#JeSuisCharlie, l’attivismo e la polis

Angela Gennaro
3 min readJan 8, 2015

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No, mi dispiace. Quello che è successo ieri a Parigi riguarda tutti noi, in prima persona. Come giornalisti, come attivisti, come cittadini.

Riguarda ogni cittadino in qualità di appartenente ad una società e ogni essere al mondo con diritti, doveri e identità all’interno dell’organizzazione umana. È una questione politica, se ancora ricordiamo almeno un po’ cosa polis voglia dire.

Quello che è successo ieri a Parigi riguarda ogni nostra battaglia di civiltà. Ha a che fare con tutte le lotte, anche con quelle con cui non siamo d’accordo o quelle che sembrano non c’entrare nulla. Riguarda l’attivismo in modo quasi banale, e lo riguarda anche quando quell’attivismo non si occupa di libertà di espressione, di libertà di stampa, di libertà di satira e di libertà di religione. Perché qualsiasi attivismo si occupa prima di tutto — o si dovrebbe occupare — di rispetto dell’altro.

Libertà di espressione, di religione e di satira sono l’humus in cui qualsiasi attivismo vive. La base minima di ogni battaglia per cui ci si possa sporcare le mani.

Scene di guerra a casa nostra ci ricordano semplicemente che il terrorismo non è mai una risposta. Mai, nemmeno per noi che ne facciamo spesso con stile diverso e poi lo mascheriamo da lotta per la civiltà. Ci ricordano che la follia di uomini armati di kalashnikov, freddi, militari e assassini è tale ovunque accada. A me ricorda che in troppi posti del mondo quei kalashnikov sono la quotidianità a cui assisti per strada.

Possiamo decidere che non ci piacciono, che ci offendono, che sono troppo, che provocano, che se la sono cercata, che le diffonderemo o non le diffonderemo. Questo sta al singolo. E al singolo sta valutare quelle vignette di Charlie Hebdo. Rigettarle, arrabbiarsi, adorarle. All’organizzazione di news il compito se scegliere di diffonderle: ognuno ha la propria policy, e le proprie ragioni.

Ma per mano delle matite di Charb, Cabu, Tignous, Wolinski (che oggi tutti nominano, come se li conoscessero da sempre, e non importa che non sia vero) non è morto nessuno. Nessuno tranne loro.

E questa è una questione di libertà in cui siamo tutti coinvolti, qualunque sia il nostro mestiere. Ancor più, io credo, se sei un giornalista o un attivista: categorie assai diverse, che possono anche coincidere ma che certo a diverso titolo sono coinvolte dalla testa ai piedi in questa storia. Ne va della loro credibilità e della loro etica.

L’attivismo moderno, la militanza, il coraggio di agire costituiscono oggi una delle più grandi sfide dei nostri tempi. Ci mobilitiamo per quello in cui crediamo? Il rischio delle rivoluzioni dal divano di casa ha già fatto buttare tonnellate di inchiostro virtuale, quasi quanto la paura dei social media sui giornali e tra giornalisti. Io ci vedo nel buono nella diffusione, ci vedo del buono nel non silenzio, qualunque azione esso porti, virtuale o fisica, anche minima.

Ci vedo del buono nel grande ruolo di responsabilità che la Rete ci pone in termini di informazione e di attivismo.

Quello che resta è l’immane buco nero che troppo spesso e da troppo tempo le istituzioni — europee e italiane in testa — scelgono in termini di formazione, cultura, dibattiti. Consapevolmente. Quanto nessuno si prenda la briga di impostare la società in modo migliore fin dai luoghi della formazione primaria.

È questo che alimenta terrorismo, ignoranza, fondamentalismo, violenza e odio reciproco. E vale per la violenza di genere come per la corruzione, per il fondamentalismo religioso e per il non rispetto degli altri.

È per questo che #JeSuisCharlie. È per questo che siamo tutti coinvolti.

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