Avventure in Canada occidentale
Un viaggio “into the wild”
Loro la chiamano Beautiful British Columbia. Tra tutte le dieci province — Alberta, Quebec, Ontario, Manitoba, Saskatchewan, Nuova Scozia, Nuovo Brunswick, Isola del Principe Edoardo, Terranova e Labrador — e i tre Territori — Yukon, Territori del Nord-Ovest, Nuvanut — che compongono il Canada, solo lei si è meritata questo appellativo. E il motivo è fin troppo evidente. La Columbia Britannica, grande più di tre volte l’Italia, è uno dei posti più belli che questo pianeta possa offrire agli amanti del viaggio on the road. Prendete Vancouver ad esempio. Si affaccia sull’oceano, ha alle spalle le montagne della Catena Costiera Pacifica ed è piena di spazi verdi dove camminare o andare in bicicletta. Si può vivere in una città, in una metropoli, migliore di questa?
Il viaggio da Milano a Toronto e dalla capitale dell’Ontario sino a Vancouver — sette ore sopra l’Atlantico più altre quattro sul Continente — è una traversata oceanica e terrestre che colpisce per la vivacità dei colori. L’oblò sporco non riesce a nascondere quanto sia affascinante la Terra dei Ghiacci e quanto visitarla rientri nella lista delle cose da fare prima di morire. Vancouver accoglie il viaggiatore con lo zaino in spalla in un’atmosfera di reale cosmopolitismo che all’Italia farebbe davvero bene assorbire. Si ha la sensazione che la cultura orientale e la tradizione illuminista siano riuscite a offrire il loro prodotto migliore. I tronchi degli alberi adagiati sulla spiaggia orientale di Stanley Park, 404, 9 ettari a un passo dal centro cittadino, sono un invito a sedersi e guardare il sole che cala all’orizzonte. Pare di essere in una serie tv americana dove il fuoco brucia, la chitarra suona e i teenager si baciano al sorgere della luna. Mentre percorri in bicicletta il parco inaugurato dal governatore generale del Canada nel 1888, può spuntarti all’improvviso di fronte alla ruota anteriore un procione o uno scoiattolo. Loro sono di casa, tu forse sei un po’ l’intruso.
Highway 99 è la compagna di viaggio di chi dalla metropoli a misura di cittadino si spinge nel paradiso degli sciatori: Whistler. Costeggiare l’Oceano Pacifico in auto è un’esperienza rilassante e suggestiva. Il verde alla destra della strada, il blu alla sinistra e un senso di infinito all’orizzonte rendono questo percorso on the road molto più intimo di quanto possa sembrare al primo impatto. Di fronte hai la vastità di una provincia che si estende per quasi 950.000 chilometri quadrati, di fianco scorgi Vancouver Island che per bellezza e biodiversità potrebbe essere un pianeta a sé e davanti a te si spalanca la sede dei Giochi Olimpici invernali del 2010. Per chi ama la montagna, soprattutto innevata, Whistler rientra tra le località in cui dover mettere gli sci ai piedi almeno una volta nella vita. Cortina d’Ampezzo a confronto pare un paesino di provincia e non la meta più esclusiva dell’Italia alto-borghese. La ricchezza in questa perla al confine con il Garibaldi Provincial Park — sì, questo incantevole luogo di escursioni e vegetazione è dedicato al nostro famoso eroe dei due mondi — è palpabile a ogni angolo di via o di sentiero.
Vancouver Island, la più grande isola abitata al largo della costa nordamericana, si raggiunge in traghetto da Tsawwassen, cittadina a 34 chilometri di auto dalla capitale della British Columbia, in poco più di un’ora e mezza. La traversata è suggestiva, rilassante e dagli accesi color verde-blu. Lo sbarco a Swartz Bay è il preludio di quanto sia variegata e amichevole la terra che una volta era appannaggio della regina Vittoria. La capitale Victoria è un’oasi di pace per anziani inglesi emigrati in una baia sempre baciata dal sole. Le foche, le orche e i leoni marini considerano James Bay e Oak Bay la loro casa per tutto il periodo estivo quando dal Sud America si spostano verso gli Stati Uniti, il Canada e l’Alaska. A prescindere dal prezzo, scegliete di salire su una piccola imbarcazione che da Inner Harbour vi porterà allo stretto di Juan de Fuca, il confine marittimo tra Stati Uniti e Canada. La possibilità reale di vedere orche, foche e leoni marini ripaga della spesa effettuata così come la sensazione di toccare i padroni dell’oceano regala l’emozione di sentirsi immersi in una natura troppo spesso dimenticata.
