Pirati a New York

Il viaggio dei Dagomago per suonare al CMJ Music Marathon

Dagomago
12 min readDec 25, 2015

«Siamo a New York» — ci siamo ripetuti. Appena usciti dall’aeroporto, con l’aria frastornata di chi è riuscito a dormire poco per l’eccitazione. Negli occhi un film su Brian Wilson dei Beach Boys, guardato durante il viaggio in un piccolo schermo incastonato sul sedile davanti, e la luce che da queste parti è proprio diversa e non si riesce a spiegare bene come.
Siamo carichi e abbiamo voglia di arrivare all’appartamento di Brooklyn. Con fatica ci tiriamo appresso i bagagli e gli strumenti e saliamo su un treno diretto a Jamaica Station. Pensiamo che è bello, per noi che siamo pirati, andare verso Jamaica Station, ci leggiamo dentro una piacevole coincidenza.

Sul treno un tizio ci vede e ci chiede se siamo lì per suonare al CMJ, ci facciamo due chiacchiere e gli lasciamo uno dei nostri adesivi con la faccia di Valderrama sopra. C’è una ragazza di Palermo seduta vicino a Luca. Ci racconta che studia Giurisprudenza e che sta facendo un tirocinio in uno studio a Manhattan. Camminiamo a fatica per Brooklyn, maledicendoci per non aver preso una navetta che ci portasse direttamente al 356 di Hancock Street. Un ragazzo vaga per il quartiere, cantando a squarciagola un motivo incomprensibile. La città è vecchia e sporca e c’è odore di cibo, ad ogni angolo, che sembra di stare in Europa. Te lo dimentichi quasi che c’è l’oceano lì a due passi. Infatti l’aria sembra quasi quella che respiri in un posto di mare e la temperatura è gradevole. Dicono che questo sia il periodo più bello per visitare la città.

Vediamo i bambini con le uniformi scolastiche che si rincorrono e qualche passante stanco, con l’aria avvilita. Ci sono i vecchietti che sono uguali in tutto il mondo, che attraversano lentamente la strada ai semafori e gli automobilisti che vanno di fretta gli inveiscono contro. In un piccolo negozio incontriamo un afroamericano, con un elmetto in testa; ci dice che lavora nei cantieri e che siamo innegabilmente più bianchi di lui; noi ridiamo, lui ci dice che siamo fratelli e ci mostra una Polaroid che lo ritrae con altri due ragazzi bianchi. «They’re my brothers too» — aggiunge. Gli diciamo che siamo italiani, che siamo una band e che siamo appena arrivati. Lui abbraccia Andrea, gli stropiccia i capelli e gli dice ridendo come un matto: «You’re Boy George, fucking motherfucker».
Tentiamo di stare svegli per fregare il jet lag e ci buttiamo sulla metro. Ci guardiamo intorno, cerchiamo gli sguardi complici di un’umanità che qui si esprime in tutta la forza delle sue differenze. Troviamo tanti sorrisi e gesti di complicità. Abbiamo gli occhi fatti per questo, anche se è tardi e li teniamo aperti a fatica. Facciamo i bravi e andiamo a dormire relativamente presto, domani abbiamo un sacco di volantini da distribuire.

Ti parla volentieri la gente di New York. Al ristorante o per strada. A volte sembra quasi un teatrino o una messa in scena, tutti in qualche modo esaltati perché siamo italiani e veniamo da lontano. In molti capiscono che siamo una band: «Are you a boyband, guys?» ci hanno chiesto in un posto a Brooklyn, dove Davide ha mangiato una zuppa di zucca che era così dolce che sembrava un dolce. Ieri è arrivato Davide. E pure Francesco. Loro sono due matti, uno in volo da Biella, l’altro da Johannesburg. Loro sono Vina Records, la nostra etichetta, management, e famiglia, soprattutto. Siamo andati a prendere Francesco nel cuore pulsante di Manhattan, e Davide direttamente a Times Square. È sempre strano ed emozionante vedere due persone care in un contesto diverso da quello abituale. L’incontro si carica di un’energia particolare, di un calore speciale che unisce le persone e fissa i momenti, come nei ricordi dei film.

