Perché internet ha cambiato per sempre il mondo del design. E non c’è il tasto Undo.

Alessandro Mininno
Gummy Industries
Published in
8 min readApr 13, 2016

In realtà, non so molto del mondo del design. Mi immagino che i progettisti attraversino almeno queste fasi: ideazione, progettazione, produzione vera e propria, distribuzione degli oggetti, vendita (e comunicazione).

In modo diverso, Internet ha cambiato il processo di design, intervenendo su tutti questi punti.

Certamente, il consumatore non è più quello di una volta: è sempre più distratto, iperconnesso e ha dei gusti di nicchia. Se, una volta, l’economia era basata sulla paretiana proporzione dell’80/20 (con il 20% del catalogo si fanno l’80% delle vendite e il 100% del fatturato), la digitalizzazione dei canali distributivi e di vendita ha stravolto completamente gli equilibri di mercato.

Consumatori dai gusti estremi o bislacchi, localizzati in parti remote del paese, grazie all’e-commerce diventano delle nicchie profittevoli. Ti piacciono le ragazze giapponesi che leccano le maniglie? Et voilà, c’è un sito su questo.

È quello che Chris Anderson, fondatore di Wired, chiama l’economia della coda lunga: i soldi non si fanno più con la testa della curva di domanda (prodotti generici, tante vendite) ma con la coda (prodotti di nicchia, specifici, particolari).

Questo apre spazi di mercato a infinite varianti di prodotto e rende sensata la produzione di oggetti che, fino a ieri, non avrebbero avuto mercato.

Idea generation: il designer non è più solo

La prima fase della progettazione è quella che comporta la generazione delle idee, o la fase creativa.

Scott Berkun propone di sostituire la parola “innovazione”, abusata e quasi priva di significato, con la frase “Significant positive change”, cercando di farci visualizzare l’output del processo creativo.

Dovendo generare idee o volendo condurre una ricerca sulle necessità degli utenti, il web si dimostra uno strumento estremamente utile.

Art of the Trench (2009) è il progetto collaborativo di Burberry, in cui l’azienda chiede alle persone di condividere delle fotografie in cui indossano il trench. Gli utenti hanno caricato 400.000 immagini da 191 paesi, nella prima settimana di attività della piattaforma.

Cosa sta facendo Burberry, in questo caso? Sta demandando alla rete una fase di ricerca, che un tempo sarebbe stato esclusivo appannaggio dell’azienda. Sta facendo trend-hunting in crowdsourcing: grazie alle fotografie degli utenti, può vedere in faccia i propri clienti, può sapere come indossano i capi e quali altri brand utilizzano. Prima di internet, per condurre questa ricerca avrebbero dovuto fare una faticosa indagine di mercato.

Con il progetto Ideas, Lego fa addirittura un passo in più. La piattaforma Ideas consente a tutti i fan di Lego di costruire il proprio prototipo per un nuovo giocattolo e di condividerlo con la community. Se il prodotto riceve abbastanza voti dalla community, viene valutato dagli esperti Lego, che ne verificano la fattibilità tecnica e capiscono se è possibile attivare degli accordi di licensing, se necessario.

Se il prodotto passa anche questo test viene messo in produzione e l’autore riceve l’1% delle revenue. Non so quale sia la percentuale che incassi un designer tradizionale, ma mi sembra un compenso di tutto rispetto: le vendite delle limited edition Lego Ideas si aggirano sulle 10.000 scatole circa e l’1% di revenue dovrebbe essere sufficiente a consentire l’acquisto di un’automobile di media cilindrata. Vera, non fatta di Lego.

In questo caso, Lego sta svolgendo insieme al pubblico l’intera attività di idea generation e di prototipazione, un’attività che è sempre stata esclusivo appannaggio dei designer. Queste sono le proposte che il board Lego sta valutando in questo momento.

Progettazione: forse l’utente ci dà una mano

Pensiamo solo a due fasi: la prototipazione e l’user testing.

Per quanto riguarda la prototipazione, le stampanti 3d sono una tecnologia che è sempre esistita nel mondo del design, ma che in questo momento si sta diffondendo in maniera capillare, anche negli studi di progettazione più piccoli. Ciò che è interessante non è tanto (o non solo) la possibilità di stampare un oggetto nel proprio ufficio, ma la possibilità di condividere dei modelli con la community e definire il prototipo in modo collaborativo.

MakerBot, uno dei principali produttori di stampanti 3d, mette a disposizione dei suoi clienti la community Thingiverse, un enorme database di oggetti nel quale gli utenti possono caricare i propri file 3d e possono scaricare i file 3d di altri, per poterli stampare.

Dall’immagine possiamo vedere che 181 utenti dichiarano di aver stampato a casa propria l’astronave nell’immagine, chiamata dall’utente Fillennium Malcon (la pirateria dei modelli tridimensionali sarebbe un altro argomento interessante: sarà per la prossima volta). Quattro utenti, però, dichiarano di aver remixato l’astronave e di averla declinata (cambiata, storpiata, migliorata) in un loro modello. Questa possibilità è potentissima: apre, in linea teorica, allo sviluppo di oggetti open source, che la comunità possa migliorare continuamente.

