37 giorni alle Fiji

Daniele Alfarone
64 min readJun 4, 2017

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Versione originale in Italiano.
English translation
here.

Sono seduto qui, su delle travi di legno che circondano una casetta costruita a mo’ di palafitta a ridosso degli scogli. Sono solo, completamente solo, unico ospite di un’isola disabitata. Non saprei dire quanto sia grande, ma credo di averci nuotato attorno in mezz’ora, quando c’era ancora un po’ di luce. Non penso di aver nuotato molto velocemente, distratto com’ero dalla barriera corallina.

Ora è buio, buio pesto, i miei piedi a penzoloni qualche metro sopra l’oceano nero. Anche il cielo è nero pece, ma costellato di un’infinità di puntini luminosi, disposti in modo poco familiare. Il nero dell’oceano è a prima vista ininterrotto, ma a tratti, come per invidia, puntini bianchi appaiono e scompaiono in un istante tra le onde. Pesci bioluminescenti competono con gli astri, ed io sono l’unico spettatore. Il silenzio è di un’intensità assordante, e le onde dell’oceano più vasto del pianeta sembrano quasi rallentare per rispettarlo.

Ed io me ne sto seduto lì fuori, a contemplare la bellezza della notte, della natura, della vita. Sono felice, tremendamente felice. Sono esattamente dove voglio essere, dove sognavo di essere quando da bambino scrutavo con estrema curiosità ogni scoglio all’orizzonte, sognando di poterlo esplorare e farne il mio rifugio, per un pomeriggio o per sempre. La mia mente è libera di vagare e godersi ogni istante. “Portati un libro” — mi dicevano — “ti annoierai”.

Sono nel punto della Terra più remoto in cui abbia mai messo piede. La mia mente gioca a ricostruire tutte le tappe che mi sono servite per arrivare dalla porta di casa fino a qui.

Guida per 30m fino all’aeroporto di Milano Malpensa. Vola per 11h 30m fino a Hong Kong. Vola per 10h 15m fino a Nadi. Prendi un bus per 1h 30m per Lautoka. Prendi un bus per 6h per Natovi. Naviga per 4h fino al porto di Nabouwalu. Prendi un bus per 2h fino al bivio per Labasa. Prendi un bus per 1h 30m fino a Savusavu. Prendi un bus per 2h 30m per Boca Bay. Naviga per 1h fino all’isola di Taveuni. Cammina per 30m fino al villaggio di Somosomo. Prendi un bus per 45m fino a Maravu. Rema per 1h 30m fino alla disabitata Honeymoon island. Nuota per 2m fino alla casetta sul lato nord dell’isola. Sali le scalette.

Mi chiedo che cosa mi porti a essere incredibilmente attratto da posti come questo, e a scalpitare al solo pensiero di esperienze di questo tipo. Ma è difficile razionalizzare un istinto, così confuso nel cervello, così chiaro nello stomaco. Sforzandomi, mi verrebbe da dire che forse è una ricerca delle basi, dell’essenza della vita. Quando ci spogliamo di tutto ciò che non è “vitale”, che cosa rimane? Si dice che i bisogni fondamentali dell’uomo siano l’acqua, il cibo, e un tetto sopra la testa per ripararci dalle intemperie. Forse ci si dimentica, o si dà per scontato, che prima di tutto questo ci voglia un qualcosa su cui poggiare i piedi, sia la terraferma o il ponte di una nave. Solo una volta poggiati i piedi, l’uomo può preoccuparsi di cercare cibo, acqua e riparo. Raggiungere un isolotto in mezzo al mare è il giocare a costruirsi una vita da zero, partendo con quell’unica certezza di un lembo di terra sotto ai piedi. E poi chissà, magari giocando capire qualcosa in più sulla vita.

D’un tratto, il mio treno di pensieri e il maestoso silenzio vengono interrotti da un tuono in lontananza. Lo spettacolo della natura prepara colpi a effetto. Mentre sopra la mia testa le stelle continuano a brillare indisturbate, all’orizzonte i lampi rivelano nuvoloni neri. Il temporale se ne sta lì all’orizzonte, ma cresce d’intensità. Alcuni lampi sono così forti da illuminare l’intera scena a giorno. Per una frazione di secondo, scorgo il blu dell’oceano e il verde delle palme nell’isoletta davanti alla mia. La scena è di una bellezza tale che le parole non possono fargli giustizia.

Col passare dei minuti — o delle ore? — le nuvole avanzano verso di me, cancellando le stelle una dopo l’altra. Desidero con tutto me stesso un forte temporale. Niente può farti apprezzare un rifugio improvvisato per la notte, più di una tempesta tropicale in mezzo all’oceano. I venti iniziano ad alzarsi, trasportando i profumi del mare. Le onde non rispettano più il silenzio. Alle prime gocce d’acqua sulle mie braccia, mi riparo nella casetta. Usando il telefono come torcia, scovo un vecchio materassino di spugna e arrotolo la mia felpa a mo’ di cuscino. Sono sdraiato da pochi minuti, quando un diluvio torrenziale si riversa sull’oceano, su Honeymoon island, e sul tetto in lamiera della palafitta abbandonata. Le onde s’infrangono violentemente ai piedi del mio rifugio. Tra il rumore assordante e l’eccitazione, so già che dormirò poco o nulla. Ma a volte dormire è proprio l’ultimo dei bisogni.

Dall’altra parte del mondo

Con 22 ore di volo e uno scalo a Hong Kong atterro a Nadi, Fiji. Passare un giorno e mezzo seduto su comodi sedili, con aria condizionata, hostess che servono cibo a orari apparentemente casuali, e il Sole che sorge e tramonta a orari apparentemente casuali — intervallati da code per il metal detector, scritte in cinese, e cambi di aereo — non dà l’impressione di aver attraversato il pianeta. “Dall’altra parte del mondo” è un’espressione sistematicamente abusata, e quando davvero si è legittimati a usarla, si fa fatica a metabolizzarne il significato.

Al mio arrivo in aeroporto vengo accolto dal proverbiale caldo tropicale, e da un nativo fijiano, David, che mi dà un passaggio fino all’ostello. Due notti in un ostello sulla spiaggia e un biglietto d’aereo per la Nuova Zelanda tra 37 giorni sono tutto ciò che ho pianificato e prenotato. Non ho voluto leggere niente sulle Fiji, convinto che parlare con i locali e lasciandomi trasportare dalle opportunità avrebbe potuto darmi l’esperienza che cercavo. La prima cosa che David mi spiega sulle Fiji è che stasera all’ostello c’è la pizza in offerta. Gli spiego che sono italiano, che la pizza è italiana, e che questo non è esattamente quello per cui sono da queste parti.

Passo il viaggio incollato al finestrino, ipnotizzato dall’incredibile vegetazione. Alberi fioriti con tinte esagerate, palme altissime e piante che sembrano lottare per un centimetro di terra, sono lì a farti vedere di cosa è capace la Natura in condizioni ideali. Ci metterò una settimana a smettere di fissare gli alberi in continuazione e sembrare un deficiente.

