Paolo di Orazio, Primi delitti

Claudio Kulesko
4 min readMay 5, 2024

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Contro la società degli orrori

C’è un aspetto della narrativa contemporanea italiana sul quale mi soffermo spesso a riflettere — a volte anche con il timore di essere ritenuto una sorta di puritano bacchettone — ossia quello della violenza indiscriminata. Nella narrativa grottesca e nella narrativa fantastica italiana di stampo grottesco gli innocenti subiscono violenza ma il male non paga, anzi.

Attenzione, sto parlando di qualcosa di estremamente specifico, ma che getta radici già nei cosiddetti “cannibali”. E neppure sto parlando di chissà quale male soprannaturale. Intendo pedofili, violentatori, teste di cazzo che ammazzano gli animali, si masturbano in pubblico e picchiano le donne. Quello che voglio dire è che in Italia, soprattutto nel giro della “letteratura alta” (la letteratura letteraria più letteraria del letterale), c’è un gusto per l’orrido, lo scandaloso e il criminale. Un gusto tipico della borghesia annoiata e nichilista, che oggettifica l’altro da sé in modo sadico, per poterne fruire liberamente — per poterlo “consumare” come una scatoletta di tonno.

Ora, direte voi, l’etica non potrebbe che fungere da mordacchia per la letteratura. Che senso avrebbe mettere a freno qualcosa che fa parte della natura umana? Perché non si dovrebbero sfogare i bassi istinti della nostra specie attraverso la scrittura? Gli esempi negativi, d’altronde, sono tanti.

Nel 1989, nel nostro paese, c’è chi è stato addirittura incriminato per istigazione a delinquere a causa di un suo libro. Paolo di Orazio, uno dei creatori del genere Splatterpunk — nonché uno dei più celebri autori italiani all’estero — è stato oggetti di persecuzioni politiche e religiose per aver messo rosso su bianco la violenza.

Qui vi volevo, brutti stronzi. “Primi delitti” di Paolo di Orazio è stato oggetto di curiosità morbosa e indignazione a causa di un enorme, immenso fraintendimento. Perché questa agile raccolta di racconti non è una mostra di atrocità (non solo, almeno), ma una galleria infernale nella quale l’autore ci conduce attraverso tortuosi labirinti di espiazione.

“Primi delitti” è l’Inferno e di Orazio è Satana.

“Primi delitti” è l’eresia di Origene, per la quale, alla fine dei tempi, anche Satana e la morte sarebbero stati redenti da Dio e ammessi in Paradiso.

I racconti contenuti in questa antologia vedono protagonisti bambini e giovani adolescenti. Che uccidono. Uccidono per vendetta, necessità o gusto personale. Le loro vittime sono gli adulti. Adulti banali, mediocri, frustrati dalla vita. Adulti cattivi. Molto cattivi.

La vita adulta presentata dall’autore è specchio e sintesi di una società borghese consumista, bigotta, morbosa e repressa, capace di qualsiasi cosa pur di soddisfare i suoi disgustosi desideri. La società italiana degli anni ’80 e ’90, in breve — la stessa che si indignò per il libro. In questo senso, i piccoli protagonisti di questi racconti danno vita a una vendetta corale che colpisce gli adulti, in primo luogo, e la società in quanto tale, in secondo. Qui l’horror è un fucile puntato contro i veri mostri, contro la “banalità del male”

(essere il semplice ingranaggio di una macchina di emarginazione, prevaricazione e sterminio).

I demoni evocati da Paolo di Orazio sono strumenti attraverso cui il Male (maiuscolo) punisce il male (minuscolo), come il Satana del racconto intitolato “Silenzio!”, ambientato in un orfanotrofio gestito da suore.

Tra i personaggi, quello che più incarna tale tendenza vendicativa, è Mott, la “villain” al centro dell’omonimo racconto. Qui, la protagonista, una bambina bianca figlia di un investitore coloniale, fa amicizia con una bimba africana disabile, ritenuta “tabù” dagli altri abitanti del villaggio e in combutta con un oscuro dio ragno primordiale. Le due sembrano andare naturalmente d’accordo, come tutti i bambini piccoli. Ma quando la bimba bianca va nella capanna di Mott, non riesce a fare a meno di volergli sottrarre tutto quel che possiede, in una sorta di mania appropriativa. La vendetta di Mott, tanto naturale quanto istintiva, rappresenta una punizione universale: la vendetta di un’umanità trascendentale, ferita e annichilita dal colonialismo occidentale.

Il racconto di “Mott” rimanda al cuore di tenebra di Conrad — “l’orrore, l’orrore”— al regresso violento a un male antico, selvaggio, che sottintende alla società “civile”. Una brutalità che arde come fuoco sotto la cenere della violenza sistemica: uno stato di natura perverso in cui tutti possono raggiungere e colpire tutti, in modo orizzontale e simmetrico. E di cui i bambini (in una sorta di diabolica rilettura rousseauiana) non possono che farsi portatori privilegiati.

Questo è il Vangelo di Paolo di Orazio: solo i demoni che sciamano sotto il velo della morale cristiano-borghese e della sua “falsa coscienza” sono in grado di prevaricare gli orrori del patriarcato, dell’Edipo iper-violento, della religione organizzata, dell’abilismo, del razzismo e del colonialismo. Una lettura che re-installa etica e universalismo in modo non coercitivo e non banale, là dove, in precedenza, non si vedeva altro che oscenità e autocompiacimento. Un principio guida che, a ben vedere, domina la maggior parte delle opere horror nel ventennio che va dalla fine degli anni Settanta ai primissimi anni Novanta (avete presente il secondo capitolo di Hellraiser?).

Particolare menzione all’ultimo racconto, un crudelissimo “rape & revenge” dal retrogusto hardboiled. L’ultimo delitto (compiuto infatti da una giovane donna) che chiude la serie in grande stile.

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