Sciascia e la distruzione della memoria

Salvatore Sanfilippo
6 min readDec 14, 2018

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Sotto consiglio di un amico ho guardato il video di una conversazione su Sciascia, a trent’anni dalla sua morte. I due giornalisti trattano diversi temi, ma il motivo per cui ho ricevuto il video è un passaggio in particolare, in cui si riporta un pensiero di Sciascia sui computer e la distruzione della memoria. Sciascia che esprime quel giudizio è un argomento per me interessante, per cui ha intuito bene chi me lo ha spedito. Credo che il tema della memoria fosse importante per gli intellettuali di quel tempo e di quella generazione, tant’è che viene anche tirato fuori da Pavese in una intervista che per ora gira su Facebook, in cui lo scrittore consiglia di imparare poesie a memoria per contrastare la decadenza culturale. Dopo gli anni ’80 era ormai chiaro come non fosse più possibile pensare alle cose per lungo tempo: il mondo era diventato frenetico e già abbastanza interconnesso da svelare cosa sarebbe accaduto. L’intellettuale che si focalizza su un problema per anni, cercando di trovarne i capi e le interconnessioni con tutto il resto, era una immagine ormai del passato. Forse la memoria costituiva l’ultimo appiglio per resistere alla velocità e al risultato immediato, ma imperfetto, poco longevo, distratto.

La valutazione di Sciascia sui computer nemici della memoria non poteva prescindere da quello che Sciascia pensava fosse un computer. Perché non bisogna dimenticare che Sciascia probabilmente non aveva alcuna idea di cosa, davvero, fosse un computer. Ne osservava al massimo l’immagine riflessa e lontana delle sue applicazioni di quel tempo: la video scrittura, in cui potevi scrivere e poi cancellare, e poi scrivere ancora e cambiare tutto senza che ne rimanesse traccia. Nessun foglio cestinato o segno di bianchetto. O l’idea delle enormi basi di dati, in cui potevi tirare fuori tutto partendo da un nome o da una parola. Vuoi sapere tutte le volte in cui il nome Bonifacio viene citato nella Divina Commedia? Ti basta digitare quel nome e senza alcun ausilio della memoria vedrai tutti i riferimenti. Ad uno scrittore di quel tempo tale prodigio doveva risultare ben vano: senza la memoria, dei versi in questo caso, leggendo un altro libro o durante una discussione non ci saranno collegamenti possibili. Alla pretesa della memoria infinita del calcolatore c’era dall’altra parte lo spettro dell’ignoranza materiale.

Questo stesso processo culturale si è ripetuto più volte nel corso della storia. Immaginate i cultori della tradizione orale di fronte all’invenzione della scrittura. Storie sempre uguali che non si arricchiscono ad ogni nuova narrazione. Scribi ricurvi impegnati a scrivere per ore, come topi, al lume di candela, rovinandosi la vista e la schiena con quelle penne in mano, che sembra di parlare dei teenager chini sui cellulari. Libri con idee pericolose che prima bastava non dire: ora giacciono immutabili sulle pagine, pronte a contaminare gli animi più puri.

Il limite di Sciascia e di gran parte degli intellettuali che non si sono ibridati con l’informatica nasce dalla poca capacità di analisi del fenomeno, se non declinato come applicazione pratica. E’ come pretendere di analizzare la poesia studiando i testi delle canzoni della top ten. In realtà programmatori e scrittori sono in qualche modo colleghi. Tutte e due le categorie scrivono, e continuamente anche leggono, sia ciò che loro stessi hanno scritto che le opere scritte da altri. Tuttavia la scrittura dei programmi è un processo iterativo che non ha fine, e bisognerà per sempre rileggere quel codice per capirlo e modificarlo nuovamente. Ma così come per la scrittura tradizionale, non c’è una regola ingegneristica per scrivere un programma: la sensibilità del singolo programmatore lo indirizzerà verso un tipo di scrittura o un altro. Una differenza chiave sta nel fatto che i programmi sono scritti sì per essere letti da altri programmatori, che a volte impareranno da essi e li considereranno eleganti o confusi e sgraziati, ma anche per essere poi eseguiti dai computer in modo da produrre un risultato. Così come l’edificio progettato da un architetto deve avere come fine ultimo la capacità di ospitare al suo interno degli esseri umani, eppure l’architettura va oltre tale fine, così accade con l’informatica. Questo processo però è ben più opaco rispetto ad altre attività umane, e viene capito da pochi. Gli altri scambiano la programmazione per una attività ingegneristica commettendo un errore profondo.