Il tempo di mettere giù gli zaini in ostello e sono già in spiaggia. Ho un misto di stanchezza, fame ed eccitazione. Il mio orologio biologico ha rinunciato a capirci qualcosa, e tutto attorno a me è surreale. Fa caldissimo. La spiaggia è semi-deserta, solo dei bambini che giocano sul bagnasciuga, due asini legati a un albero e un tizio che mi offre di farci un giro sopra — il mio primo contatto con l’”industria del turismo”. Rifiuto gentilmente. Attratto da una capanna all’orizzonte, mi avvicino, e scorgo un piccolo aereo parcheggiato poco distante. Due nativi, un uomo e una donna, riposano su una panchina nella capanna. Il senso dell’intera scena non mi è molto chiaro. Mi spiegano che stanno aspettando una lettera, in arrivo da una qualche isoletta remota dell’arcipelago per mezzo di un altro piccolo aereo. In pratica, avevo di fronte una sorta di ufficio postale improvvisato.

La donna si chiama Vasiti, e ha passato la sua intera esistenza alle Fiji. Mi trovo a dover spiegare dove sia l’Italia, cosa si provi a vedere la neve, e che cosa diavolo stia facendo alle Fiji. Dovrò esercitarmi bene su queste domande perché saranno ricorrenti. A mia memoria, sono sempre stato affascinato da isole sperdute nell’oceano e dai loro abitanti. Il mio sogno era di esplorare isole così piccole da poterle girare a piedi, e vivere per un po’ come se fossi nato lì. Non devo aggiungere altro: Vasiti inizia a raccontarmi con orgoglio del suo villaggio, mi lascia il suo numero di telefono e insiste che sarò il benvenuto a casa sua.

Decido di farmi un giro a Nadi centro. Per la verità, le citta sono la cosa che meno mi incuriosisce delle Fiji. Le immagino come luoghi caotici, dove si cerca di vendere l’impossibile ai turisti, e dove la meravigliosa Natura ha dovuto lasciare spazio a edifici dal gusto discutibile. Quando però vedo arrivare il bus che mi porterà in città, mi sento come un bambino appena arrivato al parco dei dinosauri. È viola, e sembra uscito da un’altra epoca. Il motore è il più rumoroso che abbia mi sentito, e fa tremare l’intero bus e tutti i passeggeri. Non ci sono finestrini, né una porta d’ingresso. La corsa costa 1 dollaro fijiano, circa 40 centesimi di euro. Gira voce che siano autobus degli anni Settanta, scarti del governo dello Sri Lanka. E come non credergli.

Il mio compagno di viaggio, per questo pomeriggio, è un danese conosciuto un’oretta prima in ostello. Viaggiare tanto, in particolare se da soli, ti fa imparare a connettere con estranei in 10 minuti, senza troppi convenevoli, né aspettative per il futuro, per soddisfare quel bisogno di socialità che in fondo è in tutti noi. Inizialmente una mera necessità, alla lunga una gioia.

Nel giro di qualche ora della città ci siamo già stancati, e dopo aver constatato l’imprevedibilità dei trasporti fijiani, decidiamo di tornare in ostello a piedi. Lungo il cammino, noto un sentiero lungo un fiume nascosto tra le palme. Abbandonata la strada principale, in 100 metri ci ritroviamo in un villaggio ai margini di una foresta. Il fatto che non molti turisti si avventurino da queste parti è evidente sulle facce dei primi nativi che scorgono la nostra presenza. Veniamo scrutati con diffidenza. Io sorrido, gli spiego che sto esplorando la zona e chiedo di poter dare un occhio al villaggio. I nostri interlocutori cambiano completamente espressione, e ci danno il benvenuto. “Nessun problema, fate pure, attenzione ai cani però”. Tutti gli occhi sono puntati su di noi. I nostri occhi sono sui cani.

Procediamo tra abitazioni improvvisate fra gli alberi. Ad ogni angolo fijiani che affilano coltelli, tagliano noci di cocco, e creano tappeti da piante essiccate. Ogni decina di metri qualcuno ci urla “Bula!”, una parola fijiana che letteralmente significa “vita”, ma viene anche usata per salutare, per ringraziare… e probabilmente anche in altri modi, dato che si sente in una frase su due. Non è una parola di cortesia, o un semplice segno di educazione: ce la urlano anche persone che non possiamo vedere, alle nostre spalle, o dalla finestra di un’abitazione distante. È spesso l’inizio di una conversazione, di sorrisi, di un incontro. È una parola che mi accompagnerà per tutto il viaggio, emblema dell’ospitalità e della gioia di vivere fijiana.

A un tratto ci imbattiamo in lapidi antiche. Alcune riportano date di più di un secolo fa, mentre altre non sono neanche leggibili. La mia mente corre al passato di cannibalismo delle Fiji, una pratica comune fino a un paio di secoli fa. Mi viene la pelle d’oca a pensare che un cannibale possa essere sepolto proprio qui, davanti ai miei occhi. La nostra visita attrae l’attenzione di alcuni nativi, che ci raccontano quello che sanno sul cimitero, mentre si accomodano su delle lapidi come se fosse il salotto di casa.

Usciti dal villaggio, continuiamo a camminare, e dopo un’ora, qualche chilometro, e innumerevoli bula, raggiungiamo l’ostello. Ci rimescoliamo tra i turisti e riceviamo un invito a cena. Io spiego che ho davvero bisogno di sdraiarmi 5 minuti. Mi sveglierò 12 ore dopo. Tanto la pizza in offerta proprio non mi andava.

Un ragazzo in ostello mi spiega che gli abitanti dei villaggi possano essere estremamente accoglienti, soprattutto se si dimostra interesse e rispetto per i loro rituali. Seguendo tradizioni millenarie, molti villaggi sono ancora sotto il controllo di un “chief” — il capo villaggio — che si occupa del benessere della comunità. Pare che se vado al mercato cittadino, compro radici di kava — una pianta locale –, e le offro in dono al chief, sarò il benvenuto nel villaggio, e magari qualcuno mi offrirà un posto per la notte. Sembra in pratica di giocare a Monkey Island. Inutile dire che un’ora dopo sono già al mercato cittadino a cercare radici di kava.

Tornato in città, ne approfitto per conversare con altri locali. Oltre che iniziare a comprendere la loro cultura, sono alla ricerca di consigli su dove e come passare il mio tempo alle Fiji. Purtroppo mi accorgo presto che troppi cittadini o lavorano in un’agenzia viaggi, o hanno amici che ci lavorano. Come risultato, vengo spesso dirottato verso banchetti dove cercano di vendermi tour guidati a cifre esagerate. Ci metto poco a constatare che da queste parti quasi tutti i turisti, inclusi i ragazzi che viaggiano soli zaino in spalla, girano tramite tour guidati. Spesso verso isole paradisiache off-limits per i nativi, ad eccezione di quelli impiegati nei resort. Sarà difficile trovare alternative a questo stile di viaggio, ma sento che ne varrà la pena.

