Un paio di cose che so sulla Bielorussia

Andrea Castagna
7 min readAug 12, 2020

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La prima volta che ho viaggiato in Bielorussia era il 2010 ed era il mio primo viaggio all’estero. Ero partito come volontario per un progetto di sostegno a uno dei numerosi orfanotrofi del paese, nella regione di Vitebsk, a pochi chilometri dal confine con la Russia. Da quel viaggio, ne seguirono molti altri e la Bielorussia è diventata un paese a cui sono sempre stato legato. Per questo, parecchie persone mi hanno chiesto di questo paese sconvolto dalle proteste di piazza.

Credits: Tut.by

La Bielorussia è uno stato grande poco più del nord Italia, in cui vivono circa 10 milioni di persone. Dal 1994 è governata da Alexander Lukashenko, un ex dirigente di una fattoria collettiva sovietica e nostalgico della grandezza dell’URSS. Dopo essere stato eletto in maniera democratica con le prime elezioni della storia bielorussa, Lukashenko ha instaurato un regime dittatoriale e autoritario. Inoltre ha ripristinato i simboli e strutture della Bielorussia sovietica. Ad esempio, ha ricostituito il KGB o adottato l’attuale bandiera verde rossa (che è andata a sostituire la storica bandiera bianco rossa che è sventola oggi nelle piazze in rivolta).

Dal 1995 inoltre, la classe dirigente fedele a Lukashenko ha bloccato la creazione di una vera economia di mercato. Tutte le principali industrie bielorusse sono rimaste saldamente nelle mani dello Stato, come ad esempio la gigantesca Minsk Tractor Works, uno dei più grandi gruppi di produzione di macchine agricole al mondo. Anche l’agricoltura e i servizi sono saldamente in mano a funzionari fedeli a Lukashenko.

Per questo, un sistema di oligarchi non è mai realmente emerso in Bielorussia, a differenza di altri paesi post-sovietici. Le poche e rare forme di opposizione economica politica al regime dittatoriale non hanno portato a nulla e Lukashenko è da 26 anni soprannominato ironicamente “Batka” ossia una sorta padre-padrone della Bielorussia.

La storia recente del paese finisce sostanzialmente qui. Lukashenko è riuscito a conservare il potere grazie ad un rapporto privilegiato con la Russia e Vladimir Putin. Il Cremlino, nonostante qualche screzio minore, ha sempre garantito aiuti economici e sostegno al regime nei momenti di difficoltà. Anche l’esercito bielorusso è gestito in strettissima cooperazione con Mosca.

Questa vicinanza è testimoniata da molteplici aspetti culturali. Già dagli anni ’90, il regime ha bloccato la diffusione della lingua bielorussa a favore del russo. La lingua russa oggi è la lingua più parlata nel paese e praticamente l’unica nel campo degli affari economci, universitari e politici. Inoltre, l’unica università bielorussa libera del paese è stata costretta ad andare in esilio in Lituania e offrire principalmente corsi online.

Anche i rapporti con l’Unione Europea sono stati sempre ridotti. Il Consiglio Europeo e la Commissione Europea hanno provato inutilmente ad avvicinare la Bielorussia all’Europa. Ma, a differenza di altri stati come l’Ucraina o la Moldova, questi sforzi sono stati vani. Sia la popolazione bielorussa che Lukashenko si sono sempre dimostrati scettici sull’integrazione con l’UE. Tanto che Lukashenko ha sempre disertato i summit fra Unione Europea e paesi del Partnerariato Orientale.

Del resto, la Bielorussia è un paese unico al mondo. Nonostante nelle campagne la povertà sia diffusa e i livelli di alcolismo siano fra i più alti al mondo, la vita nei maggiori centri urbani scorre tranquilla. Il controllo capillare dei media nazionali e una produzione agricola fra le migliori al mondo post-sovietico hanno garantito ai bielorussi la percezione di uno stile di vita al riparo dalle preoccupazioni tipiche dei paesi post-comunisti.

Da 26 anni il Paese ha sostanzialmente vissuto una situazione di compromesso implicito: accettare l’autorità di Lukashenko in cambio di un livello minimo di sicurezza e stabilità. Per questo, la popolazione bielorussa, soprattutto tra le fasce più deboli, è rimasta indifferente alla situazione politica del proprio paese. In questa situazione, per un giovane medio le opportunità di lavoro nel paese sono offerte solamente dall’apparato statale (polizia, scuole professionali, esercito, aziende agricole) o dai grandi gruppi industriali fedeli a Lukashenko. Soltanto di recente, si sta sviluppando un settore tech nell’area di Minsk e dintorni che non è dipendente dal regime.

Credits: Tut.by

Due elementi però hanno turbato questo triste ed implicito patto fra il regime e i bielorussi. In primis, Lukashenko ha prima negato e poi minimizzato l’esistenza del Coronavirus. Batka ha affermato pubblicamente che bastasse un bicchiere di vodka o una sauna per guarire dal virus. Questo atteggiamento scellerato è stato avvallato da politiche sanitarie discutibili (la Bielorussia non ha implementato nessun lockdown) o addirittura controproducenti. Ad esempio, l’organizzazione della parata del 9 maggio per celebrare il giorno della vittoria sovietica contro l’Asse, evento che ha portato centinaia di migliaia di persone ad accalcarsi a Minsk.