Manhattan, Union Square, la 5 strada. La strada è un delirio, un casino totale, un fiume umano che si tuffa in un altro fiume, e un altro ancora, senza un senso preciso. Un gruppo di Jamaicani tenta di raggirarci e un po’ ci riesce. Coi pirati veri che ci vuoi fare? Ci diciamo che dobbiamo stare più attenti, che ci dobbiamo impegnare di più. È vero quello che dice Davide Toffolo, in una vignetta che abbiamo visto su Facebook: «New York non è una evasione: è un impegno, una guerra. Ti mette addosso la voglia di fare, affrontare, cambiare: ti piace come le cose che piacciono, ecco, a venti anni». Ti piace, sì. Anche se ti sembra quasi di conoscerla già e che le vere novità siano poi sotto la superficie delle cose. Colpa delle serie Tv, di Internet, della mitologia.

In metropolitana, Luca parla con un tale che ha una grossa cicatrice sulla guancia. Ci dice di essere Lord Superb, del Wu Tan Clan. Controlliamo su Google: è vero, figo!
Torniamo verso Hancock Street e verso una breve notte di sonno ristoratore. Ne abbiamo bisogno, ma si fa fatica a chiudere gli occhi. Ci sono rimaste troppe cose dentro. E poi, domani, finalmente si suona.

Dice che la Broadway taglia Manhattan in due. Dice che quando Warhol è stato a Napoli è stato lui a suggerire il nome Spaccanapoli alla strada che divide a metà la città partenopea. Ce lo racconta Davide, mentre attraversiamo New York trasportando una tastiera affittata che sta dentro ad un enorme baule che pesa più della tastiera stessa. Andiamo a prendere i pass. E un caffè, che ne abbiamo bisogno, perché qui bisogna muoversi e in fretta. Tutto è lontano e ci vuole tanto tempo per fare le cose. Questo posto ti mette alla prova, da subito, appena arrivi e l’energia dell’umanità ti si scaglia contro come un camion dei pompieri in corsa.

Nessuno ti caga veramente da queste parti, perché non sei nessuno, fondamentalmente. Come il tecnico del suono al Fat Baby, il locale dove abbiamo suonato: gli abbiamo fatto una domanda e lui semplicemente non ci ha risposto. Non si può dire che la gente sia scortese. Semplicemente tu non esisti, come loro non esistono. Sono singoli individui solitari che cercano un posto nel caos.
Andiamo a suonare. Siamo emozionati e un po’ nervosi: è il fatto di trovarsi sperduti in un luogo che è nella storia della musica e di rendersi bene conto che non siamo nessuno. Questo ti aiuta a restare focalizzato, a guardare bene i tuoi obiettivi e a sentire forte dentro l’anima delle cose che vuoi dire e raccontare. Siamo carichi, perché finalmente è arrivato il giorno e il momento di salire sul palco.

Il palco è piccolo, così come il locale. Piccolo e marcio. Vecchio. Ma c’è un calore interessante, un’atmosfera unica, si potrebbe dire. Come in tutti questi localetti newyorkesi, si sente male e l’impianto è spinto al massimo, e il pubblico è stretto e stipato tra il bancone, qualche divanetto e il palco di fronte. Saliamo sulla scala di emergenza che abbiamo trasformato in camerino. Ci mettiamo le nostre camicie hawaiiane e andiamo.
Succede tutto davvero in fretta, da non rendersene conto. Un ragazzo ci lancia un dollaro sul palco. È già ora di scendere. Ci sono altri due gruppi dopo di noi. Siamo abbastanza su di giri e restiamo, come siamo soliti fare, fino alla fine della serata. Per parlare con la gente, assorbire l’ambiente, accumulare ricordi. L’ultima band suona un rock piuttosto classico, ma con una buona attitudine. Si vede che si stanno divertendo. Il chitarrista salta come un folletto ubriaco sopra alla cassa della batteria, piegando il legno. Alla fine svuotano il palco e distribuiscono gli strumenti al pubblico.
Luca suona un timpano con le mani in mezzo alla sala. E poi prende il microfono fingendo di intervistare gli avventori, intimiditi e impreparati. Ridiamo come matti. Francesco, un amico biellese che suona il basso da paura e vive a New York da nove anni ormai, ci accompagna a mangiare qualcosa.
Torniamo verso Brooklyn su una macchina di Uber carica all’inverosimile. Passiamo sul Manhattan Bridge, di fronte allo skyline, e restiamo a bocca aperta. Le luci ci scorrono sugli occhi, lasciando una scia, come in quelle fotografie notturne sovraesposte. L’America ci dà un’altra buona notte, parlandoci forte nell’orecchio, dicendoci che è tutto figo, che è tutto bello: “Cool”, “Awesome”, “Amazing”. Ma è quando la gente non si capisce bene che è tutto figo, e che non ci sono sfumature. Noi siamo europei, con la polvere sulle spalle e ci va anche di guardare dall’altra parte, dove è un po’ più buio e si spengono le luci.