Più tardi torno in spiaggia, e alla vista di una barca in lontananza decido che è un buon obiettivo per una bella nuotata. Un altro ragazzo appena conosciuto mi segue. Dopo 20 minuti di nuoto combattendo le onde che cercano di riportarmi a riva, mi accorgo di essere fuori allenamento, e che il mio obiettivo è più lontano di quello che sembrava. Per un attimo penso di tornare indietro, ma ormai anche la riva è distante. Qualche centinaia di bracciate dopo, inizio a essere davvero stanco, ma ormai la meta è a portata. Una figura appare dalla barca e con un cenno ci invita a bordo. Accettiamo l’invito con estremo piacere.

Siamo finiti sulla barca di tre ragazzi di San Diego, che hanno navigato per mesi attraversando l’intero oceano Pacifico per arrivare da queste parti. Dieci minuti dopo mi trovo a sorseggiare rum, mangiare burritos e ascoltare storie su come sopravvivere a una tempesta nell’oceano. Tra un racconto e l’altro, ci rendiamo conto di essere su quella barca da due ore. Mi ritrovo a nuotare verso riva con un sorriso stampato sulla faccia, e con l’ennesima conferma di quanto l’interagire con sconosciuti sia una ricetta per la felicità.

All’orizzonte la barca che ha attraversato il Pacifico, fotografata dall’ostello.

La sera si finisce radunati attorno a un pentolone di kava. Due sorsi mi bastano per confermare quello che già mi avevano anticipato: sa di acqua sporca, ma non ditelo ai fijiani. Finisco la mia giornata su un’amaca, ad ammirare costellazioni sconosciute, che mi aiutano a realizzare di essere nell’emisfero sud.

Con un altro David — un ragazzo argentino conosciuto sorseggiando “acqua sporca” — torno ancora in città. Siamo entrambi determinati a uscire il prima possibile da quest’area turistica, e dirigerci verso villaggi remoti alla ricerca di autenticità. Tra chi ci spinge ancora verso agenzie viaggi e chi ci chiede cifre folli per guidarci fino al loro villaggio, inizio a demoralizzarmi. Sono qui alla ricerca di esperienze autentiche, d’interazioni genuine con i locali, e non sopporto di essere visto come un portafoglio che cammina.

Decido di acquistare una SIM locale, e provare a chiamare Vasiti. Il suo interesse e il suo invito sembravano davvero genuini. Chiudo la telefonata e sorrido a David: siamo invitati al villaggio di Vasiti. Tutto ciò che dobbiamo fare è salire su un bus locale per la città di Lautoka. Il tragitto copre buona parte della costa ovest dell’isola principale ed io mi ritrovo incollato al finestrino — sì, gli autobus a lunga percorrenza i finestrini ce li hanno. Mi scorrono davanti spiagge deserte, montagne ricoperte da un lussureggiante manto verde, villaggi di poche case di legno o lamiera, un’università, e fermate dell’autobus nel mezzo del nulla.

Quando arriviamo a Lautoka — un’altra caotica cittadina — Vasiti è lì ad attenderci con un gran sorriso. Attraversiamo il mercato cittadino con tutti gli occhi su di noi: siamo a 27 km dall’aeroporto internazionale, e sembrano non essere abituati a vedere turisti da queste parti, men che meno in compagnia di locali. Namoli è un villaggio a soli 5 minuti a piedi dal centro di Lautoka, ma è una realtà completamente diversa. Non ci sono strade. Solo sentieri in un enorme giardino tropicale e casette colorate sparpagliate senza un disegno ben preciso. Facce incredule si mostrano al nostro passaggio. Alcuni esclamano “Bula!” e ci stringono la mano, altri ci spiano dalle finestre.

La casa di Vasiti è di legno dipinto di bianco e blu. Vasiti ci spiega che fa troppo caldo per stare in casa, e stende per noi un tappeto di canapa all’ombra di un gigante albero di mango. Conversare stravaccati su un tappeto all’ombra è un’attività molto comune da queste parti, e viste le temperature e questi meravigliosi alberi è difficile biasimarli. Vasiti ci presenta dei bambini del villaggio, che si aggiungono senza convenevoli al nostro salotto improvvisato. Non mi è chiaro se ci siano legami di parentela tra i bambini e Vasiti, ma ho l’impressione che faccia poca differenza: i bambini scorrazzano per l’intero villaggio, e tutti sembrano prendersi cura di loro.

Alle Fiji, l’inglese è l’unica lingua utilizzata a scuola, e questo mi dà il privilegio di poter conversare con chiunque, bambini compresi. La timidezza è l’unico ostacolo da superare. Mi spiegano come si ottiene il kava dalle radici della pianta, come si determina la successione del capo villaggio, e come si lavora lo zucchero di canna. “Vuoi provare? Vuoi provare? Vuoi provare!?” si alzano le voci dei bambini, eccitati all’idea di poter far provare al bianco venuto da chissà dove qualcosa di nuovo. Nel giro di qualche secondo uno dei bambini ha sradicato una delle piante da zucchero di canna dal giardino, e ora litiga con gli altri bambini su quale sia la sezione migliore per me. A decisione presa, un altro bambino seziona la pianta con un machete arrugginito lungo quanto il suo braccio, e mi porge un pezzo sbucciato pronto da succhiare. Qualunque mamma italiana sarebbe svenuta davanti alla scena.

Dopo aver succhiato zucchero per merenda, facciamo una passeggiata nel villaggio. Ogni 20 metri si aggiunge qualcuno alla carovana, e faccio presto a perdere il conto di quanti siamo. Molti sono curiosi ma timidi, e passano il tempo a fissarci, mentre altri smaniano dalla voglia di farci vedere la scuola, la chiesa, il vecchio cimitero, e i luoghi dei loro giochi. A un certo punto finiamo in una spiaggia, tappezzata da piccoli buchi nella sabbia. Centinaia di piccoli granchi sembrano indaffarati a cercare cibo. I bambini mi spiegano che a fine giornata ogni granchio tornerà nel proprio buco, riconoscendolo senza problemi tra centinaia. In caso di pericolo però — come quando ci avviciniamo noi — si precipitano verso il buco libero più vicino, e ci rimangono fin quando non si sentono sicuri.

Mentre i bambini sono tutti intenti a intrattenerci e intrattenersi con noi, i ragazzi del villaggio sembrano essere molto più interessati ad assicurarsi che ci siano dosi di kava sufficienti per le serate seguenti. Polverizzare le radici di kava è un processo lungo e faticoso: i ragazzi passano metà pomeriggio a battere le radici a turno, con una barra metallica che io faccio fatica solo ad alzare. Una volta polverizzate, le radici sono mischiate ad acqua, e danno origine a questa tradizionale bevanda dal gusto spiacevole, ma con leggeri effetti narcotizzanti.

