Il terribile primo secolo a.C. (II parte)

Aneddotica Magazine
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8 min readMar 29, 2018

BREVE CORSO DI STORIA ROMANA

Cesare e Crasso, quindi, si sostenevano a vicenda: Cesare ci metteva prestigio familiare e popolarità personale (era divenuto elemento di punta del partito — factio — popolare, dopo la sciagurata avventura di Catilina), Crasso il denaro, ricco sfondato com’era, da non sapere quanto grande fosse il suo patrimonio.

Cesare Pompeo e Crasso s’erano incontrati a Lucca, dando vita al primo triunvirato, illegale in quanto al di fuori delle leggi romane. Ed avevano stabilito l’assetto da dare allo Stato (sarebbe come se oggi in Italia si facessero patti della crostata, cene ad Arcore, a palazzo Grazioli, e non nelle sedi istituzionali, ed il parlamento fosse chiamato solo a ratificare le decisioni colà prese, o a votare che Ruby poteva ben essere la nipote di Mubarak. O non è così?). Cesare si fece assegnare la provincia della Gallia, che, però, in quel momento era poco più del nord Italia. Pareva una scelta modesta, defilata, ma, come sempre, aveva fatto i suoi calcoli, che si rivelarono esatti.

Nel giro di otto anni conquistò l’intera Gallia e zone limitrofe, e fece capire con maniere piuttosto sbrigative ai britanni ed ai germani che ora avevano un nuovo e terribile vicino, e quindi che si dimenticassero di sconfinare, come avevano fatto finora. Si era dotato, nel fare ciò, di un esercito addestrato e ciecamente a lui fedele; si era procurato una fama straripante a Roma, dove il Populus gongolava per le sue conquiste; aveva mandato a Roma una interminabile quantità di ricchezza, il bottino razziato tra i galli. Ed era questo il suo disegno: un esercito personale forte e fedele, il favore del popolo, e ricchezza personale abbondante. Quando lo capirono, era tardi. Memorabile la presa della città di Alesia, che sanciva la fine della conquista in Gallia: vi si era asserragliato Vercingetorige, capo dei galli, nella prospettiva di un intervento in massa degli altri galli. Arrivarono i romani, che assediarono Alesia. Vercingetorige, per prolungare la resistenza, voleva liberarsi di bocche da sfamare inutili alla guerra, e fece uscire dalla città donne vecchi e bambini, ma Cesare li rimandò dentro. Arrivarono i galli ed assediarono Cesare che assediava Alesia, proprio la situazione temuta da Annibale, e che lo aveva dissuaso dall’assediare Roma. Ma Cesare era Cesare: divise a metà le sue truppe, e con una metà continuava l’assedio e con l’altra respinse quelli che lo circondavano. Vercingetorige si arrese. I soldati romani avevano fatto due blocchi, lasciando un passaggio in mezzo, ed il capo gallo vi transitò a cavallo ed armato. Alla fine del passaggio Cesare sedeva su uno scranno, impassibile come suo solito. Vercingetorige gli arrivò vicino, scese da cavallo e mise le armi ai piedi del vincitore in segno di resa. E Cesare lo fece giustiziare. I galli si chiamavano Vercingetorige, Orgetorige, Vercassivellauno, e non Asterix o Obelix, e, per decisione di Cesare, sono latini, per lingua e cultura e temperamento, anche se verso di noi italiani hanno l’atteggiamento di Gastone con Paperino (citazione dotta sull’esempio di Minniti).
Intanto a Roma la situazione politica si chiariva e si avviava a precipitare. Ormai, come era successo per Mario e Silla, si fronteggiano due fazioni: i populares, con Cesare alla loro testa, e la fazione senatoria, schierata con Pompeo (e Cicerone). E la parola passò alle armi. “Il dado è tratto”, avrebbe detto Cesare attraversando armato il Rubicone, il fiume che segnava il confine nord del territorio romano. Ed entrò trionfante a Roma, che i suoi avversari avevano precipitosamente abbandonato, per radunarsi in Grecia. Lì li raggiunse Cesare, e la parola passò alle armi. E Cesare ancora una volta vinse, a Farsalo, nel nord greco. Pompeo scappò e si rifugiò presso Tolomeo XIII, faraone ragazzino d’Egitto, che, mal consigliato, fece uccidere il suo ospite, la cui testa presentò a Cesare, quando questi arrivò. E come ti sei permesso di ammazzare così un romano, e per giunta così valoroso? Cesare detronizzò Tolomeo, e sul trono mise la di lui sorella, Cleopatra.

