Perché ‘Soldi’ di Mahmood è un gran pezzo, a prescindere

Federico Pucci
9 min readFeb 12, 2019

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Dopo la vittoria del 69esimo Festival di Sanremo, la canzone Soldi di Mahmood (al secolo Alessandro Mahmoud) e lo stesso artista sono stati messi in questione. I più matti di Twitter, aizzati dal loro capitano, hanno cominciato a sbraitare nella notte contro quella che ritenevano una decisione politica da parte di giuria e giornalisti, come se la vittoria di un ragazzo milanese che ha la sorte di avere un padre egiziano fosse una minaccia a chissà quale ideale malsano di italianità. Altri, sospinti dalla protesta del secondo classificato, Ultimo, e rianimati dall’arrivo sul carrozzone di un altro genio al comando, hanno messo in questione il regolamento. Ma Soldi meritava di vincere, a prescindere da tutto questo?

Partiamo da una considerazione: io, come tanti colleghi giornalisti musicali, alla notizia della vittoria ho pensato “che bello, finalmente una canzone che suona contemporanea”. Si tratta di una reazione legittima, ma assolutamente riduttiva, un po’ come vedere un “segnale” o arrivare al delirio di definire questo brano “rap”, pur di incasellarlo in qualcosa di “recente” (il rap, peraltro, ha 40 anni). Ma se il pezzo ha convinto tutti è certamente anche per alcune qualità interne e slegate dalla contingenza: sono dell’avviso che le cose belle funzionino sempre, che non scadano come i modelli di iPhone. Proprio l’eccezionalità percepita di questo successo deve invitarci a toglierci per un momento dall’equazione della cronaca, e provare ad andare più a fondo.

Cominciamo dall’intro del pezzo, scritto da Mahmood con Charlie Charles e Dario Faini in arte Dardust. Il primo è il giovane produttore di Ghali, Sfera Ebbasta nonché uno dei principali responsabili dell’ondata di rinnovamento del rap italiano nell’ultimo quinquennio; il secondo è un autore e produttore di grande gusto del pop italiano dell’ultimo decennio, nonché raffinato pianista con una carriera propria tra fusion classica-elettronica e ambient vigoroso. Fin dall’attacco del beat, pesano le esperienze combinate dei tre. Partendo dai primi tre accordi, che reggono anche il ritornello e gran parte del pezzo: sono un Si maggiore (a rigore, un Do bemolle maggiore), un Si bemolle minore e un Mi bemolle minore. Trasposti a un’altra tonalità, questi stessi accordi si trovano nella prima metà della frase che sorregge Logico #1 di Cesare Cremonini, ma nessuno parli di plagio. Questo attacco rientra in una lunga tradizione hip-hop americana, che consiste nella precipitosa dichiarazione del ritmo e della melodia di base fin da subito, come in certe produzioni firmate Swizz Beatz (da DMX a Drake),o in certe cose dei tardi anni Novanta (Ghetto Supastar). Si tratta di un’applicazione particolare della tecnica dell’hook (il gancio), la frase melodica principale che cattura l’attenzione. In queste produzioni l’hook non necessariamente si lega al canto (e del resto, l’hip-hop non è propriamente cantato), ma costituisce un tema ricorrente che dichiara armonia e ritmo, e che ci dice quando il pezzo “va a capo”: in qualche modo Charlie aveva già fatto qualcosa del genere, ma senza tutta questa incisività, anche per via di un mood ben diverso rispetto a Soldi. Questo tipo di hook dà grande rilievo alle percussioni, magari modificandole con la compressione delle frequenze e aggiustando attacco (quando la percussione virtuale viene “battuta”) e rilascio (l’eco dopo il battito): il suono di questa grancassa è prodotto con molta probabilità da una Roland TR-808, la drum machine del rap per eccellenza. A caricare questo suono tre note di basso che ribadiscono gli accordi eseguendo le toniche (le note di base): Si, Si bemolle, Mi bemolle. L’effetto è di trovarsi risucchiati in medias res: pum pum pum, eccoci qua, benvenuti nella canzone, due battute e Mahmood può cominciare a cantare. Sono scelte, non necessariamente migliori di altre: per la cronaca, il brano di Ultimo impiega 20 secondi per “cominciare”, perché la sua frase melodica (prima solo al piano, poi ribadita con il canto) occupa più battute.