Nel lasciare il villaggio, ci imbattiamo in una macchina che trasporta un maiale nel portabagagli. Ancora vivo. Vasiti mi spiega che un abitante del villaggio è venuto a mancare di recente e, come da tradizione, l’animale sarà consumato a un banchetto indetto per il funerale. La carne di maiale e di manzo è molto costosa per i locali, e viene cucinata solamente per occasioni importanti — tipicamente matrimoni e funerali.

Per me e David è ora di tornare in ostello. Ringrazio Vasiti di cuore, e lei insiste che devo tornare a trovarla prestissimo. Non farà fatica a convincermi. Durante il viaggio di ritorno in autobus, sempre con gli occhi sul finestrino, rifletto sulla fortuna che ho a essere qui, e a poter vivere esperienze del genere. Sono successe così tante cose che faccio fatica a realizzare di aver messo piede sull’isola solo 3 giorni fa. Penso che varrà la pena prenderne nota giorno per giorno. Questo racconto è il risultato di questa decisione.

La casa blu dell’albero di mango

L a visita al villaggio di Vasiti mi ha dato la conferma che per trovare quello che cerco devo allontanarmi il più possibile dall’aeroporto internazionale, dalle agenzie viaggi e dalle strade asfaltate. In ostello vengo a scoprire dell’isola di Taveuni, un paradiso che promette di avere alcune delle migliori spiagge dell’arcipelago, vegetazione ancora più incredibile di quella che ho attorno, parchi naturali, e delle comunità di nativi fijiani che la abitano da millenni — non un altro luna-park per occidentali.

L’isola è a più di 300 km di distanza, e il modo più conveniente di raggiungerla è prendere un volo interno, ma non ho dubbi sul cercare di arrivarci con mezzi locali. Per quanto possa essere scomodo, lungo, e difficile da organizzare, sarà un’avventura interessante di per sé. Dopo ore passate tra siti web obsoleti, scopro che una delle opzioni è di prendere un traghetto dal porto di Lautoka, non lontano da casa di Vasiti. Il piano è presto fatto: tornare a Namoli, il villaggio di Vasiti, e poi partire per Taveuni.

Il giorno dopo è ora di lasciare l’ostello. Affido a David — l’animatore dell’ostello — uno dei miei due zaini. Voglio viaggiare il più leggero possibile, per avere massima libertà. Non ho neanche compagni di viaggio oggi. La vera avventura può iniziare.

Salgo su un autobus per Lautoka, e mi accorgo di essere l’unico bianco. È una sensazione nuova e piacevole. Mi prometto di tornare nelle zone turistiche che circondano l’aeroporto internazionale solo quando ci sarà da prendere l’aereo per lasciare il paese. Viaggiando su autobus locali, le Fiji sembrano più estese di quanto non siano. La pessima condizione delle strade e dei mezzi fa si che il mio viaggio da Nadi a Lautoka duri quasi un’ora e mezza, per meno di 30 km.

Vasiti mi ha preparato una camera per la notte. Era la camera di suo figlio, che ora studia all’università di Suva, la capitale. Una stanza di 3 metri per 2, senza porta, con un materasso da campeggio buttato a terra e un vecchio cuscino — ma io non potrei essere più contento. Il sogno di essere ospitato da nativi in un villaggio diventa realtà.

I bambini del villaggio sono a casa per le vacanze scolastiche, e passo la giornata giocando con loro. Vedendomi per la seconda volta nel loro ambiente, hanno ormai perso ogni inibizione, e mi insegnano qualunque gioco conoscano, al ritmo di uno nuovo ogni cinque minuti. La maggior parte dei giochi prevede rincorrere dei bambini e/o una palla: dopo due ore sono esausto. Mentre cerco di rifiatare, mi viene un’idea. Avevo deciso di portare un diablo dall’Italia, perché quando fantasticavo sul vivere in un remoto villaggio delle Fiji, pensavo che quel semplice gioco sarebbe potuto essere un ottimo modo per connettere e interagire con i bambini. Le mie fantasie non potevano essere più accurate. Il tempo di tirarlo fuori dallo zaino, e il diablo catalizza l’attenzione dei bambini, che avrebbero passato l’intero pomeriggio a giocarci.

Alla lunga, anche i bambini finiscono per essere esausti, e mi concedono una tregua per il resto della giornata. Vasiti mi invita in casa a bere tè — strascichi della colonizzazione britannica — e mangiare riso cucinato col latte di cocco. Il tutto sdraiati sui tappeti nel salotto. Non ci sono sedie, né alcun altro pezzo di mobilia, fatta eccezione per un tavolino in un angolo e un frigo rotto, ora utilizzato come dispensa. Vasiti mi spiega che non le piacciono le sedie, e che invece adora sdraiarsi sui tappeti. Spesso ci passa anche la notte, preferendolo al materasso che ha in camera.

A Namoli non ci sono strade, e neanche indirizzi. Camminando per il villaggio ho conosciuto la ragazza che abita “nella casa dell’albero del pane”. Il mio indirizzo è “la casa blu dell’albero di mango”. Il sistema funziona bene, perché tutti sembrano aver capito dove abito.

Al termine di un’altra intensa giornata, mi preparo a trascorrere la prima notte in un villaggio, ma in camera vengo accolto da una blatta di 7–8 centimetri che sollazza sul mio cuscino. Leggermente inorridito, chiamo Vasiti. “Tranquillo, è un segno che pioverà domani”, mi spiega ridendo. Per me invece è un segno che sarà una lunga notte.

La previsione metereologica della blatta si rivela accurata: mi sveglio nel mezzo di un diluvio. La pioggia è una manna da queste parti, le temperature scendono di qualche grado e l’aria torna respirabile.

Ho promesso a Vasiti che oggi cucinerò pasta per lei e i due bambini che bazzicano più spesso da queste parti. Setacciando i 3 supermercati della vicina città, riesco a trovare gli ingredienti per una carbonara. I due bambini passano 20 minuti a cercare di accendere un fornello al kerosene e un’ora e mezza dopo il piatto è pronto. Sicuramente la carbonara più faticosa della mia vita, ma vederla divorata in 3 minuti ripaga gli sforzi.

Nel pomeriggio mi rimetto a girovagare per il villaggio. Ormai molti sanno di me, e sono contenti di scambiare due parole. Camminando, arrivo in un’area del villaggio che pare una discarica a cielo aperto. La scena è scioccante. I bambini giocano sulla spiaggia con la spazzatura portata dalla marea, e un argine improvvisato di vecchi copertoni peggiora la vista. All’orizzonte, una lussuosa nave da crociera naviga verso isole paradisiache che non deluderanno le aspettative create da patinati cataloghi di viaggio. Mi sento privilegiato di poter assistere a una realtà che in pochi vedranno. Le Fiji sono anche queste.

