Non siamo nell’epoca della post-verità

Alessio Banini
5 min readNov 25, 2016

Quella della post-verità è l’ennesima narrazione che cerca di spiegare un fallimento e attribuire le colpe all’esterno: in realtà i media hanno perso la fiducia del pubblico e non sanno come recuperarla.

Dopo la Brexit e l’elezione di Trump, nel pieno del polverone delle Fake News, ormai è evidente: siamo nell’epoca della post-verità. Un’epoca in cui la verità è diventata un elemento di importanza secondaria, anche per colpa dei social media. Editoriali preoccupati sulla menzogna, rischi per la democrazia, sentori di apocalisse; e poi l’Oxford Dictionary che elegge post-verità a parola dell’anno, le paure per il referendum italiano, la scomparsa dei fatti, la gente che crede ai politici invece che ai media. Personalmente, non sono d’accordo con questa lettura: non siamo entrati nell’epoca della post-verità.

Quella della post-verità è la tipica narrazione che serve a toglierci le responsabilità, in qualità di operatori del settore media e comunicazione, e di proiettarle all’esterno. “Non è colpa degli editori e dei giornalisti, — ci diciamo tra di noi — è colpa della gente che non crede più alla verità e preferisce credere alle menzogne dei politici e di chi ruota loro attorno.”

La storia è molto semplice, e per certi versi convincente. Un populista come Trump utilizza le menzogne durante la campagna elettorale, distribuendole efficacemente anche attraverso i social media; la base elettorale ci crede e le amplifica; i media tradizionali rispondono con il fact-checking e cercano di smontarle; la base elettorale pensa che i media stiano mentendo e crede ai populisti come Trump. Ma com’è potuto accadere? Come abbiamo fatto noi editori, giornalisti, operatori media, che lavoriamo in questo settore e siamo professionalmente preparati a operare in questo contesto, a farci fregare in autorevolezza e affidabilità da populisti senza esperienza nel mondo della politica e dell’informazione? Semplice: abbiamo perso la fiducia dei nostri lettori. E l’abbiamo persa molto prima dell’avvento di Trump, della Brexit e dei social media.

Non siamo entrati nell’epoca della post-verità, anche se ci piace pensarla così. Ci fa comodo, perché salvaguarda la nostra visione del mondo e pone i problemi all’esterno. Preferiamo pensare che il pubblico sia composto da idioti, che la gente tenda a credere a ciò che fa comodo piuttosto a ciò che è vero, che il popolo preferisca la pancia alla testa, le emozioni ai ragionamenti. Ma non è così, e non è mai stato così: anzi, la missione del mondo dell’informazione dovrebbe essere quella di rendere progressivamente la cittadinanza più informata, più attenta e consapevole. L’attuale contesto sociale e culturale è quello che noi operatori dei media e dell’informazione abbiamo contribuito a creare: le persone sono più informate, attente e consapevoli rispetto ai secoli precedenti.

La realtà è che quelle stesse persone che abbiano contribuito a formare e informare, non credono più ai media. Abbiamo perso la fiducia, abbiamo perso l’autorevolezza e la reputazione: quindi, abbiamo perso tutti gli elementi distintivi che davano il senso della nostra professione. Gli editori nel corso degli anni si sono attaccati come piovre al potere dato dal controllo dei mezzi di produzione e distribuzione dei contenuti editoriali, con la convinzione che il proprio pubblico non ne avrebbe mai avuto accesso, e questa distinzione avrebbe manifestato la differenza dei ruoli per sempre. Ma abbiamo sottovalutato il processo di costruzione e mantenimento della fiducia e dell’autorevolezza: e adesso che abbiamo perso il controllo dei mezzi di cui sopra, non sappiamo cosa fare.

Perché l’avvento delle nuove tecnologie ha favorito lo sviluppo delle autopubblicazioni; l’impatto dei social network e degli smartphone ha consentito a una massa di persone di produrre e distribuire facilmente contenuti, magari di sviluppare attività imprenditoriali, trovare una nicchia di riferimento e una community con cui interagire. Questa situazione NON può essere un problema, questo NON deve essere lo spauracchio degli editori e dei media tradizionale. Se la perdita del potere sui mezzi di produzione e distribuzione dei contenuti editoriali ci danneggia, significa che i nostri prodotti e servizi erano pessimi. Lasciatemelo dire alla maniera di Louis CK.

Se veniamo danneggiati dalla pubblicazione delle notizie (vere o false) su Facebook, prodotte e distribuite da persone senza capacità, soldi ed esperienza, significa che noi non eravamo all’altezza di fare quel lavoro. Pensavamo che il nostro potere derivasse dal possedere un giornale, dalla possibilità di decidere cosa andava in stampa e in quali termini, piuttosto che dall’affidabilità e dall’autorevolezza della nostra professione. E adesso che quel prodotto possono farlo tutti, scopriamo di non essere più dei professionisti: scopriamo che anche Trump è più affidabile e autorevole di noi. La colpa è della gente? No, la colpa è nostra.

Fiducia e Verità. Il processo è semplice. Come accade per gli scienziati e i magistrati, lo stesso vale per i giornalisti: professioni che hanno a che fare con la ricerca della verità, nelle più diverse declinazioni. Ognuno di noi non può occuparsi di tutto, e delega vari aspetti della propria vita ad altri professionisti. Se non abbiamo le capacità, il tempo, le risorse o la voglia di effettuare da solo il processo di ricerca della verità, delle notizie e delle informazioni, deleghiamo a questo scopo un professionista. A prescindere dal controllo dei mezzi di produzione e distribuzione, a prescindere dalla possibilità di pubblicare su un giornale o di apparire in televisione, mi affido a un giornalista o a un editore per via della sua esperienza e autorevolezza. Mi fido di lui, perché non ho tutte le informazioni, a differenza sua (siamo in una situazione di asimmetria informativa): e questa fiducia non può e non deve essere tradita.

Non siamo nell’epoca della post-verità. La realtà è che noi editori e operatori media ci siamo dimenticati di dover puntare su affidabilità e autorevolezza per fare il nostro lavoro. Bastava essere iscritti all’albo dei giornalisti, bastava avere il potere di pubblicare su un giornale o di apparire in televisione, bastava richiedere qualche accredito e andare a cena con VIP e potenti, per sfangare la giornata. Abbiamo perso la fiducia dei lettori a forza di guardarli dall’alto verso il basso, a forza di fare marchette e di utilizzare la professione solo per avere vantaggi personali. Non è stato Facebook a farci piombare nell’abisso delle Fake News: i problemi che stiamo vivendo erano già qui, prima dell’avvento dei social network. Abbiamo tradito il ruolo che il pubblico ci aveva delegato, e adesso qualsiasi populista è più credibile di noi.

La gente non ha smesso di credere alla verità: ha smesso di credere alle nostre verità, perché abbiamo la stessa credibilità di un populista in corsa per le elezioni.

Per guarire da una malattia bisogna prima identificarne le cause e prendere le giuste medicine. Prendere coscienza della nostra incapacità come editori, come giornalisti o come operatori dei media e della comunicazione, è il primo passo per guarire. Nel prossimo futuro non dovremmo impegnarci a comprendere l’epoca della post-verità, ma lavorare duramente per recuperare la fiducia dei nostri lettori.

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Alessio Banini

Antropologo, scrittore, specializzato nel territorio della Valdichiana e nei contenuti web. Founder @lavaldichiana — alessiobanini@gmail.com