“We believe that everyone should be encouraged to create and remix 3D things, no matter their technical expertise or previous experience.” — Thingiverse

Per un designer, la possibilità di testare i propri prototipi in modo immediato con un pubblico reale è un sogno. Un sogno che si è realizzato, almeno per i designer che lavorano su web: piattaforme come Usability Hub (ne esistono a dozzine) consente ai webdesigner di testare il proprio prototipo con un pubblico reale e di misurare all’istante i feedback, in modo da poter migliorare il prototipo.

Allo stesso tempo il processo di progettazione e design diventa meno segreto e meno oscuro.

Twitch è la piattaforma di live streaming utilizzata ogni giorno da centinaia di migliaia di videogiocatori. Molti creativi (illustratori, artisti, designer, progettisti ma anche creative developer) stanno iniziando a utilizzare Twitch per trasmettere in diretta il loro processo creativo e ricevere dei feedback live, proprio mentre stanno lavorando. Si tratta di una possibilità senza precedenti per condividere il proprio lavoro (lato artisti) e per imparare (lato utenti finali).

Il prodotto sei tu (sì, proprio tu che stai leggendo)

In alcuni casi, il designer arriva addirittura a coinvolgere l’utente nell’opera o nel prodotto finale. Daniel Eatock è un designer e artista inglese: uno dei suoi lavori è una ricerca collettiva, in cui gli utenti contribuiscono con delle fotografie. Un progetto di questo tipo non potrebbe esistere senza internet e senza il contributo degli utenti. Per il progetto “No Photo” Daniel Eatock chiede agli utenti di inviargli fotografie dei segnali di divieto, appunto, di scattare fotografie.

Esperimenti simili, di successo, esistono anche nell’ambito del design di prodotto. Localmotors vende auto che gli utenti si costruiscono da soli,
in box di montaggio. Sono disegnate in crowdsourcing, con la collaborazione della community.

La scatola di montaggio viene venduta a 100.000€ e ha, in omaggio, un’officina accessoriata per 7 giorni, durante i quali l’acquirente può montarsi da solo l’autovettura, per poi tornare a casa in macchina.

Finanzia il tuo progetto in O.P.M.: Other People’s Money

Nell’economia tradizionale, il designer doveva proporre il progetto a diverse aziende, fino a trovarne una che fosse disposta a finanziarne la produzione.

Oggi, con i sistemi di crowdfunding come Kickstarter, se il progetto è buono e se il designer è in grado di descriverlo in modo chiaro e convincente, è possibile ottenere un finanziamento anticipato dalla community.

È il caso di Relio, una piccola lampada a LED alimentata via USB che produce una temperatura controllata: perfetta per la community dei fotografi. Il progetto, italiano, è stato finanziato su Kickstarter, raccogliendo in meno di un mese 54k sterline.

Dal punto di vista imprenditoriale la soluzione è decisamente interessante: il designer riesce a farsi anticipare l’intero costo per la prima produzione, in modo da fare un test di mercato. In questo modo, il rischio imprenditoriale della prima produzione è azzerato (o, meglio, viene ribaltato sugli utenti finali).

Certo, non tutti i progetti hanno i requisiti per funzionare su Kickstarter. Silvio Lo Russo, con il progetto Kickended, ha documentato una serie infinita di progetti che sono rimasti bloccati a zero euro.

Get rich or die trying

Quando si parla di distribuzione e vendita, internet ha veramente rivoluzionato il gioco: i sistemi di ecommerce sono tremendamente diffusi e sono disponibili pre-cotti, pronti all’uso. Assolvono a tutte le funzioni di gestione della vendita e della transazione.

Esistono dei casi che vanno oltre la semplice vendita online. Uno dei primi (e il più storico) è Threadless: si tratta di una delle prime aziende del cosiddetto “Web 2.0” a essere profittevoli. Threadless è un’azienda di moda, ma non disegna i propri capi (principalmente tshirt). Li lascia disegnare agli utenti. Non sceglie nemmeno i design migliori per le magliette. Lo fa fare agli utenti. Non raccoglie gli ordini dai distributori e dai punti vendita. Lascia che gli utenti comprino una maglietta, ancora prima che sia prodotta.

Quando un design ha raggiunto una certa soglia, Threadless manda in stampa un lotto di thsirt. Incassa i soldi dagli utenti finali. Retrocede una parte di soldi e qualche tshirt al designer. E ricomincia da capo. Facendo questo (ovvero: premendo un grosso tasto “Stampa”, senza rischi), fattura un milione e mezzo di dollari.

Vicini agli utenti finali, quasi troppo

Grazie al web, i designer si trovano molto vicini agli utenti finali. Possono leggere i complimenti sul web e captare qualche critica. O molte critiche.

Il “popolo della rete” si è dimostrato, molto spesso, conservatore e retrogrado, quasi mai generoso nei confronti dei designer.

In particolare in tutti i recenti casi di rebranding, gli utenti hanno sempre manifestato a gran voce le loro critiche. L’americana GAP, per esempio, a seguito di un’operazione incisiva di redesign del proprio logo ha dovuto affrontare delle critiche talmente ingenti su Twitter da decidere di tornare indietro al logo vecchio.

Siete disposti a lavorare in un luogo in cui il concetto di autore sta cambiando in modo irreversibile, in cui il finanziamento delle idee avviene in modalità completamente diversa, e in cui l’utente finale è talmente vicino (e talmente insolente) da mettere in discussione ogni virgola del vostro lavoro?

Benvenuti su internet.

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