Questa cecità non è comune a tutti gli analisti che osservano dall’esterno. Umberto Eco, sapendo scrivere dei programmi e avendo compreso di cosa si trattasse davvero, osa inserire dei frammenti di programma BASIC dentro un libro di narrativa, nel Pendolo di Foucault. Il programma, che viene eseguito sul portatile del personaggio Belbo, serve proprio ad arrangiare un testo in maniera diversa: la connessione tra scrittura e programmazione è troppo chiara per essere casuale.

Il tema della memoria è presente all’interno del mondo della programmazione come in pochi ambiti, tra cui la letteratura stessa. Da decenni svariati team di programmatori scrivono nuove “demo”, programmi che creano delle opere d’arte visuali, producendo grafica e suoni, per computer del passato, come il Commodore 64 o il GameBoy originale, vecchi quasi quarant’anni. Esiste un florido genere musicale in cui la musica viene prodotta solo con chip ad 8 bit. C’è anche una scena di programmatori e artisti che modifica le memorie di giochi antichi in modo da cambiarne le ambientazioni, la grafica ed il gameplay. In pochi ambiti come in quello informatico si è conservata la storia del passato della disciplina, che è allo stesso tempo giovane e per propria natura completamente archiviabile. Ma archiviarla sarebbe futile e fine a se stesso: i programmatori ricordano il passato attivamente e ne traggono ispirazione. Le storie leggendarie della nascita dell’Apple I somigliano ad una narrazione epica per chi fa parte di questo ambiente.

La programmazione è cosa ben diversa dall’informatica di consumo vissuta dalla popolazione digitalmente illetterata. Tra gli addetti ai lavori, l’informatica conserva la memoria con grande rispetto e guarda indietro così come guarda in avanti. La programmazione è uno dei processi culturali umani più importanti mai accaduti, e a dispetto dei suoi effetti nel mondo reale, solo pochi addetti ai lavori ne capiscono il senso e la portata. Ma non basta. Sono convinto che anche gli effetti stessi dell’informatica, la sua applicazione nella vita delle persone comuni, sia costantemente demonizzata come se fosse un fenomeno complessivo, valutabile in toto.

I social network costituiscono per la prima volta un luogo in cui la gente comune scrive. Non si era mai vista prima per un adulto che avesse finito la scuola dell’obbligo e facesse un mestiere lontano dalle lettere la necessità di scrivere. Dai messaggi privati composti a volte con cura, alle stupide (se decontestualizzate) frasi di autori famosi copiate su Facebook, la gente ha realizzato l’importanza che ha la scrittura. Ci stiamo persino riappropriando della grammatica, e non bisogna avere nelle proprie cerchie dei professori di Italiano per essere richiamati per aver scritto qual è con l’apostrofo. Tra i ragazzi, nei gruppi Whatsapp, essere fighi è una questione di parole e idee. Avere il gel e il bomber giusto non basta più: non si può prescindere dalla scrittura per stare al mondo.

Sciascia probabilmente era preoccupato di vedere la distruzione del suo mondo, e alcune dinamiche della nuova società connessa e più aperta al pensiero di chiunque sono difficili da accettare. Lo stesso Eco le ha criticate duramente prima di morire, e a ragione. Tuttavia è difficile credere che i limiti risiedano nel mezzo. La scrittura, i computer e poi internet sono degli strumenti con i quali è possibile articolare dei processi culturali. Io sono dell’idea che più che un istupidimento collettivo quello che sta accadendo oggi è che sono state girate le carte. Ora è finalmente possibile sapere cosa pensa l’uomo della strada, ma quello che pensava prima non era più confortante, e cambiare quella idea era molto più complesso con una società a compartimenti stagni di come lo sia ora. Il problema è semmai che prima si pensava a ciò che si voleva, ma poi ci si affidava alla verità ufficiale, mentre oggi, come dice un mio amico, uno vale zero. D’altra parte forse è il caso di guardare a Sciascia, non solo come scrittore, ma come uomo, anche se magari uomo scettico, per avere una guida attraverso il futuro. Bisogna avere il coraggio di non farsi distrarre, di rimanere rigidamente attenti al proprio lavoro e di rispettarne i tempi anche quando appaiono inaccettabilmente lunghi. Bisogna abbandonare l’idea che si rischia di perdere arrivando per ultimi: non è più vero in un sistema dove la qualità è così rara. E fare lo sforzo di trovare idee nuove e prospettive diverse.

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Salvatore Sanfilippo

I believe in the power of the imagination to remake the world -- J.G.Ballard