Ci siamo svegliati con ancora addosso il formicolio adrenalinico della serata. Saremmo stati pronti a suonare subito, appena svegli, lì in camera da letto, con le lenzuola e gli occhi stropicciati.
Durante questi giorni l’appartamento si è trasformato. Quel caldo e accogliente bilocale in una tranquilla zona di Brooklyn si è riempito di strumenti, di cavi, di borse e valigie, asciugamani e vestiti. Sono lontani i tempi in cui qualche ragazzetto, viziato da manager e produttori, sfasciava impunemente camere d’albergo.

Il giorno dopo il concerto ci muoviamo presto e usciamo in città, direzione Manhattan, per riportare gli strumenti che abbiamo affittato. Improvvisamente è arrivato l’inverno, con un vento gelido che sembra di essere in pieno dicembre. Ci stringiamo nei cappotti e ci affidiamo a zuppe e Chai Tea Latte per riscaldarci. Davide e Francesco ci aspettano a Union Square, vicino ai gruppetti di afroamericani che giocano a scacchi e a due pazzi esaltati che fanno numeri di breakdance. Ce ne andiamo verso Central Park. Attraversiamo Park Avenue e ci facciamo una lunga passeggiata nel parco. Ci sono le anatre, e ci viene in mente il Giovane Holden: “Sa le anitre che stanno in quello stagno vicino a Central Park South? Quel laghetto? Mi saprebbe dire per caso dove vanno le anitre quando il lago gela? Lo sa, per caso?” (J. D. Salinger, Il giovane Holden)

Che bella la curiosità, quante cose ti permette di scoprire, e quante persone e luoghi e suoni nuovi ti lascia scovare. È come giocare a nascondino con degli sconosciuti. Sconosciuti ovunque. Tanti almeno quanta la gente che calpesta queste strade o che sta seduta ad aspettare il treno della metropolitana, uno vicino all’altro.
Central Park è tranquillo, un immenso e verde angolo di pace in mezzo alla follia di Manhattan, con le foglie degli alberi che imbruniscono e il sole che lentamente scende, tingendo il cielo di un blu che diventa più scuro man mano che sali con lo sguardo, dalla cima degli edifici fino a guardare proprio sopra alla testa. Andiamo a vedere gli Strawberry Fields e il memorial dedicato a John Lennon. Facciamo un po’ i turisti e ci fotografiamo vicino alla scritta “Imagine”. Piaccia o non piaccia, quella canzone ha ancora oggi un senso forte, vivo e attuale.

Dobbiamo salutare Francesco e Davide, i nostri papà, che devono partire prima. Ci abbracciamo, ci battiamo sulle spalle e ci baciamo come italiani veri (ma non in senso patriottico o in versione Toto Cotugno). Poi camminiamo veloce per la città, saliamo e scendiamo dalla metro cercando di schivare il freddo pungente, e ci avviamo verso i Brooklyn Heights per guardare lo skyline al tramonto e compiere in maniera definitiva la nostra missione turistica. Ci arriviamo che ormai è tardi ed è già completamente buio. Niente tramonto cinematografico, ma lo spettacolo è davvero straordinario. Il ponte di Brooklyn, l’Empire State, la Freedom Tower e tutte le altre immagini da cartolina che celebrano lo stile di vita, l’opulenza e la ricchezza di questa terra di immense contraddizioni. Questi edifici che sono fino a prova contraria i monumenti della nostra epoca, quel panorama visto e rivisto mille volte, beh, per quanto scontato, ci ha lasciati a bocca aperta.
Che poi cos’è che, di fronte a un panorama, porta l’uomo a fermarsi a fissare l’orizzonte lontano, a meditare o anche semplicemente a perdersi nell’ammirazione? Che sia sempre la curiosità?

