L’ultima parola su Marina Abramovic (non è la mia).
Difendere Marina Abramovic in questi giorni sui social media mi è quasi costato delle amicizie. Quelle perse per questo motivo non le considero più neanche tali. Difendere Marina Abramovic in questi giorni mi ha inimicato una certa schiera di opinionisti e giornalisti della giovane sinistra (soprattutto milanese e romana) che hanno i loro spazi assegnati da quando hanno compiuto la maggiore età, e scalpitano se il diritto di replica minaccia il loro assunto diritto a un’opinione forte.
La verità mia però è che non sono interessata a difendere Marina Abramovic: a farlo ci pensa benissimo lei per sé, con tutti i suoi privilegi (innati e raggiunti). Quello che mi è a cuore difendere è la scelta di una donna (nel particolare qui, di un’artista) di adoperare il proprio corpo come meglio crede.
Le dichiarazioni di Abramovic sullo stato dell’arte e sulla maternità sono certamente discutibili, ovvero sono legittimamente divenute motivo di discussione tra terzi, essendo lei un’artista fortemente rispettata (e/o bistrattata) a livello internazionale. Che le dichiarazioni di una donna (*anche se cis, bianca e privilegiata) scatenino tanto dibattito entro e oltre l’ambiente dell’arte mi esalta sempre, e lo trovo un momento importante. Da qui in avanti prego chiunque stia leggendo di tenere conto di quanto segue: ogni cosa che si dirà si concentra sulla Abramovic in quanto tale e senza volerne tessere lodi oltre i risultati ottenuti; questo vuole dire anche esprimere un giudizio sulla questione limitata all’esperienza (che abbiamo potuto osservare) della Abramovic stessa, e quindi con dei limiti all’intersezionalità evidentissimi (di etnia, classe, etc). Spero possiate accettare queste premesse (ma non per questo ignorare che la mia più evidente immedesimazione con le caratteristiche dell’artista prima elencate comportino in me limiti molto simili, e quindi ben accette sono osservazioni in merito che espandano il mio sguardo). Oltretutto, discussioni simili le ho avute solo in lingua italiana con chi ha condiviso o addirittura ha scritto gli articoli che mi hanno, per un motivo o per l’altro, fatta rabbrividire, e per questo motivo solo ad articoli in lingua italiana voglio fare riferimento.
Ho deciso di riportare la mia esperienza di lettura e conversazione sull’argomento con due donne (come me bianche, educate, e di simile background culturale), perché quando queste cose le dicono le donne spero sempre che la sorellanza saprà sovrastare le incomprensioni. In questi due casi specifici non è avvenuto, e anzi sono ad oggi bannata dai loro profili e marchiata a fuoco come insolente, attaccabrighe, non benvoluta.
La prima è una collega di studi liceali, che ha poi militato nel partito radicale e acquisito da poco il titolo di giornalista. L’articolo che decide di condividere è quello dell’Huffington Post (a firma di Ilaria Betti) che intitola “Marina Abramovic rivela di aver abortito tre volte per non rinunciare alla carriera: “Un figlio sarebbe stato un disastro””. L’articolo non è tra i peggiori, anzi sembra riportare quanto più fedelmente le parole dell’artista. Sono le parole con le quali la mia compagna di classe commenta l’accaduto, però, a spaventarmi terribilmente. Della lunga discussione protrattasi tra i commenti alla notizia, di cui ricordo riferimenti all’incapacità di amare della Abramovic, del suo essere irriverente a ogni costo e andare così contro natura, addirittura di un “magari avessero pensato i suoi genitori che non fosse il caso avere bambini”: ecco, di tanta sciatta violenza verbale quello che mi colpisce è l’asserzione dell’autrice dello status su Facebook, che dice (riformulo qui): usare l’aborto come anticoncezionale è vergognoso.
Abramovic è un’artista di 69 anni che ha dichiarato 3 aborti, e anche solo mettendo accanto questi numeri così perfetti da far invidia a Dante Alighieri mi domando come si possa pensare che questi aborti siano il frutto di un approccio superficiale al rapporto sessuale eterosessuale penetrativo. La mia compagna di liceo insiste però a insistere sull’argomento.
