Perché abbiamo bisogno di un Facebook pubblico

Ovvero del ruolo pubblico ai tempi dei social network in cinque passi: libertà, partecipazione, identità, potere e informazione.

Alessio Banini
11 min readMar 14, 2016

Immaginate un ufficio pubblico che si occupi di gestire la piazza virtuale dei social network per conto della cittadinanza. Proprio lì, in fondo al corridoio del primo piano del vostro municipio, tra l’ufficio tributi e quello dei vigili urbani: una piccola stanzetta con l’insegna sbiadita, il portone di legno incurvato dall’umidità. Un ufficio pubblico con i suoi dipendenti pubblici che timbrano il cartellino, che accendono il PC con Windows 98 e che pretendono i documenti da protocollare per ogni piccola richiesta. Che poi accedono al gestionale della piazza virtuale, moderano i commenti, stabiliscono le policy di pubblicazione, modellano gli algoritmi di distribuzione dei contenuti degli utenti.

Un’utopia irrealizzabile oppure in incubo orribile? I social network dovrebbero essere il frutto della libera iniziativa privata oppure dovrebbero essere sottoposti a un sistema di gestione da parte del settore pubblico? Seguitemi in questo percorso in cinque tappe e traete le vostre conclusioni!

Libertà

Internet ha rivoluzionato il nostro mondo. L’accesso a internet, già dai primi anni ’90 dello scorso secolo, ha dato la possibilità agli utenti di avere accesso a una marea di informazioni, in maniera più rapida, più democratica e soprattutto gratuita (o, comunque, a costi molto bassi). La possibilità di connettersi con tutto il mondo, di abbattere le distanze e migliorare le comunicazioni, di accedere a informazioni strutturate sulla base di un’intelligenza collettiva (Wikipedia) non ha eguali nella storia dell’umanità: anzi, possiamo definirla una rivoluzione che ha cambiato la nostra storia e la nostra visione del mondo, come fu la scoperta dell’agricoltura.

Le possibilità offerte da internet al settore privato sono molteplici: potenzialità commerciali e pubblicitarie, posti di lavoro, innovazioni di prodotto e di processo. Le possibilità per il settore pubblico sono ugualmente importanti: basti pensare alla digitalizzazione della pubblica amministrazione o alla possibilità di disintermediazione tra Stato e cittadini. Ma l’impatto è ancora più grande: internet è un servizio che migliora la qualità della vita e il suo accesso diventa un diritto sociale, al pari dell’educazione e della sanità.

“L’accesso a Internet è diritto fondamentale della persona e condizione per il suo pieno sviluppo individuale e sociale” (Dichiarazione dei Diritti di Internet)

Così come lo Stato garantisce il diritto al libero spostamento grazie all’accesso alla rete stradale, dovrebbe garantirci l’accesso alla rete digitale; ma per far questo c’è bisogno di infrastrutture analogiche prima ancora che digitali. Abbattere il digital divide significa investire in infrastrutture, in cultura digitale, in comunità aperte e trasparenti. Tutto questo, per diffusione, parte dai centri e arriva alle periferie; parte dai paesi sviluppati e arriva a quelli in via di sviluppo, con i tempi degli investimenti che nel settore pubblico sono ovviamente più lenti di quello privato.

Mentre gli Stati si muovevano per rendere internet un bene pubblico, seguendo i sogni libertari dei primi pionieri, sono arrivati i social network. Le regole del gioco sono cambiate nuovamente, e il settore pubblico deve ancora adattarsi alla nuova rivoluzione portata dalle app e dagli smartphone.

Il caso “Free Basics” è esemplare, per parlare di libertà di accesso alla rete. Zuckerberg ha promosso un sistema per distribuire servizi digitali in maniera gratuita in tutti i Paesi poveri, ponendosi come un filantropo fautore dei diritti civili e della libertà di accesso a internet (da buon paraculo, l’ha chiamato internet.org). In realtà “Free Basics” non portava internet alle persone bisognose, portava Facebook e le app affiliate: una differenza sostanziale, che ha portato l’India a bocciare la proposta. Ma non c’è nulla di male: Facebook è il servizio offerto da una società privata che deve perseguire interessi privati, anche quando finge di perseguire i diritti civili e il benessere dei Paesi meno fortunati. Facebook vuole che più persone accedano a internet per avere più utenti, vuole che le aziende vendano i servizi attraverso i suoi canali e le sue inserzioni pubblicitarie, vuole il benessere pubblico soltanto in funzione del suo fatturato. È giusto che sia così. Dovrebbe essere il settore pubblico a proporre “Free Basics”, non il settore privato.

