s Guide e Frog Fractions, rappresenta a tutti gli effetti quella che potremmo definire la pubertà del videogioco. Un mezzo infantile ormai divenuto adolescente che scopre finalmente il proprio corpo, che si specchia osservandosi forse per la prima volta con autocritica e che si esplora metabolizzando quelle funzioni che gli appartengono ma su cui non aveva mai posto realmente attenzione. Pony Island lo fa mettendo in scena un creepypasta in cui siamo noi i veri/falsi testimoni e che grazie a un’atmosfera inquietante (ma filtrata da una buona dose di autoironia) è capace di attraversare con raffinata intelligenza questa fase problematica con cui ogni medium, prima o poi, deve confrontarsi.

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