I miei pensieri sono interrotti da un possente uomo barbuto: “Bula! Come va? Hai mai bevuto il succo di cocco?” Un minuto dopo si arrampica su una delle tante palme che circondano casa sua, e stacca una delle noci a bastonate. Con un’incredibile manualità, intaglia la noce con un machete e me la offre pronta da bere. Il succo di cocco non ha un gusto molto diverso dall’acqua zuccherata, ma la sua freschezza e le circostanze che lo hanno portato nelle mie mani mi fanno provare qualcosa di speciale. Per quanto possa suonare hippie, per un attimo mi sento davvero in contatto con la natura, e con gli uomini di questa terra.

Tornando verso la casa blu, mi siedo a gambe incrociate, e ascolto in silenzio tutto quello che due bambini del villaggio hanno da raccontarmi. La sorella che nel sonno si è sentita toccare un piede da Satana, per qualche ragione. La nonna che è in grado di guarire ferite al solo tocco. Credenze non molto diverse da quelle diffuse in Italia fino a qualche tempo fa.

Alcuni parenti di Vasiti si erano ripromessi di accompagnarmi ad Abaca, un villaggio secluso tra le montagne della zona, circondato da cascate, dove vivono alcuni loro cugini. Un forte temporale tropicale, con tuoni che fanno tremare la casa blu, ci ha fatto cambiare idea. Ne approfitto per andare al porto a cercare di capire come arrivare a Taveuni. Ottenere informazioni aggiornate e precise è un’impresa. Vengo a sapere che la compagnia che operava per Taveuni dal porto di Lautoka è fallita. Dopo ore d’investigazione, scopro che se prendo un bus notturno per Natovi, un traghetto per l’isola di Vanua Levu, altri due bus per raggiungere Savusavu, e un altro traghetto… in un paio di giorni dovrei riuscire a mettere piede sull’isola di Taveuni. Mi sembra di essere parte di un documentario intitolato “La vita prima di Internet”.

La sera, Vasiti riunisce tutti i miei compagni di giochi per celebrare la mia partenza. Mi sommergono di domande sui miei piani futuri, sui posti che visiterò e su quando tornerò a casa. Pregano per la mia buona salute e felicità. Ballano canzoni di Enrique Iglesias che in qualche modo sono riusciti a caricare su un vecchio telefonino. E quando poi cantano per me a cappella una canzone locale, tradizionale per gli addii, io mi ritrovo in un angolo a combattere tra commozione e felicità.

I confini dell’immaginazione

M i ritrovo a ridere da solo nel letto. Mi giro e mi rigiro, fisso la zanzariera che mi protegge da ogni sorta di insetti, e mi perdo nei miei pensieri. Sono passati 12 giorni dalla mia notte su Honeymoon island. Come quella notte, prendere sonno sarà un’impresa. È un altro attacco di felicità intensa.

Sto iniziando a perdere il conto dei sogni che sto realizzando alle Fiji. Non mi sembra vero. È tutto così surreale. Per fortuna ho deciso di tenere un diario giornaliero, così che se tra qualche anno mi brilleranno gli occhi pensando alle Fiji, non mi lascerò ingannare dall’idea che questo sia solo frutto di ricordi idealizzati nel tempo.

Quell’estrema curiosità che da bambino mi portava a nuotare verso scogli lontani — o quantomeno a immaginare di farlo — è, per fortuna, ancora lì. È quella stessa curiosità che oggi mi porta a setacciare mappe geografiche alla ricerca di un puntino appena visibile che interrompe distese d’inchiostro blu. E, una volta puntato il dito, desiderare con tutto me stesso di raggiungerlo per poter scoprire la vita che i suoi abitanti si sono costruiti, per vivere con loro e come loro per un po’, mangiare con loro, giocare con i loro figli e ascoltare le loro storie. Queste erano le immagini — e i sogni — che avevo in testa, quando ho deciso che avrei prenotato un volo verso qualche puntino nel Pacifico. Dopo cinque giorni ospite in un altro villaggio, a quasi 300 km da Namoli, si è avverato tutto quello potevo immaginare e molto di più.

Ho passato notti sulla spiaggia a contemplare un incredibile cielo stellato, di quelli che puoi ammirare solo dove l’illuminazione pubblica non è ancora arrivata. Ho passato notti ad ascoltare le storie di ragazzi della mia età che non si sono mai mossi da lì, e neanche gli passa per la testa di farlo. Ho passato notti a cantare Bob Marley, interrotto da bicchieri di vino d’ananas fatto in casa.

Ho giocato a rugby in spiaggia, quando la marea ritirandosi ci regalava 50 metri di campo giochi. Ho banchettato con pesce appena pescato, con tutta la famiglia, e con tutti quelli che si trovano a passare da lì. Mi sono fatto strada in una fitta giungla a colpi di machete. Sono rimasto per ore ad ascoltare le storie della nonna, sul senso di comunità del villaggio, sulla colonizzazione inglese, sulle navi da crociera che attraccano sempre più frequentemente, e sugli strambi viaggiatori solitari che si sono spinti fin lì, alla cui lista verrò aggiunto anch’io. Ho passato quasi tutti i miei pomeriggi a giocare a beach volley, circondato da palme e maestosi alberi secolari, su cui i bambini si arrampicavano per distrarsi dalla frustrazione nell’essere troppo piccoli per poter partecipare. E quando poi il caldo e la fatica si alleavano, ho aspettato pazientemente in coda per potermi rigenerare sotto la gelida cascata che scorre poco lontano. Il limite era proprio la mia immaginazione.

“Ti serve un posto per passare la notte?”

Ancora commosso, lascio Vasiti e il piccolo mondo di Namoli a notte fonda per prendere un autobus notturno verso Natovi, una cittadina portuale dall’altra parte dell’isola principale. Dopo 6 ore di viaggio, alle prime luci del mattino mi imbarco su un traghetto per l’isola di Viti Levu. Così si spostano i locali, e io sono felice di poter seguire le loro rotte. Attorno a me, nessuna traccia di turisti. Il viaggio passa tra sonnolenza, venti caldi, piccoli isolotti ricchi di vegetazione, e delfini che giocano con le onde del traghetto.

Arrivato sull’isola di Viti Levu — la seconda per superficie alle Fiji — il primo autobus mi regala un tour senza prezzo. Attraversiamo villaggi immersi in una natura che fa invidia a qualunque giardino botanico, e foreste che avevo visto solo in Jurassic Park. Più mi allontano dalle zone popolate, e più gli scenari si fanno incredibili.

Nel secondo autobus per la cittadina di Savusavu, mi si avvicina un ragazzo del luogo:

Hey, di dove sei?” — “…”
Che ci vai a fare a Savusavu?” — “…”
Ti serve un posto per passare la notte?” — “…”

Alla terza domanda, ho già un posto dove dormire, e ancora non so come si chiama il mio ospite. Josh lavora sull’isola principale, ma di tanto in tanto torna dalla sua famiglia in un villaggio fuori Savusavu. Faccio fatica a crederci: sarò ospite in un secondo villaggio, da un ragazzo conosciuto da circa 1 minuto e mezzo. Immagino che quando racconterò questa, penseranno che stia esagerando un po’.

