La birra di Dio
La chiesa degli ortodossi — così si fanno chiamare, i cristiani d’Etiopia, ma non confondeteli con quelli greci o russi — sono quattro mura spoglie in mezzo alle sterpaglie, ma all’alba della domenica si anima di una fede antica che porta donne e uomini di oggi età alla preghiera collettiva seguita dal consumo tutti insieme — nella chiesa stessa — di tella e dabo.
La prima è una sorta di birra acidula, insomma una bibita di cereali fermentati ma a bassissima gradazione alcolica, tanto che anche i bambini prendono parte al rito; viene servita, in grande abbondanza, colmando grossi bicchieri ricavati dalla buccia di zucca e beh sì, se dicessimo che il sapore è stato graditissimo a noi quattro europei mentiremmo un bel po’; ma almeno un sorso di cortesia ce lo siamo fatti tutti. Il dabo invece è semplicemente un pane di frumento, dalla consistenza morbida quasi come il nostro panettone. Non è di consumo quotidiano, qui, il frumento: fu introdotto dagli italiani al tempo del colonialismo ma in altitudine cresce meglio ed è molto più resistente il teff, dai grani piccolissimi e dalla cui farina nasce la injera, quella sorta di focaccia morbida e spugnosa che se avete mai cenato in un ristorante etiope avete di sicuro assaggiato, ricoperta di carne o verdure.
In chiesa, donne e uomini separati, come da noi neppure troppo tempo fa. Fuori, questuanti e malati, paralitici e amputati, a cercare di fare in qualche modo giornata.
Quando la cerimonia finisce, tutti si disperdono sotto il sole, chi con gli abiti della festa chi con gli stracci più logori.
La chiesa etiope, si sa, è antichissima (la conversione al cristianesimo avvenne nel IV secolo) e le controversie teologiche l’allontanarono dalla cristianità occidentale: il problema fu la questione della natura solo divina o anche umana di Cristo, e gli etiopi restarono monofisiti anche dopo il Concilio di Calcedonia. La conquista da parte degli arabi di tutto il Nordafrica (VII secolo) isolò poi i cristiani locali da quelli europei per altri otto secoli. Il sentimento religioso, specie qui in campagna, è ancora profondo e si manifesta anche nella croce che tutte le donne portano al collo, a volte in legno altre in metallo, ma sempre presente.
Qui a Wuchale però c’è anche una discreta comunità protestante evangelista:
fu fondata da un missionario statunitense poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale — o almeno così raccontano i suoi fedeli, che lo ricordano come Mister Bilizi. Di lui null’altro si viene a sapere se non che ha girato l’Etiopia per convertirla; il sacerdote locale sostiene che Mister Bilizi è ancora vivo ad Addis Abeba, ma diciamo che questa probabilità coincide poco con il resto del racconto, dato che quando venne qui negli anni Quaranta non era già più ragazzo. Ma pazienza, la discrasia temporale non sembra turbare nessuno e nella chiesa evangelista, come nelle sue consimili americane, la cerimonia è tutta un canto e un ballo, con gli “amen” finali urlati gioiosamente a gran voce.
Un’altra parte della popolazione di questa valle — ma non ci azzardiamo a proporre delle percentuali, viste le differenti cifre fornite da differenti fonti — è invece musulmana. Di certo qui attorno ci sono un paio di moschee e qualche donna con il velo aperto solo sugli occhi si vede, a camminare — accompagnata — in paese. Anche loro, proprio come quelle ortodosse o protestanti, hanno le spalle cariche di legni, di sacchi, di qualsiasi altra cosa che bisogna trasportare, perché qui le donne trasportano tutto, e se sei maschio o usi la moglie o usi l’asino, o entrambi.
Originally published at le-ragazze-di-wuchale.blogautore.espresso.repubblica.it on June 7, 2015.
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