Attenzione, però: Facebook non si accontenta degli utenti che utilizzano internet. Facebook vuole diventare internet e sostituirsi ad esso. Guardate i numeri degli utenti, guardate la crescita, guardate i concorrenti. Considerate gli acquisti di Whatsapp, di Instagram, di Masquerade. Considerate il tentativo di rendere Messenger il sistema operativo di Facebook. Considerate Mentions e gli Istant Articles. Senza perdersi in ragionamenti apocalittici, non c’è nessun sistema di controllo da parte del settore pubblico (soprattutto in quello statunitense) di arginare i legittimi — utilitaristicamente parlando — interessi di Facebook di “divorare” l’intero mondo virtuale. Il nostro diritto di accesso a internet sta diventando il nostro diritto di accesso ai servizi offerti da Facebook.

Partecipazione

Internet ha favorito la partecipazione e i processi di democrazia. E i social network hanno favorito ulteriormente quei processi, grazie alla loro capacità di disintermediare, di creare e diffondere contenuti, di intervenire liberamente nel dibattito pubblico della piazza virtuale. Ricordate la Primavera Araba? Il ruolo dei social network nella ribellione, più o meno dal basso, è stato fondamentale.

Il mito fondativo della rete internet come strumento per favorire la ribellione è antecedente ai social network, è frutto dei sogni cyberpunk del secolo precedente. La ribellione degli hacker contro le multinazionali degli incubi di Gibson, richiamata spesso in epoca-Gates, dovrebbe acquisire più senso adesso, in epoca-Zuckerberg. I social network hanno aumentato i processi partecipativi di auto-aggregazione, anche politica, ma questi processi erano già nella natura di internet, fin dai suoi albori.

Che cosa cambia con i social network e con Facebook in particolare, nei processi di partecipazione? L’interattività, pian piano, cede terreno nei confronti della passività. Un utente di fronte a un browser, appena connesso con un modem 56k ancor prima di Google, sceglieva cosa fare: non era uno spettatore passivo. Aveva una barra di ricerca con dei suggerimenti, magari si era annotato un indirizzo di un sito web nel taccuino; comunque sia, sceglieva cosa fare. Partecipava sia al processo di costruzione delle informazioni, sia al processo di scelta dei contenuti da cercare, raggiungere ed eventualmente diffondere.

Facebook si sta trasformando sempre più in un palinsesto televisivo. Sembra un processo normale, sarebbe impossibile raggiungere un numero così vasto di utenti senza usare processi generalisti, e non si può pretendere un eccessivo grado di competenza o di interattività da parte della massa. Ma l’utente di Facebook è sempre meno attivo e sempre più passivo. Può produrre contenuti, può parlare e cercare gli amici, ma più passa il tempo più si trova sommerso di contenuti sponsorizzati e contenuti multimediali sempre più rilevanti. Ogni volta che accede a internet e apre Facebook invece di Google, accetta di non scegliere i propri contenuti, ma di ricevere i contenuti filtrati dagli algoritmi di Facebook, profilati su di lui e per lui. Aprendo Facebook, quindi, l’utente accende la televisione.

E se il ruolo del settore pubblico, almeno in gran parte d’Europa, è considerato fondamentale nell’editoria, nel giornalismo e nella trasmissioni televisive (dalla RAI ai finanziamenti pubblici alle testate giornalistiche), non dovrebbe essere lo stesso anche nei social network? Soprattutto nel caso di social network che diventano sempre più simili a una televisione, in cui un algoritmo decide cosa va in onda e cosa no (peggio delle famiglie dell’Auditel!). Non c’è forse una necessità di garantire partecipazione e imparzialità?