Savusavu è una piccola cittadina portuale, con una pittoresca baia, nella quale i pochi fortunati viaggiatori ad averla scoperta ormeggiano la propria imbarcazione. Io e Josh percorriamo in taxi la strada che sale sopra la cittadina, e dopo innumerevoli soste per salutare passanti, arriviamo in paradiso. Nukunuve è un villaggio di un centinaio di case, immerso nell’ennesima splendida foresta tropicale. L’unica strada che lo attraversa è così tranquilla che le mucche ci sostano indisturbate. Da un lato della strada c’è una spiaggia incontaminata, e pittoreschi isolotti che decorano l’orizzonte; dall’altro le casette in legno, ai piedi di montagne ricoperte da palme. Sono in estasi.

Josh mi presenta gli altri ragazzi del villaggio. Il piano per il tardo pomeriggio, come da prassi, è di giocare a beach volley. Oggi si gioca nel giardino di “quelli di Kiribati”. Quando ero ancora in Italia, avevo letto che Kiribati — un altro arcipelago del Pacifico — sta letteralmente affondando per via dell’innalzamento del livello dell’oceano. Alcuni degli abitanti che vivevano lungo le coste sono stati costretti ad abbandonare le proprie abitazioni, e il governo locale stava acquistando dei terreni in altre nazioni del Pacifico per ridare una casa a chi l’aveva persa. La partita di oggi si gioca presso una di queste case.

Waterfall?” — “Yes, yes, yes!

Dopo ore di volley, una carovana di ragazzi sudati, chi scalzo chi in infradito, si incammina in un sentiero nella foresta. Arriviamo ad una cascata, e facciamo a turno per docciarci. L’acqua gelida è un refrigerio istantaneo dal caldo incessante, e una vera gioia per me. La sera poi, ci si sposta da amici di Josh per passare la notte. Le porte sono sempre aperte, e i salotti sempre pronti a ospitare qualcuno.

La strada non è illuminata. Davanti a noi solo stelle, i profili delle palme, e la luce di un cellulare per non andarci a sbattere. Se tutto ciò vi suona surreale ed esagerato, non preoccupatevi. È la stessa cosa che ho pensato io, mentre cercavo di prendere sonno su un divano.

A detta dei locali, le montagne che circondano il villaggio ospitano una vera e propria giungla. Convinco Josh e altri ragazzi a portarmici, tanto non sembrano essere molto impegnati. Il mio traghetto per Taveuni può aspettare — è il bello di non avere rigidi piani da rispettare. Uno dei compagni di escursione è Sonny. A prima vista un esaltato, fanatico dell’esercito. Alto quasi 2 metri, muscoloso, in giro con occhiali da sole e pantaloni militari. Ma basta parlarci mezz’ora per scoprire che è il più simpatico di tutti ed è buono come il pane. Scherza continuamente, e in zona lo conoscono tutti. Non mi capita spesso che la prima impressione sia così fuorviante, ma quando succede, e la sorpresa è in positivo, fa davvero piacere.

Man mano che ci inoltriamo nei sentieri di montagna, la natura si fa sempre più viva e arrogante. A un certo punto il sentiero svanisce, e Sonny ci fa strada tra le piante a colpi di machete. Attraversiamo una vegetazione per cui ho finito gli aggettivi, intervallata da fiumi e cascate. Mi ritrovo al cospetto di ragni di 10 centimetri, per fortuna innocui. Ancora una volta, sono incredulo: sono davvero nella giungla. Da bambino sognavo un giorno di visitare la foresta amazzonica, e questo è lo scenario che più si avvicina a quel sogno.

Nel tornare, chiedo a Sonny che cosa faccia esattamente nella vita, una di quelle domande che noi occidentali non possiamo fare a meno di porre. Mi spiega che i soldi non servono molto da queste parti. I locali ereditano terreni e case di generazione in generazione. Il clima ideale fa sì che non ci sia da spendere per riscaldamenti o vestiti pesanti — molti girano in infradito, costume e maglietta, 365 giorni l’anno. Si è circondati da alberi che producono nutrienti frutti tropicali, e il mare regala pesce in abbondanza. Molti scelgono di lavorare per potersi permettere qualche “lusso” in più, ma se ci si accontenta, ci si può arrangiare facilmente. Quando Sonny decide che vuole avere qualche soldo in tasca — tipicamente per alcool e sigarette — imbraccia il fucile da pesca, cattura qualche chilo di pesce, e lo vende al mercato locale.

Guardati attorno, siamo in paradiso. E io non credo di dover avere un capo, in paradiso”.

Al tramonto, la bassa marea regala decine di metri di spiaggia, che i ragazzi trasformano in un campo da rugby. Mi invitano a giocare, spiegandomi che — per mia fortuna — si tratta di “touch rugby”, una variante non violenta del rugby, dove per fermare l’avversario non serve placcare, ma è sufficiente toccarlo con una mano. La giornata finisce in spiaggia, tra stelle, chitarre, e vino d’ananas. Già, da queste parti non servono molti soldi.

Taveuni

I l silenzio è totale. Il villaggio non si è ancora risvegliato. Zaino in spalla, percorro la strada ancora buia. Ho un gran mal di testa. Ho dormito a malapena tre ore, e il vino d’ananas non aiuta. Sono andato via senza neanche salutare Josh, non mi pareva il caso di svegliarlo presto dopo una notte così. L’alba è incantevole, i colori sono in costante evoluzione.

Prendo un taxi per Savusavu con un ragazzo del villaggio, uno di quelli che lavorano. Le sue vacanze sono finite, e per lui è ora di prendere un traghetto per una qualche isola esclusiva, dove servirà occidentali in qualche mega resort. Per me invece dopo il taxi c’è un autobus, un traghetto, e un altro autobus. A cui vanno aggiunti 30–40 minuti a piedi, per andare dal porto alla fermata dell’autobus. Sotto un sole cocente, cammino in compagnia di una ragazza di New York, Jess, mentre l’aiuto a portare la pesante attrezzatura che si trascina in solitaria in giro per il Pacifico, alla ricerca delle più spettacolari barriere coralline, e di quella sensazione di serenità assoluta che dice di riuscire a trovare solo in fondo al mare.

Taveuni è lontana dalle rotte turistiche più battute, e per evitare di rimanere senza tetto, ho deciso di prenotare un letto nell’unico ostello dell’isola. Tornare in un ostello colmo di turisti, dopo giorni passati a vivere con nativi in villaggi in cui ero l’unico straniero, mi toglie un po’ di entusiasmo. Il contrasto è disarmante. Sono circondato da ventenni che sono qui a fare villeggiatura, a farsi servire pesce appena pescato, a farsi portare in spiagge incontaminate dove le foto sicuramente verranno bene, a bere, e lamentarsi della mancanza di comfort. Molti di loro arrivati qui in 60 minuti con un volo diretto. Continuo a ripetermi che in fondo le persone viaggiano per motivi diversi, ma faccio fatica ad accettare che così tanti prendano una terra remota e affascinante come niente di più che un grande parco giochi. Per fortuna ci sono in giro persone come Jess, che hanno un sorriso per tutti, fanno le cose a modo loro, e sono alla ricerca di esperienze autentiche, di qualcosa che li arricchisca, e che magari arricchisca pure quelli che ne incrociano il cammino.

