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Quando dici a qualcuno “Mi hai salvato la vita”.

6 min readJun 13, 2017

Molto tempo fa ho scritto un ricordo che mi sembrava bello e che aveva a che fare con la musica e con la mia memoria, ma poi, come al solito, mi sembrava di non avere tanti motivi per pubblicarlo, era una cosa mia, forse non tanto condivisibile, anche un po’ pesante, e quindi tutto sommato ho concluso che me lo sarei tenuto per me.

Il motivo che però me l’ha fatto tornare in mente, quel ricordo, me l’ha dato l’incontro di Futura, la newsletter del Corriere della Sera, che si è tenuto questo giovedì a Milano. Erano presenti i curatori della newsletter, Serena Danna e Davide Casati, la scrittrice Violetta Bellocchio e Ghemon, un cantante rap che non avevo mai sentito prima, cosa non strana visto che non so niente di musica rap.

L’incontro era incentrato su identità e autofiction — dove autofiction è diventata all’improvviso la mia parola preferita — ; si discuteva di come e quanto il processo di elaborazione della nostra esperienza personale attraverso la scrittura possa diventare la nostra vita e a volte la nostra professione: in poche parole la nostra identità.

Ad un certo punto, Ghemon è intervenuto riguardo il suo rapporto con i social, parlando di quanto fosse complicato, per lui, avere a che fare con chi ascolta le sue canzoni, persone distanti con cui vorresti avere anche un rapporto ma che, in fin dei conti, non sanno molto di te e tu sai poco di loro. Ha raccontato di come lo abbia colpito il messaggio di un suo fan che gli ha scritto “Mi hai salvato la vita”.

In quel momento non ci ho fatto caso, solo dopo mi sono ricordata di questa cosa qui, di questa nota in cui parlavo di quando ho incontrato Banana Yoshimoto.

Quando a salvarsi è Banana Yoshimoto.

Molti anni fa ho incontrato Banana Yoshimoto. A suo tempo era l’unica cosa del Giappone che conoscessi, a parte un manga che si chiama Video Girl Ai che infiammava di tenerezza esotica i pomeriggi della mia pre adolescenza. Quando l’ho incontrata, leggevo i suoi libri da poco, ma ne traevo sempre una sensazione di leggerezza e di bellezza. Nei suoi libri si parlava di morte e di fantasmi, ma il risultato era comunque che mi sentivo sollevata (anche quando sentivo suonare da qualche parte un campanellino e pensavo subito al fidanzato morto di Kitchen. Ma chi non l’ha fatto?).

Quando mi presentai alla Feltrinelli in Piazza dei Martiri, a Napoli, per vederla e per farmi firmare una copia di Kitchen, non fui capace di avvicinarla. Forse ero paralizzata dalla tensione, anche se non me lo ricordo. Forse ero incantata, ma nemmeno quell’incanto mi ricordo. Era il mio primo momento da fan in tutta la mia vita. Era strano. E comunque non me ne ricordo altri.

Quel giorno non mi feci autografare il libro, e nemmeno il giorno successivo quando andai ad una conferenza che la Yoshimoto teneva all’Università degli Studi Orientali di Napoli. Mi ricordo poco anche di quello, ma nella mia memoria è rimasta la percezione che la Yoshimoto non parlò tanto di scrittura — come magari ci si aspettava, o come probabilmente mi aspettavo io. Banana parlò, per lo più, di se stessa. L’unica cosa che mi sono portata via da quell’incontro — o che mi sono portata dietro tutti questi anni e che solo adesso mi ricordo veramente, spogliata di ogni altra cosa accaduta o detta quel pomeriggio (con chi ero? Che stagione era? Cosa ho raccontato dopo a mia madre?) — insomma quello che mi ricordo è stato un suo racconto di quando era adolescente. Disse che in quel periodo era stata tanto male, che soffriva (forse di depressione, ma di certo non disse — o non tradussero — quella parola), insomma era triste e una sera, dopo aver visto Suspiria, del nostro Dario Argento, decise, d’un tratto, che non si sarebbe suicidata più.

Mi ricordo solo di questo di Banana Yoshimoto.

Che Dario Argento le aveva salvato la vita.

Quando chi si salva sono io.