Identità

Uno dei capisaldi di ogni legislatura pubblica è il concetto di identità. Io sono io: se la mia identità non è pubblicamente garantita, come posso accedere ai diritti personali? Io voglio i miei diritti perché sono una persona. Appena nasco, lo Stato è tenuto ad emettere un atto di nascita per sancire pubblicamente la mia personalità e il mio status giuridico di accesso alla cittadinanza. Il furto di identità è un reato, nel mondo reale. Ma in quello virtuale? La legislatura si è adeguata alla rivoluzione digitale, e quindi oggi possiamo parlare di reati di diffamazione estesi ai social network, di rispetto per la privacy online, di diritto applicato alla rete internet.

Gli albori del web erano talmente libertari da rasentare l’anarchia e invogliare l’anonimato. L’utente poteva fingere di essere una persona diversa da sé stessa, poteva partecipare ai forum con il suo avatar e il suo nickname, costruendo un’identità digitale diversa da quella reale. Poteva registrare nomi a dominio che non gli appartenevano (e questo può farlo tuttora, pur con le dovute distinzioni).

Nell’epoca dei social network il reale si fonde con il virtuale: l’identità digitale non può essere diversa da quella reale, anzi, si sovrappone, fino a diventare quasi iper-reale. Facebook ti obbliga ad avere un profilo personale legato a un individuo realmente esistente, non ad un ente o ad un’organizzazione (come poteva essere nei primi anni, quando doveva raggiungere una massa critica di utenti, prima di obbligare a trasformarle in pagine aziendali). L’anonimato è scomparso: tu sei tu, anche nel web. Ma questo non succede perché hai diritto di essere riconosciuto come persona, bensì perché sei un consumatore. Facebook è un servizio privato, ha bisogno della tua profilazione per fini commerciali: se fingi di essere un altro, come può mandarti gli annunci giusti?

Il sistema pubblico diventa incredibilmente importante, quando parliamo di identità: assieme a quella reale, dovrebbe garantire l’identità virtuale. Io nasco e ho diritto al mio nome a dominio, alla mia mail personale e al mio profilo di un Facebook pubblico, al pari della carta d’identità. Io sono io, nella piazza virtuale così come in quella reale.

Potere

La gestione del potere è l’argomento più complesso nell’ordinamento di uno Stato. Chi detiene il potere, come lo esercita e quali altri poteri contrastato il suo operato? Quando ci muoviamo nella pubblica piazza, esercitiamo il nostro potere. La nostra presenza pubblica è regolata da una serie di legislazioni, norme e principi, che determinano lo spazio pubblico e la possibilità di interagire con esso. In uno Stato democratico deteniamo una certa quantità di potere, che si esercita generalmente attraverso il voto alle elezioni, che a sua volta influenza l’attività legislativa. Per quanto possiate pensare male della politica, avete del potere su di essa, in qualità di cittadini.

Nei social network non abbiamo nessun potere come cittadini del web: abbiamo potere in qualità di consumatori. Nessuno di noi partecipa alla definizione delle policy di Facebook; nessuno di noi ha voce in capitolo nello scrivere le regole del gioco. Facebook è un servizio privato di un’azienda privata che definisce il suo regolamento e le sue norme di utilizzo in base agli obiettivi commerciali e alle strategie editoriali. Noi accettiamo queste norme al momento dell’iscrizione e tutto finisce lì: se non le apprezziamo, siamo liberi di andarcene.

Non possiamo lamentarci se Facebook censura la foto della mamma che allatta il neonato e non risponde alle nostre segnalazioni di frasi razziste. Stiamo confondendo le regole e l’etica del mondo reale con quelle di un social network privato: può farlo, e noi non abbiamo nessun potere su di esso. Se non quello dei consumatori che possono decidere di non comprare più da un negozio — ovvero cancellare in massa il proprio profilo da Facebook — ma noi non lo faremo. Succede lo stesso nella sanità o nell’educazione: se abbiamo una brutta esperienza con un’ospedale o una scuola, possiamo cambiarla, scegliere tra pubblico e privato. Con Facebook è impossibile, non consente alternative: è l’unica piazza virtuale che abbiamo, e finge di gestirla come se fosse uno spazio pubblico. Facebook gestisce il potere della sua piattaforma con una legittima tirannia e noi non siamo una democrazia virtuale abbastanza matura per trovare il modo di ribellarci.

