Come fare informazione con una newsletter (e vivere felici)

Un paio di riflessioni sul giornalismo come servizio, a partire da un’esperienza personale

Carola Frediani
10 min readApr 18, 2019

Quando ho deciso di lasciare il giornalismo come professione — poiché mi ero stufata di una serie di storture del sistema mediatico italiano, e non avevo voglia di emigrare — ho lanciato in contemporanea una newsletter settimanale, Guerre di Rete, che ogni domenica seleziona e analizza (qui c’è l’archivio) notizie e storie di cybersicurezza, politica e Rete, sorveglianza, cybercrimine, diritti digitali, intelligenza artificiale, il tutto in chiave geopolitica o comunque il più possibile globale. Che poi sono i temi che mi interessano e che ho più seguito negli ultimi anni (se vi state chiedendo chi diavolo sono, qua c’è una bio).

Perché per fortuna si può fare informazione anche senza stare in una redazione, pubblicare su carta, sbandierare esami e tesserini, inseguire inutili corsi di aggiornamento, e ogni Natale vaticinare con l’aiuto dei fondi del caffè precedentemente sparato in vena per sopravvivere a ritmi di lavoro massacranti se il giornale di turno si deciderà a confermare il tuo contratto anche per l’anno nuovo.

Ad ogni modo, e cercando di non divagare, ho lanciato una newsletter come ho sempre fatto gran parte delle mie attività giornalistiche: in piena incoscienza. Perché se cominci a pensare bene a tutti i pro e soprattutto i contro di certe cose, finirai col non farle. Almeno io (dis)funziono così.

Malgrado dunque il lancio estivo dal cucuzzo della montagna, la progettazione istantanea se non istintuale, e l’adozione di un sistema di iscrizione/editing/invio alla buona (Tinyletter, che ha vari limiti, ma per me aveva due importanti meriti: massima semplicità di utilizzo e gratuità), con mia grande sorpresa la newsletter ha avuto un notevole successo.

Specie se si considera che stiamo parlando di un prodotto personale (lo faccio da sola), con zero spinte o pubblicità (è girato solo a partire dai miei profili social e attraverso il passaparola, e ho rifiutato varie proposte di sponsorizzazione e offerte simili), realizzato nel tempo libero (di lavoro ora faccio la cybersecurity awareness manager in una azienda internazionale — sì sono contenta, è molto interessante e sto imparando molto ma non parlo del mio attuale impiego, sorry), e su temi comunque non proprio di massa.

Anzi, su temi che un collega una volta definì (non davanti a me, però, ché mi sarei fatta una sonora risata) “irrilevanti”.

Malgrado l’irrilevanza e l’amatorialità del tutto, oggi la mia newsletter, dopo alcuni mesi dal lancio, ha tremila iscritti, di cui moltissimi dal mondo del giornalismo/comunicazione; da quello dell’industria/cybersicurezza; e dalle istituzioni. Soprattutto, la mia newsletter ha dei lettori. Che sembra una ovvietà, ma qui si parla di Lettori con la L maiuscola. Quelli che il giornalismo oggi insegue e insieme frustra, corteggia e poi tradisce, quelli che il giornalismo “sei la persona della mia vita”, ma poi ha paura di impegnarsi.

Ora questa sensazione di avere dei lettori l’avevo anche prima quando facevo la giornalista e scrivevo per varie testate, perché malgrado i temi “di nicchia” o appunto “irrilevanti”, i lettori — anche grazie ai social media — si palesavano spesso, nel bene e nel male (devo dire più spesso nel bene). Però con la newsletter è diverso, è una sensazione potenziata. Sono proprio i tuoi Lettori, che ti conoscono e non sono capitati lì per caso, che si sono presi la briga di iscriversi, che sono contenti di ricevere le informazioni che produci, che te lo dicono, che ci rimangono male se una settimana salta, che ti scrivono la domenica, che si lamentano del fatto che sia gratuita, che ti dicono “ma io voglio pagarla”, che suggeriscono, congratulano, incoraggiano, eventualmente criticano ma in senso alto e costruttivo, e più che altro dialogano.

Il risultato di tutto ciò è che improvvisamente ti senti parte di un piccolo ecosistema informativo, che magari non è ancora una comunità ma non ne è neanche troppo lontano. Un ecosistema sano, costruttivo, e soddisfacente per le varie parti, pur con tutti i suoi limiti.