Abbiamo praticamente finito i soldi e dobbiamo tornare a casa. Per la nostra ultima serata newyorkese abbiamo trovato su Google un locale in zona Williamsburg, che suona tutte le sere world music e roba del genere.

Dobbiamo passare un po’ di tempo in metropolitana. Ormai ci siamo abituati, è l’ultima sera e siamo presi bene.
Il posto si chiama Bembe, è piccolissimo e tutto fatto di legno scuro, in stile africano; ci suona una band che fa afrobeat, si chiamano Super Yamba Band e spaccano, veramente. Fuori, durante la pausa, ci chiacchieriamo un po’ e facciamo discorsi complessi sui vini italiani, poi parliamo di alimentazione e consumo responsabile. Iniziamo a togliere la ruggine dall’inglese proprio ora che è tempo di tornare a casa!
Ci svegliamo con un misto strambo di sensazioni. Vogliamo tornare in Italia a fare il nostro mestiere, con la valigia piena, un po’ più piena di quando siamo partiti. Ci sentiamo stanchi, ma soddisfatti; siamo silenziosi e pensierosi. Dobbiamo ancora elaborare il viaggio e, ogni tanto, ci perdiamo con lo sguardo a cercare di acchiappare le ultime immagini di New York.
Sul treno verso l’aeroporto c’è una bella donna sulla cinquantina. È bionda, indossa un bel vestito e degli stivali da cowgirl, ha un viso solare e sorride ad ogni persona con cui incrocia lo sguardo. I nostri strumenti attirano la sua attenzione e, come spesso ci è accaduto in questi giorni, ci scappa la chiacchierata anche con lei. Dice di essere una promoter e di fare da manager a parecchie band, tra cui gli Zombies. The Zombies! Quelli di “Time of the season”, porca galera!

All’aeroporto gli strumenti sembrano un poco più pesanti di quando ce li trascinavamo appresso nelle strade di New York pochi giorni fa. Il braccialetto del CMJ con scritto “Artist” non ce lo vogliamo proprio togliere. Lo portiamo ancora adesso, mentre siamo in aereo. Volo diretto Newark-Malpensa. Anche qui parliamo poco tra noi, restiamo concentrati sui nostri pensieri. Guardiamo un film, dormicchiamo, ascoltiamo un po’ di musica. Guardiamo fuori dal finestrino: c’è l’alba all’orizzonte, un’alba magnifica, che ha tutti i colori dell’arcobaleno. Poi ci sono le Alpi innevate e distese di nuvole sotto di noi. Passiamo attraverso una lieve turbolenza e una ragazza ha una paura folle, gli steward cercano di tranquillizzarla e poi la portano in fondo all’aereo — forse per sedarla, dato che dopo non si è più lamentata.

Da bravi pirati abbiamo attraversato la turbolenza e abbiamo navigato cullati dolcemente dalle morbide nuvole della notte sull’oceano. È quasi ora di andare sotto coperta, ma è difficile prendere sonno. Ci sono angoli di mondo ancora da esplorare, isole da conquistare. C’è da seppellire e proteggere il tesoro di questa esperienza indimenticabile; c’è da pensare a nuove storie da raccontare ai compagni di ventura che saliranno a bordo. E bisogna dar vita a nuove canzoni da cantare sul ponte di questa nave sgangherata, che imbarca acqua e scricchiola di brutto, ma che quando è sotto vento viaggia che è una meraviglia, che a guardarla ti si riempie il cuore.

www.dagomago.it

I Dagomago sono: Matteo, Andrea, Luca e Mattia. Tre biellesi e un valdostano che hanno scelto di vivere a Torino.
Allegri filastroccari che suonano musica pop con sonorità che mescolano l’indie e influenze caraibiche.
Sono la Best Arezzo Wave Band 2015 e grazie a questo riconoscimento vengono invitati il 16 ottobre 2015 a rappresentare l’Italia al CMJ Music Marathon di New York.
Dopo un anno di concerti in Italia e in altri contesti importanti come il Montreux Jazz Festival e Collisioni Festival, ora stanno lavorando al nuovo album.

--

--

Dagomago

Musica leggera da cantare a squarciagola. #evvivaladeriva