Un Facebook pubblico potrebbe invece permettere l’approvazione di policy democratiche e non commerciali, che possano perseguire l’etica pubblica e non un piano di business aziendale. Un Facebook pubblico potrebbe offrire tutti i benefici dei suoi servizi alla cittadinanza, senza essere vittima degli aspetti negativi legati alle sue necessità commerciali.

Informazione

Facebook non è una piattaforma di distribuzione. Non lo è più, anche se inizialmente poteva sembrarlo. Andate a parlare con gli editori e con i giornalisti, chiedete loro i dati sui link, sulle visualizzazioni, sulla conversione degli utenti. Facebook vuole tenere gli utenti dentro di sé: lancia gli Istant Articles per tutti e favorisce con gli algoritmi i contenuti interni, premia gli utenti che non cercano di far uscire il traffico attraverso link esterni (creando di fatto un paradosso, perché il link era sempre stato considerato come il più grande valore della rete internet, il suo stesso fondamento).

Gli editori che hanno sfruttato Facebook come distribuzione dei link che rimandavano ai loro prodotti editoriali hanno visto rapidamente il declino del successo delle loro strategie digitali. Stanno perdendo il controllo della loro capacità di intercettare gli utenti tramite i social network. Si dirà che le notizie sono le stesse, che le si legga sul sito web di un giornale o su un post di Facebook. Ma, al di là della questione commerciale (se non vieni nel mio sito e vuoi notizie gratis, con cosa guadagno i soldi per pagare i giornalisti?) c’è da considerare una questione di contesto, di scelta editoriale e di filtro.

Il ruolo del direttore editoriale che sceglie la prima pagina, il contesto di una notizia e di un approfondimento, il titolo di un editoriale, rischia di scomparire di fronte all’algoritmo di Facebook. Un ruolo che doveva garantire professionalità e serietà nei confronti dei cittadini, in qualità di quarto potere, sta venendo spazzato via.

Qual’è il senso di sostenere l’informazione con finanziamenti pubblici per riconoscere il suo ruolo nella separazione di poteri moderna, se poi gli utenti non comprano/leggono i giornali ma ricevono le informazioni tramite Facebook e Twitter, delegando di fatto il ruolo editoriale ad algoritmi preparati a fini commerciali, con policy su cui non abbiamo potere e definiti in base alle nostre reazioni e i nostri interessi? Se si pensa che il pubblico debba avere un ruolo nell’informazione, dobbiamo affrontare il problema, perché in questo momento il quarto potere è messo in crisi dal sesto potere.

Conclusioni

Facebook è il re dei social network, non soltanto per numeri e successo commerciale, ma soprattutto per la possibilità di offrire servizi utili a migliorare il benessere delle persone. La possibilità di stabilire contatti e relazioni in maniera rapida ed efficiente, la possibilità di avere informazioni senza troppi intermediari e di conoscere informazioni in tempo reale, così come la possibilità di migliorare la sicurezza. Eppure, tutti questi servizi, se effettuati unicamente con il fine utilitaristico di un piano commerciale, rischiano di peggiorare la qualità della vita invece che di migliorarla. Soprattutto se Facebook non si limita ad essere un attore importante di internet, ma se aspira a diventare il mondo virtuale stesso, come un novello Second Life che cerca di trasformarsi in First Life.

Sarebbe folle pensare a un social network pubblico che possa far concorrenza a Facebook; allo stesso modo, sarebbe folle pensare a qualche Stato capace di acquistare Facebook da Zuckerberg e renderlo di proprietà pubblica. Eppure, il problema rimane: un social network che aspira a diventare internet, per funzionare davvero come strumento per il bene pubblico, deve avere un qualche tipo di controllo da parte del settore pubblico.

Non voglio aprire scenari apocalittici: Zuckerberg non è il male, è solo il sintomo di un problema che non abbiamo affrontato in tempo. Internet non è più il regno oscuro dei nerd e degli hacker, il web non è più una nicchia di mercato come tante altre: è la più grande rete di comunicazione della nostra storia e al pari della sanità e dell’educazione non dovrebbe mai essere demandata unicamente al settore privato.

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Alessio Banini

Antropologo, scrittore, specializzato nel territorio della Valdichiana e nei contenuti web. Founder @lavaldichiana — alessiobanini@gmail.com