Di questo atomo fondamentale del beat voglio far notare la chitarra che manda una nota sola, un Mi bemolle, ma riecheggiata con il delay, che spezza il muro morbido ma denso dei bassi. In mezzo c’è il pianoforte, immagino contributo di Dardust, che ammicca a un più classico formato pop, ma non assente dalle produzioni hip-hop anche usato in questo modo, cioè non arpeggiato, né melodico (“cantato”). Qui il piano si aggiunge semmai a un gioco di timbri sovrapposti: il primo a pensare così la produzione fu Phil Spector, ma da Max Martin a Kanye West i produttori e beatmaker sono stati abituati a mixare decine di strumenti per ottenere una somma “altra”. Il piano di Soldi tiene insieme le frequenze: il pum pum pum di basso e percussioni con il tidintidin della chitarra, per capirci. L’effetto, quindi, è di solidità, non di dispersione: solo il pianoforte sa fare queste magie timbriche, per la sua stessa conformazione, per il tipo di frequenze e di armonici che produce. In questo caso la magia si compie scivolando con tre accordi costruiti scendendo dal VI (sesto) al i (primo): stiamo parlando di gradi della tonalità.

Piccola parentesi esplicativa. Per semplicità, diciamo che la tonalità è l’ordine gerarchico convenzionale delle note che compongono una melodia e/o un’armonia (cioè una serie di accordi, che sono note disposte in serie). Partendo da una nota a quella identica ma più alta (un’ottava) le note sono dodici, ciascuna separata da un’unità minima chiamata semitono, e ogni tonalità sceglie almeno sette di queste dodici note, che “funzionano” se suonate insieme o in successione. I gradi di una tonalità sono gli accordi che si possono costruire usando quelle sette note. Chiusa parentesi.

In Soldi la tonalità è un Mi bemolle minore, non propriamente comune per un pezzo di influenze rap e dalle ambizioni pop. Ma la scelta è appropriata. Il testo di Mahmood parla di qualcosa di molto doloroso e personale, un’esperienza familiare disfunzionale, un mondo di rapporti falsi, di tradimento, abbandono, convenienza: si sentono delusione, disincanto, perfino un po’ di protervia. Questi sentimenti di rado (e solo nei migliori dei casi) finiscono dentro le canzoni pop, specie quelle che parlano di abbandono e tradimento e che capita di incontrare sotto forma di ballate strappalacrime. Di cuori spezzati è piena la storia di Sanremo, ma raramente le immagini e le emozioni descritte in quei pezzi scavano sotto la superficie: per la cronaca, il brano di Ultimo parla di una relazione sentimentale finita.

La percentuale di utilizzo delle diverse tonalità nelle canzoni pop, rilevate su Spotify da Spotify (nel 2015): tra tutte, il D#/Eb minore è la tonalità meno comune (le tonalità minori in generale).

Tornando sui tre accordi iniziali, la spezia in quell’hook (pum pum pum) la mette l’accordo di passaggio: pare cromatico, cioè estraneo alla tonalità, perché si scivola “in basso” di solo un semitono rispetto alla nota iniziale, ma non lo è. Questo senso di estraneità fa sì che la musica non dia l’impressione di scendere un gradino (la classica metafora delle note) ma di muoversi sinuosa di lato. Ma quindi, se è un pezzo pop in tonalità minore (il modo “triste”), perché non ci deprimiamo al suo ascolto? Sicuramente questo deriva dall'impianto ritmico, che — dicevamo — fin dalla primissima nota ha una spinta decisa: ma non stiamo parlando nemmeno di una canzone con la cassa dritta (cioè, che tiene il tempo in modo quadrato, con quattro pulsazioni per battuta, come in certi pezzi dance). Anzi, uno degli elementi di maggior fascino sta nel modo intelligente di fermare e far ripartire la base ritmica, all'occorrenza, per aumentare la tensione: ora mi fermo, ora vado, e non sempre lo faccio dove ce lo si aspetterebbe, cioè nell’intro, nell’outro o nel bridge, che invece sono ritmicamente densi.

Al di là delle pulsazioni, c’è una ragione armonica, melodica e architettonica che ispira energia nell’ascoltatore: il pre-chorus (“Penso più veloce per capire se domani tu mi fregherai…”) presenta tutti gli accordi maggiori (cioè felici, positivi, risolti) di quella tonalità. Per la precisione: Sol bemolle, Re bemolle, Si, con in mezzo quel Mi bemolle minore che dà la scossa. E infatti nell’economia drammatica del testo, quel punto rappresenta il momento in cui il protagonista-narratore, Mahmood, prende atto delle situazioni avverse e si lancia verso un qualche tipo di soluzione: nel suo caso, la constatazione che “volevi solo i soldi”, pronunciata quasi senza accompagnamento, una considerazione sconsolata. Qui pesa la costruzione inusuale rispetto ai canoni del pop: questo tipo di riflessioni si fanno normalmente nel bridge, le otto battute (per questo chiamate anche middle-eight) che spezzano il ciclo di ripetizioni della melodia. Eppure, nel caso di Soldi, questo segmento ha una funzione propulsiva, è più ritornello del ritornello. Invece, il vero e proprio bridge (“Waladi waladi habibi”) ribadisce gli accordi della strofa, lasciando la contemplazione vera e propria solo alle liriche. Come sempre, quando una canzone rielabora le regole usuali, si crea qualcosa di unico.