Un’amica (quantomeno su Facebook) della mia compagna di classe solleva inoltre un elemento di contestualizzazione da non ignorarsi:
Laura
E come se gli anticoncezionali erano permessi solo alle donne sposate e lei non lo era?
Giulia
Esiste il coito interrotto, funziona ed e’ gratis.
Oltre l’inconcepibile e dannosa, a mio avviso, seria convinzione con la quale questa persona ha precedentemente sostenuto che Abramovic avesse praticato sesso incautamente, addirittura approfittando della possibilità di accedere all’interruzione di gravidanza in maniera legale e ospedalizzata, Giulia sostiene una menzogna gravissima.
Come si può tollerare che una ventottenne, ricca e altamente istruita, con addirittura l’accredito giornalistico, scriva una cosa simile?
Si aprono tre (ed eventualmente ben più) diversi argomenti:
1) il coito interrotto come metodo anticoncenzionale
2) l’accesso gratuito ai metodi anticoncezionali
Se è vero che il coitus interruptus è riconosciuto come secondo metodo anticontraccettivo più efficace, è vero anche che questo non protegge da alcuna malattia venerea trasmissibile (e quindi a mio personalissimo avviso, oggetto di discussione da trattarsi con ben meno superficialità di quella adottata da Giulia). La scelta di farvi affidamento risulta comunque efficace solo nel caso di totale affidabilità del partner: la tempestività con la quale il pene dev’essere estratto dalla vagina richiede una certa confidenza col proprio corpo; inoltre, i fluidi pre-eiaculatori contengono sperma a loro volta, rendendo spesso anche quella tempestività sopra detta del tutto inutile.
La saccenza con la quale questa opzione viene promossa da Giulia è propria del suo status. Sottolinearne la gratuità come elemento ironico è proprio di chi, invece, può fortunatamente accedere a metodi contraccettivi altri. Il contesto socio-economico e culturale di Giulia le consente non solo di gestire diverse opzioni per il proprio corpo (prima, durante, e dopo il rapporto sessuale) ma anche di sentirsi forte nel suggerire questo incerto metodo. La disinformazione in Italia (e nel mondo) delle giovani (e meno giovani) donne rispetto al loro corpo è tristemente sostenuta da questi interventi pubblici, e mi addolora ancora di più quando sono delle donne a condannare chi accesso a queste informazioni non l’ha avuto a una immobilità culturale sull’argomento.
L’affidabilità di qualunque metodo contraccettivo è discutibile, vero è che se ci fosse una maggiore e più trasversale conoscenza dei pro e dei contro, delle diverse possibilità, e un più facile accesso alle stesse, le gravidanze indesiderate si ridurrebbero drasticamente. L’accesso ai metodi anticoncezionali quali la pillola, anelli vaginali, o gli stessi preservativi sono spesso resi difficoltosi socialmente dall’inibizione scaturita dal silenzio sull’argomento, così come dai prezzi per molti proibitivi (vedi Appendice di questa relazione sui rischi legati all’assunzione della pillola per un elenco dei prezzi delle pillole anticoncezoinali più utilizzate in Italia; per i profilattici basta fare una ricerca rapida nel web (ho usato la marca Durex per il semplice fatto che è la prima che mi è venuta in mente) e il costo si aggira attorno a 1 euro per preservativo).
Pochi giorni dopo mi capita di incorrere nell’articolo de LINKIESTA che intitola un commento alle dichiarazioni di Abramovic “L’errore di Marina Abramovic”. Ho sentito stridere fortissimo quella parola come unghie sulla lavagna, mentre l’autrice del pezzo mi sembrava prepararsi a dare una lezione ad Abramovic. A seguire però vengono giudicate, con Abramovic, tutte quelle donne con “sindrome di Erode”. Non ci ho più visto dalla rabbia: scegliere consapevolmente di non avere figli equivale a sostenerne l’omicidio? Perché questo è quel che suggerisce il titolo.
L’interruzione di gravidanza è già dal titolo considerato assassinio, e alla stregua di Erode: Abramovic ha mietuto vittime innocenti.