Ovviamente, chiunque ha contatti in Bielorussia sa che strani polmoniti sono presenti nel paese da almeno metà gennaio. I numeri reali dei casi di Covid sono stati certamente nascosti e falsificati. Soprattutto nei villaggi, molte persone hanno dovuto affrontare la pandemia da soli e senza mezzi.

In secondo luogo, i rapporti con la Russia si sono raffreddati da ormai qualche anno. L’unificazione fra Russia e Bielorussia è stato un tema molto caldo della politica Bielorussa negli ultimi anni. L’idea di creare una confederazione tra i due paesi risale al 1999. Eppure l’annessione russa della Crimea e l’invasione del Donbas hanno portato Lukashenko a temere Mosca e i suoi piani di espansione. Non è un mistero che Batka voglia conservare gelosamente l’indipendenza della Bielorussia che garantisce status e potere. Anche la popolazione è generalmente contraria a stringere un’unione politica con Mosca.

Addirittura, dopo quasi due decenni, Lukashenko ha rispolverato pubblicamente elementi d’orgoglio nazionale, tenendo ad esempio discorsi in lingua bielorussa, apprezzati soprattutto dai pochi intellettuali del Paese.

Questo nuovo atteggiamento non è stato gradito da Mosca: Minsk è un tassello fondamentale del progetto Euroasiatico e il Cremlino teme che Lukashenko possa non essere più l’uomo giusto e fedele per guidare un prezioso alleato come la Bielorussia. Tutto ciò ha evidentemente ripercussioni sulla tenuta del regime.

In tutto questo contesto, si sono inserite le elezioni più sentite della storia bielorussa, che la stampa italiana ed europea ha celebrato frettolosamente come il confronto fra un vecchio dittatore contro tre donne: Svetlana Tikhanovskaya (la principale candidata), Maria Kolesnikova e Veronika Tsepkalo.

In realtà, le tre donne hanno tutte raccolto un candidatura altrui. Tikhanovskaya è stata candidata dopo l’arresto del marito Serghey, un blogger dissidente emerso sulla scena nazionale proprio durante la crisi del Coronavirus. La fuga di Svetlana in Lituania, dopo le elezioni, non deve quindi sorprendere. Nè Svetlana nè Serghey (attualmente in carcere) sono politici di lungo corso e non hanno le spalle coperte per sfidare un regime come quello di Lukashenko.

Diverso il caso della altre due donne, che rappresentano altri candidati a cui è stato impedito con la forza di partecipare. Veronika Tsepkalo ha preso il posto del coniuge Valery Tsepkalo, un miliardario ed ex-diplomatico con contatti nel settore informatico sia negli Stati Uniti (dove è stato ambasciatore) sia a Mosca, dove è attualmente rifugiato.

Kolesnikova è invece la portavoce di Viktor Babariko, un banchiere che è stato in passato molto vicino a Lukashenko. Babariko è stato CEO della banca di Gazprom in Bielorussia ed è stato arrestato per questioni finanziarie legate alla sua professione. Nonstante sia attualmente detenuto, era e rimane sicuramente l’avversario più pericoloso per Lukashenko: Babariko è una figura conciliante e presentabile sia per i contatti stretti con il Cremlino sia perchè è estremamente popolare in Bielorussia (i sondaggi indipendenti lo davano oltre il 50% prima delle elezioni). Ad oggi Babariko rimane in carcere, ma è chiaro che Lukashenko non possa tenere un alto dirigente di Gazprom in prigione per sempre.

Ciò non toglie che, ad oggi, l’opposizione in piazza non ha nè un leader nè un chiaro piano per il futuro del paese. Nonstante i brogli elettorali, palesi ed evidenti per chiunque, il futuro appare nebuloso. I manifestanti appaiono soli e mal organizzati e alla mercè della brutalità della polizia. Al momento, l’unica loro richiesta è che Lukashenko lasci il potere che detiene da 26 anni. Richiesta che Batka non è disposto a prendere nemmeno in considerazione.

Inoltre, a differenza del Maidan ucraino, i manifestanti non hanno un riferimento nell’Unione Europea o al di fuori dei confini nazionali. Anzi, la stessa UE in queste ore si è dimostrata poco interessata alle vicende interne di un paese con cui, sostanzialmente, non ha legami nè politici nè economici.

Diverso il caso della Polonia e dei paesi Baltici, che per motivi storici e geografici sono molto interessati alla questione bielorussa. In particolare, la destra polacca è molto interessata alle rivolte, dato che la Seconda Repubblica di Polonia (1918–1939) si estendeva su metà dell’attuale territorio bielorusso e la Chiesa Polacca ha una forte influenza sui quasi 1.5 milioni di cattolici bielorussi.

Ma mentre il popolo bielorusso domanda a gran voce più democrazia, a muovere le pedine e a decidere il destino di Lukashenko sarà con ogni probabilità il Cremlino. Il quale non ha certamente nessuna intenzione di rinunciare al controllo della Bielorussia.

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