La cosa non mi spinse a vedere il film: ho sempre odiato Dario Argento. Ciò su cui probabilmente a quel tempo avrei potuto riflettere più a fondo era il perché un film horror potesse aver avuto su di lei un effetto tanto benefico. In effetti non lo disse, oppure io non fui in grado di capirlo. Fatto sta che ancora oggi non me lo spiego.

Ora so che vedere il film non mi avrebbe aiutato. Solo col tempo ho potuto intuire quello che Banana Yoshimoto intendeva. Lei aveva 14 anni quando aveva visto il film di Dario Argento. Nel 2012 io di anni ne avevo 32 e Sakamoto mi ha salvato la vita molte volte. Non ho mai avuto intenzione di suicidarmi, sia chiaro. Nemmeno una volta. Ma ci sono, secondo me, diversi modi di salvare la vita a una persona. Il rischio non è solo morire. Ma anche non trovare alcun senso nelle cose, essere infelici, non capire se stessi, non riconoscere la sofferenza, e — anche quando non la si riconosce — riuscire a fare del male agli altri usando questa sofferenza. In quei pomeriggi in cui mi dedicavo solo alla cura di questa piccola me che era chiusa dentro di me e che cercava di districarsi tra tutte queste cose, in quei pomeriggi, è stato Ryuichi Sakamoto che mi ha salvato. E non al primo colpo, ma dopo ascolti ripetuti fino alla nausea, fino all’esasperazione e alla noia, di notte e di giorno, a casa e per strada — ma più che altro senza nessuna aspettativa — Sakamoto mi ha fatto capire delle cose. Come sia riuscito a farlo mi è, ancora oggi, oscuro, così come forse sarebbe oscuro anche a lui se glielo raccontassi domani.

D’un tratto, un pomeriggio, la musica di Sakamoto mi ha fatto capire che la sofferenza è un’arma e che quest’arma, se mi fossi comportata come si deve, non l’avrei impugnata proprio per sempre. Mi ha fatto sentire a casa (e quando dico casa intendo un posto al sicuro, sempre dentro di me, dove mi sento in pace, appagata e dove mi interrogo senza ansie e faccio pace con il passato, un posto dove mi perdono e provo compassione per me stessa e per gli altri, un posto dal quale guardo gli altri non più come oggetto dei miei desideri, ma come persone che vivono una vita separata dalla mia ma con cui ho qualcosa in comune, ovvero il fatto di essere tutti esseri umani). Dopo aver provato queste cose sono riuscita a tornare piano piano in me, a darmi delle risposte, a salvare cose che mi sembrava valesse la pena salvare e liberarmi di altre che non mi facevano stare bene. Per questo penso che Sakamoto mi abbia salvato. Senza passare attraverso l’esperienza della sua musica credo che non sarei arrivata a niente.

Vedere Suspiria non mi avrebbe aiutato a capire Banana Yoshimoto così come ascoltare Sakamoto non potrebbe aiutare credo nessuno a capire come stavo io. L’altra sera, a casa, ho fatto la prova: ho ascoltato le canzoni di Ghemon, ma non ho potuto rintracciare niente che mi facesse sentire come forse si sentiva il suo fan. Ma poi che esperimento è? Non si può risalire alla malattia bevendo la medicina.

Come dire a qualcuno “Senta, lei mi ha salvato la vita”.

Ho spesso immaginato di incontrare Sakamoto e dirgliela questa cosa (e come lo chiamo, signor Sakamoto? Sakamoto e basta? Ryuichi?) “Guardi signor Sakamoto, lei mi ha salvato la vita’”. Bella roba, e come l’avrebbe presa lui? Non saprei immaginarlo. Ma adesso so che oltre che a prendermi per pazza, Sakamoto potrebbe, come Ghemon, sentirsi un po’ responsabile, ma non in senso positivo, di questa cosa. Potrebbe sentire di fare un effetto non prevedibile sulla vita delle persone, e questa cosa potrebbe non piacergli.

Ma questo mi sembra vero per ogni forma d’arte e, molto probabilmente, Sakamoto, che è uno che ne ha viste tante, già lo sa.

È strano. Tra le persone lontane, le uniche che mi hanno aiutato veramente sono tutte giapponesi: sono Ryuichi Sakamoto, Haruki Murakami, Daisaku Ikeda e, a modo suo, anche Hayao Miyazaki ha fatto la sua parte. Sono grata a tutti loro.

Ma mi sa che non glielo dico.

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Valentina
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Written by Valentina

Producer, writing person, autofiction addicted.

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