Negli ultimi tempi si è scritto e letto molto del risveglio o riscoperta della newsletter, che in fondo è una sorta di matusalemme della comunicazione digitale. E penso che il suo merito principale sia proprio quello di essere anticiclica: stramazzati dalla quantità di update, app, tweet, video, post, notifiche e notizie che ci inondano quotidianamente, la newsletter ci fa respirare perché affonda chirurgicamente nel rumore di fondo, ed estrae una piccola oasi di ordine, semplicità, senso e tranquillità. Soprattutto, elimina il superfluo, le distrazioni, la caciara, le esche visive e i flash emotivi. Ci fa saltare l’esperienza terrificante delle homepage dei giornali, quel minestrone disordinato di pseudonotizie acchiappaclic, tra horror e voyeurismo, in cui affogano le notizie vere, la fiducia nell’umanità e qualsivoglia gioia conoscitiva. Ci aiuta a mettere un punto (per quanto arbitrario, è chiaro) alla fine di un ciclo informativo che diversamente rischia di fagocitarci. Ci aiuta a prendere le distanze dalla breaking news, che quanto più è breaking tanto più rischia di essere fallace, perché errata, incompleta, sopravvalutata o sottovalutata. Ci fa riappropriare — da lettori — dei nostri tempi informativi.

Ovviamente la newsletter non è una panacea, è solo uno degli strumenti possibili, e da usare in modo appropriato — anche se alcuni progetti, recentemente, ci stanno scommettendo molto, come Airmail.news. Però, nel suo piccolo, può indicare una strada diversa rispetto all’esperienza informativa media cui siamo stati abituati negli ultimi anni. Può indicare dei principi utili da applicare anche ad altri strumenti e format.

Tornando alla mia specifica e personale esperienza, uno dei motori più rilevanti alla base della mia newsletter è la volontà precisa di svolgere un servizio utile a qualcuno. Di condividere un lavoro informativo, e quel poco o tanto di esperienza che c’è dietro. Che è diverso dal pensare: ora ti mando la mia newsletter in cui ti riscodello riscaldate le notizie che ho pubblicato nell’ultima settimana in modo da raggranellare un po’ di clic e magari qualcuno poi si abboni per sbaglio o sfinimento al giornale. Ed è diverso anche dallo scambiare la newsletter per il tuo palchetto personale, la tua sedia di plastica trascinata in Hyde Park (“it’s not your personal army”).

Perché dai principi di base discendono i prodotti (sì ok poi conta anche l’esecuzione, come lo fai, e cosa sei in grado di fare, ma tralasciamo questo aspetto adesso; e comunque se i principi sono sbagliati anche una buona esecuzione non li aggiusta).

E questo sforzo di selezione, analisi e sintesi, che mira a condividere la conoscenza (parziale ovviamente) di qualcosa, e non a massimizzare i clic, gli acquirenti o la propria visibilità, che è indipendente, che non vive di scoop che non lo sono, di reportage fatti in vacanza, di editoriali scollegati dai fatti, di veline passate dagli amici, di non-notizie che devono esserci perché ce le ha la concorrenza, di conferenze stampa inutili, di titoli allarmistici o ingannevoli, che insomma non ti vende lucciole per lanterne ma si mostra per quello che è: ebbene, questo sforzo e questa semplicità vengono riconosciuti, apprezzati e premiati dalle persone.

Mi chiedo se — fatte tutte le dovute proporzioni — non si possano applicare gli stessi principi a più ambiziosi progetti editoriali. Che certo devono avere un modello di business, mentre la mia newsletter può permettersi di non averlo (anche se a volte vorrei quasi fare una raccolta fondi solo per vedere le carte, come a poker — raccolta fondi perché mi piace l’idea di qualcosa di aperto anche a chi non possa pagare). D’altra parte non mi sembra che gli attuali modelli di business funzionino benissimo, quindi magari sarebbe il caso di fare qualche tentativo in direzioni diverse dal passato. Ma non mi addentro oltre su questo tema perché per fortuna non è il mio lavoro.

Per concludere: cosa ho invece imparato dal fatto di fare la mia stessa newsletter? Che cosa non sapevo o non avevo così chiaro quando l’ho lanciata?

Innanzi tutto, non avevo calcolato il mazzo che mi sarei fatta (ma neanche la ricezione del lavoro svolto che compensa e anzi alimenta il mazzo in un circolo che definirei vizioso la domenica mattina, quando mi alzo presto per farla, imprecando che sono in ritardo; ma che appena inviata, e con i successivi ritorni e nuove iscrizioni, mi appare di nuovo virtuoso). Fare informazione, anche una semplice newsletter, è e resta un lavoro, che si può decidere di fare per passione come nel mio caso, ma se qualcuno invece te lo chiede per sfruttarlo bisogna farsi pagare e bene.