Telegraph Cove potrebbe essere l’isola in cui hanno girato Shutter Island. La nebbia a strati avvolge la cittadina da cui ogni giorno partono le imbarcazioni che conducono a scoprire i grizzly nel loro ambiente naturale. Le insenature della costa della British Columbia davanti alla parte orientale di Vancouver Island sono uno dei pochissimi luoghi in cui è possibile vedere i più grandi carnivori terrestri dopo l’orso polare, presente in Manitoba, e l’orso kodiak, tipico dell’Alaska — raggiungere con la barca quest’area ha un costo proibitivo, 300 dollari a testa se non ricordo male, ma se tornassi indietro li spenderei senza alcuna esitazione. Sarà l’ambientazione da ex stazione telegrafica, ma questo piccolo insediamento umano costruito su decine di palafitte è a mezza strada tra un avamposto dei pionieri e un eden remoto in cui vivono individui dal carattere forte e selvaggio. La traversata in traghetto al largo di Telegraph Cove al calare del sole è una delle esperienze più forti di questo viaggio into the wild. Mi sento davvero piccola di fronte a quello che Immanuel Kant chiamava il sublime. Se volete scoprire sulla vostra pelle questa sensazione straniante e un po’ inquietante, venite qui alle porte della fine del mondo occidentale.
Il Nord di Vancouver Island è ancora più inesplorato. I turisti si contano sulle dite di una mano. I viaggiatori come noi sono un po’ di più e vengono premiati dalla bellezza di una natura realmente incontaminata. Port Hardy sembra esistere solo per permettere il collegamento via Ferry per Prince Rupert, eppure è proprio qui, sulle rive di un torrente, che abbiamo l’onore — per me l’immensa gioia — di vedere a pochi metri di distanza il primo orso bruno di tutta la vita. L’aquila dalla testa bianca (bold eagle per i canadesi) che si specchia nell’acqua rende questo paesaggio ancor più delicato e quasi evanescente. La domanda è una sola: sta accadendeo davvero?
Inside Passage. 500 chilometri su un traghetto che costeggia i fiordi della Columbia Britannica. Partenza alle 7.30 del mattino. Arrivo alle 11.30 di sera. Una noia mortale? No, un’esplosione di colori, suoni e luci mai visti prima. Il sole è caldo come sulle Dolomiti d’estate. Le orche e le balene ci accompagnano per gran parte del percorso. I bambini — pure io lo ammetto — corrono da una parte all’altra del Ferry per non perdersi gli avvistamenti marini annunciati dal comandante della nave. Il verde delle isole boscose e il blu intenso dell’Oceano Pacifico si fondono in un unico spettro cromatico dalla vivacità sorprendente. Il tramonto dura più di un’ora ed è un arcobaleno di gialli, rossi, arancioni e viola. Le immagini parlano per me. Molto meglio di quanto io possa fare.
Il National Geographic Traveler lo ha definito il più bel parco del Nord America. Nella lingua haida il nome di questo arcipelago, soprannominato le Galapagos del Canada, significa Isole del Popolo. Magia, isolamento, anima del mondo, pali totemici, fauna e flora endemiche, natura incontaminata e primitiva sono solo alcune delle parole che si possono associare ad Haida Gwaii. Niente però può rendere la grandezza e la libertà che si respira in queste 450 isole situate a 80 chilometri a ovest dalla costa della British Columbia e a circa 50 chilometri dalla punta meridionale dell’Alaska, se non visitarle dal vivo. Le ex Queen Charlotte Islands si raggiungono dalla terraferma con un viaggio in traghetto di circa 7 ore da Prince Rupert sino a Skidegate su Graham Island, l’isola principale dell’arcipelago per quantità di abitanti e attività commerciali. Per raggiungere Gwaii Haanas National Park Reserve, patrimonio dell’Unesco su Moresby Island e su altre 137 isole più piccole, si deve prendere una buffa imbarcazione che porta da Skidegate a Sandspit. Da qui in poi il mondo occidentale vi abbandona. Le jeep sono pochissime, la strada asfaltata è una sola, il parco si esplora o con le barche a motore o con le canoe o, per i più ricchi, con l’idrovolante. I reperti archeologici testimoniano la presenza del popolo Haida sin dalla preistoria. I totem ricostruiti dopo la dominazione inglese dell’Ottocento, che ha causato morti, deportazioni e distruzione della popolazione e della cultura Haida, sono il segno della rinascita spirituale di queste isole meravigliose. Il governo federale della Columbia Britannica ha riconosciuto un certo grado di autonomia politica all’arcipelago che offre al mondo gli ultimi tratti della superba e antica foresta pluviale. I cedri e gli abeti rossi maestosi, i leoni marini, le orche, le foche, gli orsi neri, le aquile dalla testa bianca, i salmoni che risalgono il fiume sono l’espressione più autentica di come era l’ambiente Haida prima dell’arrivo dei coloni inglesi. Nella foresta che accoglie cerbiatti e scoiattoli rimangono ancore le tracce del dominio della tecnica occidentale. In questo paradiso terrestre — uso questa definizione con consapevolezza — la cena e la notte trascorse su una palafitta in un’insenatura silenziosa e verdeggiante sono state l’apice di un’esperienza umana che chiunque dovrebbe provare una volta nella vita. Il motivo? Accorgersi di cosa ha realmente senso nella propria esistenza fuori dalla banalità e dalla frenesia del quotidiano.
