Quelli che… “a casa loro”

Augusto Palombini
5 min readJul 24, 2017

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Caro connazionale che sostieni che… “a casa loro”, vorrei scriverti due righe. Lo faccio perché da qualche tempo osservo che nel dibattito sull’immigrazione in Italia si diffonde sempre più l’approccio di quelli che… “a casa loro”. Una soluzione antica in realtà, che ha il vantaggio di mettere in pace le coscienze proponendo a un problema complesso una soluzione molto semplice e dialetticamente convincente, che proprio per questa semplicità dovrebbe destare qualche dubbio. Ma non è tempo di dubbi, se persino alte cariche politiche di vari colori si sono recentemente aggiunte al novero. Quelli che… a casa loro imperversano sui social, riempiono i bar, agitano i dibattiti televisivi, variamente declinati per tutti i gusti: dai più duri “rimandiamoli a casa loro” ai più benevoli “aiutiamoli, ma a casa loro”.

Caro connazionale, non ho nessuna intenzione di pontificare al riguardo, e come vedrai scrivo per darti ragione. Ma tutto ciò mi fa pensare che gli aspetti di questo fenomeno non siano ben chiari a tutti, a te in particolare. Premetto che chi ti scrive fa volontariato da oltre vent’anni — a vario titolo, nei centri accoglienza e soprattutto sulla strada — , quindi ciò che hai pensato leggendo le prime righe è vero: non sono una voce neutra. Ciò detto, credo di poterti raccontare qualcosa, e lo faccio con l’idea che a suo modo, quell’auspicio a vederli a casa sia un sincero tentativo di affrontare un problema.

Il tuo desiderio che tutta questa gente possa fare ritorno nel proprio paese è lodevole, ma — mi consentirai — non molto originale. Ci si potrebbe infatti chiedere come mai un’idea così luminosa non sia venuta ad altri, anzitutto ai diretti interessati, che arrivano a rischiare di finire in pasto ai pescecani anziché attendere l’aiuto — tuo e di tanti altri — nel luogo natìo.
“E’ che non sanno cosa li aspetta, pensano di trovare il paradiso” è la risposta che spesso ricevo da tuoi compagni di convinzione. Sono però certo che la tua capacità analitica vada oltre questa visione, secondo cui — nell’era di internet — delle decine di migliaia di scampati ai naufragi, magari dopo essere stati derubati, picchiati e sodomizzati da qualche zelante guardia saheliana, non ce ne sia uno dico uno che abbia fatto una telefonata, mandato un’email o un sms per dire che il viaggio è stato un tantino turbolento.

Ma allora perché non restano nel proprio paese?
Prima di tutto bisognerebbe chiarirsi su cosa intendiamo. Non sarà sfuggito al tuo spirito analitico che in italiano “proprio” richiama il concetto di “proprietà”. E infatti di proprietà si tratta, anche se morale: avere un paese di origine è già il privilegio di una proprietà. E c’è chi non ce l’ha, neanche quella.
Mi spiego: secondo te uno che nasce in un carcere libico, da una donna ghanese in fuga, violentata lungo il percorso da un soldato o da un predone (o da un soldato predone) e fermata a Bengasi, ecco: quello di che paese è? E uno nato sul barcone? E uno nato durante la traversata del Sahara, in un punto imprecisato fra Tumbuctu e Ghat? Io ci ho lavorato nel Sahara libico: un giorno che facevamo una ricognizione, solo a sera, scaricando i dati del gps (allora non erano sofisticati come oggi), ci siamo resi conto che avevamo scorrazzato un paio d’ore in Algeria (a nostro rischio, peraltro). Da quelle parti non è che i confini siano così chiari, come puoi del resto intuire dalla carta geografica, guardando quelle linee segnate col righello dai nostri (europei) avi. E’ improbabile che ci sia un fiume, una catena montuosa o un qualunque segno tangibile che corre per migliaia di chilometri in linea retta, o che abbiano steso filo spinato (che peraltro verrebbe in breve ricoperto dalla sabbia) per una distanza lineare pari a un quinto della circonferenza del pianeta. Ecco, uno nato lì proprio non lo sa di che paese è, e se gli dici di tornarci potrebbe guardarti storto, non per cattiveria eh, proprio perché non sa di che parli. E se stai pensando che ti ho citato dei casi limite: non sai quante se ne sentono raccontare, di storie così.