Il sottotitolo ci anticipa che molte donne nelle arti hanno saputo coniugare sapientemente la maternità e la produzione artistica, ed asserisce quanto segue: Ecco perché la maternità non è mai un ostacolo all’arte, anzi.
Incredula di poter finalmente trovare risposte a domande che non mi ero mai posta, ho proseguito la lettura dell’articolo già molto spazientita. Il testo riporta una traduzione delle dichiarazioni di Abramovic e prosegue citando Tracey Emin (considerata oggi una delle artiste più influenti del mondo) e la sua analoga scelta di attraversare i quaranta senza fare bambini, in libera e provocatoria scelta: «i bravi artisti che hanno figli ci sono e si chiamano uomini», riporta l’articolo le parole di Emin.
Simonetta Sciandivasci si accanisce contro le dichiarazioni di Abramovic non in maniera di contenuto, bensì per la spendibilità odierna a suo parere: «il gender gap non c’entra niente», sostiene, e anzi Abramovic sta costruendo un «manifesto estetico». La discussione sull’efficacia delle opere di Abramovic dopo aver raggiunto una certa notorietà è argomento di dibattito in diversi campi di ricerca oltre che d’opinione, e qui l’autrice dell’articolo mi trova personalmente in profondo disaccordo (e anche moderatamente come studiosa dell’argomento). La differenza d’opinioni però non mi preoccupa (ne avrei volentieri discusso più pacatamente: un manifesto estetico che è una dichiarazione anche politica perché dichiara l’autonomia, il monologo che sostituisce il dialogo, la resa pop dell’esperienza del margine artistico: a me tutto questo pare interessante anche se discutibile), quello che mi preoccupa è l’uso di un linguaggio ableist quale «autismo consapevole, ritiro, ascesi»: cosa si intende per autismo consapevole, qui? E perché riferirsi a un disturbo simile con leggerezza? La mia insofferenza per la stesura dell’articolo andava salendo.
L’articolo continua nel tentativo di fare a pezzi la produzione artistica di Abramovic e, a mio avviso vera cosa grave, la Abramovic stessa. La maternità viene quindi presentata in chiusura del pezzo come «antidoto all’autoindulgenza» e all’ottusità della produzione artistica dell’artista. Tra gli esempi scelti dall’autrice a sostegno della sua tesi (che vede la maternità come energia positiva di creatività) figurano nomi provenienti da diversi campi (dalla Ginzburg alla Jolie) ma neanche una cis-woman performer.
L’autrice ha notato il mio commento ironico al suo pezzo sulla bacheca di una conoscente in comune (dicevo lì che il pezzo era ‘un mischione’ e che mi pareva un brutto elogio alle ‘super mamme’ che fan tutto) e mi ha così risposto:
Purtroppo le mie risposte sono qui tronche, e l’ultima non le è mai arrivata visto che in pochi scambi l’autrice ha deciso di bloccarmi su Facebook (rimuovendo così l’intera conversazione di cui mi rimane un misero screenshot, e la mia possibilità di contattarla in privato ma visto che Facebook mi dice ‘Riprova’ pieno di buone speranze, io ci provo anche tramite queste poche righe di commento al caso Abramovic).
Se è vero che i titoli non li sceglie l’autore, come mi liquida galantemente l’autrice del pezzo quando chiedo spiegazioni, credo sia altrettanto vero e legittimo che chi scrive debba dissociarsi, scalpitare e offendersi profondamente se il proprio lavoro viene appiattito da un titolo ‘acchiappa-click’. A riprova del fatto che discutere non può che migliorare, il titolo del pezzo su Abramovic di ArtTribune che mi era stato segnalato come “Marina confessa tre aborti” (a quale onnipotente pubblico di retaggio cattolico avrebbe confessato i suoi peccati?). Ora si tratta di rivelazione shock e non di confessione (e davvero, davvero siamo così shockati dal fatto che una donna che a 70 anni non ha figli dichiari di non averne mai voluti?).
Per quanto riguarda la mia opinione, ho capito una cosa importantissima: ovvero, che la mia opinione non è affatto importante. Non lo è nel momento in cui commentare su un simile argomento riporta indietro di mille anni o forse solo qualche decina, a quando le donne dovevano vergognarsi di aver deciso del proprio corpo in totale libertà.