Se la prima sera ad Haida Gwaii una mamma canadese, primario all’ospedale di Vancouver nel reparto malattie infettive, in vacanza nell’arcipelago con il figlio minore di 8 anni, ci prepara la cena senza nemmeno conoscerci, l’ultima sera a stupirci è un ragazzo di 24 anni. Originario del Quebec, fuori di casa da mesi, questo novello Christopher McCandless, il protagonista del libro-film Into The Wild, mi fa capire il motivo per cui si può abbandonare tutto e vivere nelle terre selvagge liberi. In compagnia solo del suo cane lupo bianco e di uno zaino, questo canadese dorme su una tela cerata sotto i tavoli all’aperto dove si fanno i picnic. Mangia soprattutto quello che trova e quello che gli viene offerto da chi incontra nel suo viaggio a piedi per il Canada. Sotterra ogni sera il poco cibo che possiede e il dentifricio che gli è rimasto per evitare di essere attaccato dagli orsi. Ha deciso di trascorrere l’inverno nelle foreste di Haida Gwaii. Non sa ancora come sopravviverà. Quando gli regaliamo un libro sulla natura di questo arcipelago la sua gioia è autentica come quella di un bambino il giorno di Natale. Mi sento sporca e misera perché a suo confronto non valgo nulla. Se incontrassi un ragazzo del genere in Italia non gli rivolgerei la parola. La società corrode. La natura, forse, libera.
L’ultima parte di questo viaggio, lungo 18 giorni e 3000 chilometri, è dedicata alle Montagne Rocciose. Il percorso da Prince Rupert a Prince George può risultare noioso perché lungo e faticoso da fare tutto in auto — sono 725 chilometri — ma per me è un continuo aprire la bocca per la sorpresa e la bellezza di tutto quello che si incontra lungo la strada. Gli orsi bruni ad esempio. I coyote che ti passano davanti la Highway 16. I campi coltivati e le foreste incontaminate.
Da Prince George fino a Jasper la strada diventa un omaggio ai laghi alpini e alle montagne che ti aspettano appena varchi il confine tra British Columbia e Alberta. Mount Robson compare all’improvviso e toglie il respiro a un’amante come me delle Dolomiti italiane. Dormire in tenda ai piedi di questo monte è un’esperienza che consiglio vivamente, ma preparatevi: il freddo è intenso anche il 15 di agosto.
“Se l’Italia ha Venezia e Firenze, il Canada ha Jasper e Banff”. Così la guida della Lonley Planet descrive i due parchi più famosi dell’Alberta, i due parchi che ogni anno accolgono tra i 2 e i 5 milioni di turisti, i due parchi che insieme a Yoho e Kootenay in British Columbia sono patrimonio mondiale dell’umanità dell’Unesco. Non sono zone selvagge — entrambe le cittadine sono piene di visitatori e sfoggiano la ricchezza tipica dei luoghi d’elite — ma la loro storia geologica, glaciale e naturalistica fa di questi parchi un unicum al mondo nel panorama delle aree nazionali protette. Il Maligne Lake, uno dei laghi più pittoreschi delle Montagne Rocciose, è la casa di alci, orsi e caribù. Quando riuscire a vederli? Con l’arrivo della primavera quando si avvicinano alle strade per trovare più facilmente cibo e il sale gettato sull’asfalto per evitare il ghiaccio. I caribù ne hanno bisogno dopo un inverno privo di sali minerali. Coglierli di sorpresa non è impresa impossibile.
La Icefields Parkway, la strada dei Ghiacciai, è un incanto da percorrere in auto. Da Jasper a Banff sono 230 chilometri di montagne rocciose, laghi color verde acqua, lingue di ghiaccio e cascate imponenti. Le Dolomiti a confronto sono poca cosa. Questi picchi di roccia sono la potenza e la grandezza dell’elemento non umano del mondo che sopravvive allo scorrere del tempo. La ritirata dei ghiacciai è evidente soprattutto al Columbia Icefield e fa capire quanto l’azione umana stia incidendo in maniera profonda sulla natura selvaggia. Il Peyto Lake è quasi più bello del lago più famoso del Canada, il Lake Louise, che incute un vero timore reverenziale per il suo fascino naturale da quadro impressionista. Sarei pronta a scommettere che Tiffany abbia preso ispirazione da questi bacini lacustri per realizzare la tonalità verde/azzurro che caratterizza il suo brand.
Gli ultimi chilometri sono per raggiungere la destinazione finale di questo viaggio: la capitale dell’Alberta, Calgary, da dove parte il nostro volo di ritorno verso casa. Cosa mi lasciano questi 18 giorni? Un senso di libertà mai provato prima. La percezione di apprezzare la natura e gli animali più di quanto a volte riesca a fare con gli esseri umani. Il divertimento di dormire in tenda in spiaggia o alle pendici di un monte. La bellezza senza paragoni di conoscere persone provenienti da ogni parte del mondo. La consapevolezza di aver lasciato un pezzo di vita là sulla baia di Vancouver Island la notte di San Lorenzo quando la luna era piena e il silenzio assordante.