Già che si trovava lì, fece una puntatina nella regione del Ponto (mar Nero), di cui sbaragliò il re, Farnace, comunicando la cosa a Roma con qualcosa di simile ad un telegramma o a un messaggino: “Veni vidi vici”, sono venuto ho visto ed ho vinto. Solo Garibaldi avrebbe saputo fare meglio, una sola parola: “Obbedisco!”. Cesare aveva comunicato l’essenziale, sicuro com’era che il resto ce lo avrebbero messo nelle taverne, nei crocicchi, nei mercati, in TV, sui giornali. E la sua figura — ne era certo — sarebbe uscita ingigantita. Del resto era un maestro anche nella propaganda. Nei suoi Commentarii de bello gallico, infatti, non dice: “Io ho detto, io ho fatto”, ma: “Cesare ha detto, Cesare ha fatto!”, come se parlasse di un altro, come se lui non c’entrasse, come se osservasse se stesso dall’esterno, obiettivamente. Ed invece l’opera è un capolavoro di propaganda, tanto più geniale, quanto più camuffata: ti fa arrivare a delle conclusioni, che paiono tue, ma te le ha insinuate LUI, zitto zitto… Geniale nello scrivere (insieme a Cicerone, il classico dei classici), geniale sul campo di battaglia, geniale in politica, astronomo geniale, se il nostro calendario è ancora sostanzialmente il suo, con l’anno bisestile. Calendario giuliano, in uso presso alcuni ortodossi.

Ma un errore l’ha commesso in politica e gli è stato fatale: non ha calcolato il fanatismo ideologico. Così un gruppo di giovani, forse incoraggiati da Cicerone, gli rifilò 23 pugnalate, il 15 marzo (giovedì scorso) del 44 a.C., 2062 anni fa, e lo tolse di mezzo. Erano imbevuti di filosofia stoica, secondo la quale il massimo dei valori della vita è la virtù, ma questa non la si può raggiungere, se manca la libertà politica. E Cesare aveva esattamente fatto questo, soppresso la libertà democratica e repubblicana. Ma era l’esecutore materiale ed ultimo di un processo, che si rintraccia molto lontano, nell’opera e nella figura di Appio Claudio nel IV secolo, in quelle di Scipione, nel secondo secolo, ed infine in lui, Cesare, un processo che aveva dilatato le distanze tra ricchi e poveri, tra patrizi e plebei, e SPQR si stava irrimediabilmente perdendo il Populus, che non se n’avvedeva, proteso com’era ormai alla ricerca dell’uomo della provvidenza, che gli risolvesse i problemi. Idioti! Il Populus i suoi problemi o se li risolve da sé, o finisce male. E in tutti tempi, anche oggi!

Quando aprirono il suo testamento, Cesare ancora una volta spiazzò tutti: si aspettavano di trovarvi Marco Antonio, il suo braccio destro, indicato come erede, ed invece vi trovarono scritto il nome di Ottavio. Ottavio? E chi è? Boh! C’è un Ottavio mezzo nipote di Cesare, ma non può essere: quello è un ragazzino, e sta in Grecia a finire gli studi. Ed invece era proprio lui l’esecutore testamentario: divenne figlio adottivo del grande Cesare, ne assunse quindi il nome, Caio Giulio Cesare, ed il suo divenne Ottaviano, secondo l’uso romano.