Poi ho scorto da una nuova visuale l’insostenibile leggerezza del ciclo informativo. Come accennavo anche in alcuni tweet, se dai notizie tutti i giorni non te ne accorgi molto; ma se fai una newsletter che esce la domenica (e su cui lavori in vari spezzoni durante la settimana, di sera), ti rendi conto di questo: ciò che lunedì parte con il botto arriva a venerdì sotto forma di sussurro. E allora la valutazione e i pesi da dare alle notizie, la cernita, è tutto. La mia newsletter ha il vantaggio di non ambire a essere un riassunto della settimana, non è il “meglio di”, non è la top ten di articoli da leggere. È invece la scelta soggettiva di storie che reputo interessanti, o trascurate, o mal interpretate, o dove possa dare magari un qualche valore aggiunto nell’analisi, sui temi che ho descritto all’inizio. Riconosce il limite di essere un prodotto autoriale (nel senso specifico di avere una sola autrice ben definita e limitata, la sottoscritta) e cerca di farne un punto di forza, senza eccedere nel soggettivismo. In generale, la parte più difficile e intrigante per me è definire ogni volta quel punto di equilibrio (mutevole, mai del tutto assestato) tra due estremi: il mero elenco di titoli e link, da un lato, e le 30mila battute di analisi, dall’altro. In questa area di mezzo e nelle sue cangianti geometrie interne si esercita dunque la creatività e la disciplina di chi scrive, così come spaziano il piacere e l’interesse di chi legge.

Inoltre ho imparato di nuovo quanto sia necessario seguire le notizie e le storie, trovando il modo più pratico per riannodare i fili di volta in volta, consapevoli che lo spazio, l’attenzione e il tempo di tutti è limitato. Dare aggiornamenti, riprendere quel: “ah ricordate questa storia? è andata così”. Ecco: il “come è andata” è una voce troppo spesso assente sui giornali. Eppure è un elemento narrativo fortissimo, è un collante di senso e di attenzione, è un servizio utile, ed è quello che si aspettano i lettori. Perché resta comunque una fatica e un mestiere.

Aggiungo anche la necessità di trovare un modo per fare correzioni, sapendo che non puoi correggere quello che hai già inviato. Questa è forse una delle questioni su cui non ho trovato ancora soluzioni adeguate, ma resta una esigenza sentita.

Dulcis in fundo, ho capito che le persone adorano i link negli articoli — se non comprendete questa frase vuol dire che siete digitalmente risolti da tempo; ma fino a poco tempo fa (ieri), una parte dei media italiani ancora vedevano i link come un pugno in un occhio oltre che una fatica di Sisifo. E piacciono i link ben circostanziati, che possibilmente mostrino dove si va a finire, che fonte è, se c’è un paywall. Non interrompono, ma arricchiscono. Non divagano, ma rinforzano.

Ciò detto, ho alcune idee che mi frullano per la testa ancora in modo indistinto e che mi piacerebbe sviluppare, se mai ne avrò le forze (ed è un grande se, onestamente). Le metto qua in ordine sparso anche e soprattutto per raccogliere indicazioni da altri. Mi piacerebbe che alcuni filoni seguiti potessero diventare delle storie più ampie o degli approfondimenti. Mi piacerebbe avere uno spazio diverso oltre a quello della newsletter vero e proprio (un sito?) dove raccogliere, far confluire alcune cose (ad esempio gli stessi archivi? Ora poco leggibili). Mi piacerebbe ogni tanto ospitare dei guest editor — autori/giornalisti che abbiano voglia di scrivere una breve analisi su qualcosa di specifico. Mi piacerebbe avere delle edizioni speciali tematiche (anche se bisogna stare attenti: il patto con gli iscritti è di ricevere quel prodotto con quella frequenza, e non si può abusare arbitrariamente della loro casella di posta). Mi piacerebbe riuscire a mandare Guerre di Rete sempre alla stessa ora, possibilmente alle sei del mattino di domenica (ok, questa è una fantasia ardita, non avverrà mai). Mi piacerebbe trovare il modo di aumentare il dialogo con gli iscritti (e in fondo tutto questo articolo nasce da tale motivazione).

Infine, una delle cose più interessanti che ho imparato: a fare una newsletter — almeno se la fai nel modo giusto, scrivendo qualcosa di utile o di reale interesse per qualcuno — non ci si sente mai soli.

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Restando nello spirito di servizio di cui si diceva sopra, chiudo segnalando un po’ a caso alcune delle newsletter che mi capita di seguire:

Italiane

Valigia Blu

Good Morning Italia

Data media hub

Duemila parole

Fumo di Londra

Koselig — Mafe De Baggis

Straniere (inglesi)

Le newsletter del MIT

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Carola Frediani

Journalist turned Cybersecurity Awareness Manager. Writing about hacking, surveillance, privacy, journalism