A questo punto potresti rispondermi con un altro valido argomento di quelli che… a casa loro: “accogliamo chi ne ha diritto e rimandiamo gli altri a casa”. Questa espressione (ammetterai, un po’ ambigua) starebbe per: accogliamo i rifugiati, quelli in pericolo, i perseguitati (cosa che peraltro la nostra mervigliosa Costituzione ci obbliga a fare), e rimandiamo indietro gli altri, i cosiddetti “migranti economici” come vengono definiti quelli che arrivano senza fuggire da persecuzioni. Anche questa definizione però è un po’ farlocca, ti assicuro.
Ma tu, te ne andresti dal tuo paese? Anche senza la prospettiva di attraversare il deserto a piedi e il Mediterraneo su una bagnarola, te ne andresti via lasciando tutto? No, perché questa storia del “migrante economico” evoca deliziose immagini della nostra narrativa borghese d’altri tempi, il giovane intraprendente che un giorno dice alla sua famiglia/tribù/compagnia: “Uè ragazzi, sapete che c’é? Domani vado in Europa in cerca di fortuna!” Ora, se le cose stessero proprio così capirei in parte anche il tuo saggio monito a rimanersene al paesello o al villaggetto, ché di fortuna qua ce n’è poca e tanti — troppi — che la cercano (fermo restando che ognuno, di vita, incidentalmente ce n’ha una sola, e quindi ha tutto il diritto di giocarsela, la fortuna, anche nelle condizioni più ardue). Ma il punto, pure qui, è la vaghezza del concetto di fortuna. Chi dice che questi “pensano di trovare il paradiso” in fondo ha ragione: lo pensano in piena consapevolezza perché col reddito pro capite di certi posti, e una famiglia che ti muore di fame attorno, pure chiedere l’elemosina nel puzzo di un marciapiede, e poter mandare a casa una decina di euro al mese, t’assicuro che rappresenta il paradiso.

No, non sto polemizzando, anzi. Tutto questo è solo per dirti che hai ragione. Hai davvero ragione tu. Aiutarli a casa loro è una priorità, e dovremmo tutti rendercene conto, spingendo le nostre autorità a promuovere politiche internazionali opportune, come suppongo tu faccia costantemente. Smettendo di strizzare l’occhio ai grandi poteri dell’oro, del petrolio e dei diamanti, che in Africa foraggiano poteri corrotti e stragi che stabilizzano la povertà come miniera ideale di manodopera a basso costo e senza grilli sindacali per la testa. Incoraggiando forme di vera democrazia partecipata.
Solo che se pure decidessimo tutti assieme di iniziare a farlo domani (e permettimi qualche dubbio al riguardo), passerebbero anni prima di ottenere un risultato tangibile là. E il deprecabile vizio che accomuna la specie umana, di richiedere cibo con cadenza quotidiana, rende complesso convincere qualcuno ad attendere la rivoluzione a venire, per poter nutrire a casa propria, col proprio lavoro, se stesso e una famiglia. E magari poter esprimere un’opinione senza essere sgozzati o rinchiusi a fare compagnia alle pantegane, ma mi rendo conto che quest’ultimo è un capriccioso lusso.

Caro connazionale, hai ragione tu. E avremmo dovuto ascoltarti prima. Trenta o quarant’anni fa, almeno. Oggi il tuo consiglio non serve granché. È come se in una città inondata dall’alluvione, girando con le barche a cercare morti e feriti, tu ci consigliassi di costruire argini più solidi e pulire il letto dei torrenti. E chi può darti torto? Solo che adesso ci sono milioni di persone in fila che vogliono arrivare da questa parte del Mediterraneo, e ci riusciranno, a dispetto di tutto, perché nella storia è sempre stato così. Forse fra cinquant’anni, nel mondo nuovo che verrà, ci ricorderemo dei tuoi saggi consigli e tutti i fiumi avranno argini solidi e letti puliti, ma adesso l’unica cosa che serve è costruire politiche di integrazione, di convivenza, di amicizia.

A casa nostra.

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