Tra stanchezza e post-sbronza, passo il pomeriggio in spiaggia a riprendermi, e la sera finisco per cedere a un tavolo di inglesi e americani che si sbronza coi soliti drinking game. Me lo concedo solo perché non ho la forza di fare altro.

Dopo una dormita rigenerante, decido di farmi un giro in “città”, cioè nel villaggio di Somosomo, l’area più civilizzata dell’isola, con l’unico bancomat, e l’unico edificio a più piani. Taveuni ha una sola strada che costeggia l’isola — per la verità neanche tutta –, servita da un autobus che passa 3 volte al giorno, a orari non facilmente prevedibili. Decido che è il caso di provare a fare l’autostop, e in pochi minuti vengo tirato su dal titolare di uno dei tanti resort dell’isola. Naturalmente un bianco, che mi dice di non essere mai stato in Italia, ma che comunque ha due Ferrari.

All’arrivo a Somosomo, sono attratto da una casetta verde che sembra essere il centro nevralgico della vita sociale della zona. Si può giocare a biliardo, farsi barba e capelli, ripararsi le scarpe, e comprare da mangiare. Mi farò stracciare a biliardo da un ragazzo locale, al prezzo di 50 centesimi di dollaro fijiano, circa 20 dei nostri centesimi.

Finito il mio giro, attendo pazientemente e speranzosamente alla fermata dell’autobus. L’autobus arriva abbastanza in fretta, ma parte per la direzione opposta. Sorpreso, chiedo lumi agli altri passanti.

“Tranquillo, poi fa inversione e va nella tua direzione.”

Io e altri ragazzi dell’ostello recuperiamo tubo e maschera e ci presentiamo a un capanno lungo la spiaggia che noleggia kayak. In ostello mi hanno parlato di un’isoletta chiamata Honeymoon che pare sia del tutto disabitata. Per ordine di una ragazza del gruppo, passiamo un quarto d’ora a ispezionare i kayak alla ricerca di eventuali ragni, e al suo via libera ci mettiamo in mare. Con la bassa marea l’acqua è calma e limpida, e rivela una barriera corallina pochi metri sotto di noi. A un certo punto, mentre remo in contemplazione, sento un prurito al braccio. Mi volto, e mi trovo un grosso ragno peloso che mi cammina addosso. Con una reazione poco virile, cerco di scacciarlo, e mi ritrovo in acqua col kayak ribaltato. L’ispezione dei kayak non era poi un’idea così stupida.

Ripresomi, ricomincio a remare, e poco dopo scorgo quattro piccole isole allineate all’orizzonte. Non sono sicuro su quale sia Honeymoon, ma dall’eccitazione distanzio i miei compagni e in mezz’oretta attracco nella seconda isola più piccola. È davvero disabitata. Una collinetta in mezzo al mare, rocciosa, decorata da palme e da una barriera corallina privata. Passiamo qualche ora a fare snorkeling attorno all’isola e arrampicarci sulle rocce. Io sono incuriosito da una piccola palafitta eretta sugli scogli. Nuoto qualche metro, salgo le ripide scale di legno, e con mia sorpresa trovo il lucchetto della porta aperto. Sembra un vecchio ripostiglio abbandonato. È pieno di cianfrusaglie, ma il mio occhio cade subito su un materassino di spugna buttato in un angolo. E se io, una di queste sere…

Ci mettiamo sulla via del ritorno, perché la ragazza che aveva paura dei ragni ora ha paura che ci sorprenda l’alta marea. A lei l’idea che mi è appena venuta non la dico neanche. Torno in ostello eccitatissimo: fermo ogni persona che trovo e gli parlo di quest’isola splendida, disabitata, dei kayak, e della palafitta dove potremmo passare la notte. La risposta che ottengo da tutti è più o meno la stessa: “Ah, che idea fantastica! Quando torni voglio sapere com’è andata!

Ho conosciuto un gruppetto di 4–5 persone e ho deciso che oggi mi aggrego alle loro escursioni semi-organizzate. Non è di certo il mio modo preferito di esplorare un posto nuovo, ma ogni tanto si può fare. Il giro col nostro taxista personale prevede due tappe. La prima è all’International Date Line. L’isola di Taveuni è tagliata a metà dal 180° meridiano, che separa convenzionalmente l’oggi dal domani. Una leggenda locale narra di un proprietario terriero che sfruttava questa linea immaginaria per far lavorare i suoi uomini 7 giorni su 7. Quando uno protestava dicendo che non si dovrebbe lavorare di domenica, lui rispondeva:

Vai a zappare 50 metri più in là. Lì è già lunedì.

La seconda tappa è in una foresta nel cuore nell’isola. Nei millenni, un fiume ha scavato uno scivolo naturale nella roccia. Un gran regalo della natura ai bambini della zona, che qui ci passano interi pomeriggi. Essendo questa una tappa per varie escursioni, i locali qui sono abituati a veder turisti, e ci spiegano come scivolare lungo le rocce. “Vi farete solo qualche graffietto” — ci rassicurano. Dobbiamo lanciarci col sedere a terra e le mani sulle ginocchia. Loro invece li vedi prendere la rincorsa e farsi l’intero scivolo in piedi, di fatto facendo surf sulle rocce.

Passo la sera a conversare con un fotografo che mi spiega come anche con la mia macchinetta non troppo avanzata avrei potuto fotografare le stelle. Dopo svariati tentativi, riesco a catturare qualche stella, e me ne vado a letto contento.

Mi sveglio carico come una molla. Stanotte voglio dormire su quell’isoletta disabitata. Si sono tirati tutti indietro, quindi ci andrò da solo. Ci metto poco a constatare che non è facile farsi affittare un kayak per 48 ore. Nessuno glielo ha mai chiesto, e la scusa che devo andare a trovare un amico in un campeggio lungo l’isola non funziona. Continuo a camminare lungo la spiaggia alla ricerca di altre possibilità, finché non vedo un kayak legato a un albero. Cerco invano il proprietario, ma chiedendo nei paraggi rimedio un numero di telefono. Non ho dietro un cellulare, quindi torno in ostello canticchiando una canzone inventata per ricordarmi il numero.