La volontà di Cesare andava rispettata, non scherziamo! Ma, data la giovane età (18 anni), le due fazioni (senatoria e popularis) pensavano di metterselo in tasca. I cesariani si erano spaccati in due blocchi: i fedeli a Cesare, che si schierarono con Ottaviano, e gli altri con Antonio. Seguì la guerra di Modena, tutti contro tutti, e poi la pace di Brindisi, e la costituzione del II triunvirato: Ottaviano, Antonio e Lepido. Tornarono le liste di proscrizione, e Cicerone, inutilmente protetto da Ottaviano, era il primo della lista di Antonio: fu decapitato l’8 dicembre 43 a Formia, mentre cercava la fuga in mare. Secondo gli accordi, Lepido fu fatto Pontefice Massimo e con ciò messo in disparte; Antonio si prese l’incarico di sistemare le cose in oriente, e si trasferì ad Alessandria da Cleopatra, lasciando al giovane rivale una bella gatta da pelare, Roma l’Italia e l’occidente. Nel 41 la guerra di Perugia, Ottaviano sconfigge Lucio Antonio, fratello di Marco, con successiva distribuzione di terre ai veterani, confiscate ai legittimi proprietari (ci rimise pure Virgilio). La cosa acuì il malumore degli italici, e complicò una situazione molto difficile già di suo per Ottaviano: in Sicilia, Sesto Pompeo, figlio del rivale di Cesare, con la flotta bloccava tutti i transiti, e stava strozzando l’economia italica romana ed occidentale. Ma nel 36 a.C. la flotta di Ottaviano, guidata da Marco Agrippa (costruttore del Pantheon), nelle acque sicule di Nauloco sbaragliava quella di Sesto, che si faceva chiamare dux neptunius. L’evento capovolse la situazione a vantaggio di Ottaviano, che divenne il beniamino di Roma Italia ed Occidente. Si andava profilando uno scontro non solo personale, ma di culture, occidente europeo, austero laborioso e severo, contro oriente asiatico, molle vizioso effeminato. Fu facile per Ottaviano mettere in cattiva luce il rivale: è succube di una donna, vuol trasferire la capitale da Roma ad Alessandria, aspira alla monarchia. Orazio in un suo componimento dice che, per colpa di Antonio, al sole tocca uno spettacolo ripugnante: le gloriose armi di Roma sono agli ordini di una femmina; nell’accampamento militare, emblema della virilità, si vanno diffondendo le zanzariere; ed il rude soldato romano è comandato da eunuchi incartapecoriti! Che schifo!

La battaglia navale di Azio (31 a.C., sempre per opera di Agrippa) risolse la questione: Cleopatra se la svignò, Antonio le andò dietro e si suicidò, credendola morta. E lei tentò di infinocchiare Ottaviano con le moine, come le era riuscito con Cesare ed Antonio. Ma Ottaviano era di altra tempra. Quando lei capì che lui intendeva portarla a Roma ed esibirla nel trionfo sotto gli occhi impietosi dei romani, si fece mordere da un serpente (forse non un aspide, ma un cobra).

Ottaviano tornò trionfante a Roma. Lo tentarono più volte con la corona di re. Ed alla fine (27 a.C.) assunse, con finta modestia, la più umile delle cariche: tribunicia potestas (tribunato della plebe). Con l’aggiunta di “perpetua”, a vita. Il tribuno della plebe era per legge sacro ed inviolabile ed aveva il diritto di veto: insomma il tribuno della plebe Ottaviano era in grado di bloccare tutto ciò che non gli garbava, essendo nell’occasione divenuto Augustus, che vuol dire Accresciuto. Lunghissimo sarà il suo principato, autocratico ma attento alla forma: aveva restaurato le antiche magistrature repubblicane, riconsegnandole ai senatori, insomma aria fritta; alla plebe diede tanta propaganda e magnificenza (ho ereditato una città di legno, e l’ho riconsegnata di marmo). Chi trasse il massimo beneficio fu la classe equestre, cavalieri, trafficanti, usurai e mercanti, a cui aveva garantito un impero finalmente pacificato. Un secolo abbondante di guerre civili, di stragi, di ammazzamenti, di confische, aveva sfinito gli abitanti dell’impero. L’attesa di un Salvatore ormai era spasmodica. Ed Augusto tale apparve. Ma la democrazia, che aveva fatto e governato Roma, era morta per sempre. Ed il conto arriverà salato. In ritardo, ma inesorabile, come una cartella di Equitalia.

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