Il pop è infatti un sottilissimo meccanismo di aspettative. Piuttosto che avallare strambe teorie sulla piacevolezza del timbro maschile o femminile, gli studi neuroscientifici dimostrano che la ripetizione è essenziale per convincere il cervello della piacevolezza di una composizione musicale: in pratica, più ascoltiamo una canzone, più ci piace, e se la ripetizione non tradisce quello che ci ricordiamo dagli ascolti precedenti, l’effetto è ancora più potente. Questo vale per il vero e proprio replay (riascoltare un brano) ma è un concetto applicabile anche alla composizione. Nella musica classica si poteva scegliere, per esempio, di costruire motivi intorno ai quali far ruotare tutto il dettato melodico-ritmico: è il caso della Quinta Sinfonia di Beethoven, dove il ta-da-da-daa iniziale è ripetuto con altre note, modificato, traslato, e di nuovo ripetuto lungo tutto il primo movimento. Si parva licet, anche Soldi impiega questo espediente vecchio come il mondo: è l’hook di cui abbiamo parlato, che apre il pezzo, lo sorregge nelle strofe dove il basso suona le tre toniche in un altro ordine (Mi bemolle, Si, Si bemolle), per essere quindi ribadito ancora e in crescendo (con volume più alto, insomma) alla fine di ogni segmento (“Come va, come va, come va”) e sul finale.

Ma c’è anche un’altra questione, parlando di ripetizione, e ha a che fare con le esibizioni: un cantante pop deve saper fare prima di tutto quello che ci si aspetta da lui in quel preciso frangente. Non che non ci sia spazio per le variazioni e le fioriture, anzi, ma perché qualcosa si conficchi nel cervello dell’ascoltatore nulla funziona meglio di una “consistency” (coerenza) di fondo. Mahmood ne ha fatto uso, ad esempio, proponendo un duetto (con Gué Pequeno) che non ha puntato a stravolgere l’arrangiamento: si è semplicemente fatto spazio all’artista in featuring, senza cambiare apparentemente una virgola del brano. Forse può essere tacciato di scarsa originalità, specie di fronte a piccoli capolavori come il duetto di Ghemon con Diodato e i Calibro 35. Ma l’effetto è stato far penetrare il brano ancora più a fondo. Poi, c’è la questione delle performance. Mahmood è stato sempre molto bravo a interpretare la sua canzone, non è sembrato quasi mai calante, incapace cioè, anche solo per un istante, di tenere la voce su quella precisa nota in quel preciso momento: e dire che la melodia del brano ripete spesso una stessa nota, il Sol bemolle (“Penso più veloce per capire se domani” e “non ho tempo per chiarire perché solo ora so”) quindi occasioni per dimostrare una scarsa intonazione abbondavano. Mahmood invece si è comportato bene, come si dice, e ha anche dimostrato un sangue freddo da professionista maturo quando, nella sua prima esibizione dell’ultima sera, ha saputo cantare senza una sbavatura nonostante il microfono fosse staccato, incidente che ha costretto tutti a ripartire. Una tranquillità e sicurezza che, prima, durante o dopo il Festival, è mancata ad altri concorrenti. Qualcuno può esaltarsi per prove “di pancia” come quella di Ultimo, che per caricare emotivamente il suo brano ha peccato qui e là nell’intonazione durante la serata finale: a volte sono proprio queste sbavature a fare la differenza. Ma il primo compito di una popstar è permettere all’ascoltatore di usufruire al meglio della ripetizione della sua opera, perché così si verifica in modo efficace quell’assorbimento che ci fa dire “il pezzo mi è cresciuto addosso”. Non c’è nulla di cui vergognarsi se un pezzo non convince al primo ascolto: l’importante è smarrirsi nel labirinto di ascolti e riascolti, dove si trova il più dolce miele pop.

Quindi sì, teniamo conto delle contaminazioni urban e del suono contemporaneo, va bene il contesto politico-culturale che può aver guidato la mano di alcuni dei giurati e giornalisti: tutto quello che volete. Ma non facciamoci ingannare dalle trappole del presente: Soldi è semplicemente un brano scritto, studiato e sviluppato con estrema intelligenza e gusto, facendo uso di tecniche spesso molto antiche, ma sempre valide. E ogni tanto, queste canzoni vincono i festival. E, come sta succedendo in questi giorni, scalano le classifiche di ascolti e streaming, a prescindere da qualche mal riposto populismo del pop.

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Federico Pucci

Punk col culo degli Altro. (Parlo di musica, intervisto di musica, scrivo format di musica)