Al rientro incontro Tim, un inglese sui quaranta che ha appena finito di pedalare l’intero globo, in un paio d’anni. Spesso persone che intraprendono viaggi del genere sono di grande ispirazione per me, e Tim non mi delude. Mi racconta qualche aneddoto, e poi si finisce a parlare di perché viaggiamo, di cosa ti lascia, di cosa ti toglie. Mi accorgo di avere una visione molto simile alla sua. Parliamo di quello che succede alla lunga, di quelli che viaggiano ininterrottamente da dieci anni, di quelli che sembra stiano scappando da qualcosa. “You know, it’s great to have something to go back to” — cioè che è bello poter avere qualcuno, o qualcosa, da cui tornare. Rendere il viaggiare una routine ne uccide l’essenza.

Poi mi dice una cosa che non dimenticherò mai.

Quando scorro le migliaia di fotografie scattate nei posti più disparati in questi due anni, mi accorgo che il primo periodo è fitto di paesaggi, natura, viste mozzafiato. Poi, gradualmente, nel tempo, nelle mie foto compaiono sempre meno paesaggi, e sempre più volti, ritratti di persone incontrate lungo il cammino. Se prendo a caso una foto di un paesaggio, anche cercando di concentrarmi, a volte non riesco proprio a ricordare se quella splendida vista fosse in Sud America, in Australia, o chissà dove. Se invece vedo un volto, posso facilmente dirti dove ho scattato quella foto, e raccontarti la storia dietro a quell’incontro.

Saluto Tim, mentre lui cerca di convincermi che alla fine del mio periodo in Nuova Zelanda dovrei comprarmi una bicicletta e tornare in Italia pedalando.

Finalmente riesco a mettermi in contatto col proprietario del kayak. Con 40 dollari fijiani e una promessa di ritornare in due giorni, ho finalmente il mio mezzo di trasporto. È un kayak biposto, quindi non facilissimo da manovrare da solo, ma poco importa, sono già in acqua. È già tardo pomeriggio. L’alta marea è nel pieno, ma in questo momento non voglio sentire ragioni. Il mare è abbastanza mosso. Osservo i punti dove si infrangono le onde per aggirare le barriere coralline. Obiettivi primari: primo non ribaltarsi, secondo non pensare agli squali. In saccoccia ho cellulare, tubo, maschera, telo, acqua, e tonno. Tonno in scatola di quello senza linguetta — chissà perché esistono — e senza un apriscatole. Sono in mezzo all’oceano a remare felice come una pasqua, distratto a volte dal pensiero delle onde, degli squali, o di come aprirò quel tonno.

Ormai sono in prossimità dell’isola, e per fortuna le onde non sono molto grosse. Mi guardo un po’ attorno per capire qual è il punto più agevole dove attraccare. Con un po’ di impegno, riesco a saltar giù dal kayak in mezzo alle rocce con le caviglie intatte e il telefono asciutto. A fatica, trascino il kayak tra le rocce per qualche metro verso l’interno, così da rimanere invisibile alle barche. L’isola è sì disabitata, ma immagino sia comunque proprietà di qualcuno…

Ora Honeymoon island è davvero tutta per me. Mi arrampico sulle rocce fino a raggiungere la palma più alta. Lì, cullato dalla brezza del mare, rimango in contemplazione della mia conquista e della vista esclusiva che offre. Mi godo il calare del sole e riscendo per sfruttare gli ultimi minuti di luce in acqua. All’imbrunire, non mi resta che ritirarmi nella casetta e dedicarmi alla mia scatoletta di tonno. In 30 minuti di lavoro, con l’ausilio di un cacciavite e una sega arrugginita di mezzo metro, la scatoletta è sconfitta.

Esco a sedermi sulle travi di legno della palafitta, a penzoloni sull’oceano nero. Il cielo è meraviglioso, stellato, con all’orizzonte i primi timidi tuoni…

Tra il frastuono e la paura di essere scoperto, lascio la casetta con le prime luci dell’alba. Avrò dormito sì e no 3 ore. Honeymoon ormai non ha più segreti. Trascino il mio kayak sulla costa e remo fino all’isolotto successivo, ancora più piccolo, senza ripari, ma con una spiaggia di sabbia finissima al posto delle rocce impervie. La barriera corallina qui è ancora più bella, ma io inizio ad accusare la stanchezza.

C’è un ultimo isolotto lungo la stessa faglia. Provo ad andarci a nuoto, ma mi accorgo che sono troppo stanco. Meglio circumnavigarla in kayak. È la più piccola e la più impervia del gruppo. Un ammasso di scogli, 4–5 palme cresciute miracolosamente, e gli uccelli che vi nidificano, padroni incontrastati di quest’ultimo avamposto di terraferma prima dell’oceano infinito. Me ne sto nel kayak ad ammirare la bellezza della scena ancora per un po’, prima di lasciarmela alle spalle e remare verso la civiltà.

Il viaggio di ritorno è massacrante. Tra il caldo torrido, le onde, la fame, e la stanchezza accumulata, ci metterò due ore a tornare. All’arrivo il proprietario mi deve aiutare a trascinare il kayak lungo la spiaggia. Io mi trascino verso l’ostello, e prego che il mio panino sia pronto in fretta.

Dove finisce la strada

Prendo il bus che costeggia l’isola in direzione nord. Dopo qualche chilometro l’asfalto finisce, e ci ritroviamo su una strada sterrata che taglia la foresta di palme, senza allontanarsi dalla costa. Qualche chilometro ancora, e finisce pure la strada sterrata. Sono arrivato al villaggio di Lavena, oltre il quale l’isola di Taveuni è ancora praticamente vergine. Niente strade, niente elettricità, niente telefoni, niente resort.

Alloggio in una sorta di ostello gestito dalla comunità del villaggio. Una cucina, 3–4 camere da letto, e una reception, gestita a turno dagli abitanti. Se ordino del cibo, la receptionist va a parlare con qualcuno del villaggio, che andrà a pescare e mi porterà il mio fish curry. Se ho capito bene, la struttura è stata donata da qualche associazione, e gli introiti rimangono interamente nel villaggio. Un grande esempio di come si possa veramente aiutare una comunità.

Sono circondato da casette sparse, vegetazione rigogliosa e un sacco di polli liberi di scorrazzare. D’un tratto, il villaggio si riempie di bambini in divisa colorata. Le lezioni alla scuola elementare sono finite, ed io ne approfitto per andare a parlare con una maestra. Per essere un villaggio di un centinaio di case, in una zona remota delle Fiji, sono molto sorpreso dalla struttura scolastica. La maestra mi spiega che la scuola era stata aperta solo cinque anni prima grazie a delle donazioni esterne. Fino ad allora i bambini percorrevano ogni mattina la strada sterrata per raggiungere il villaggio precedente. Tra andata e ritorno, tre ore al giorno di cammino zaino in spalla. Ora invece hanno una scuola sotto casa, con pannelli solari che garantiscono luce e connessione internet.

La sera qui non c’è davvero niente da fare, e anche un nottambulo come me può abituarsi ad andare a letto alle dieci e svegliarsi fresco come una rosa alle 6 del mattino. Vivere le proprie giornate scandite dalla luce solare non è poi un’idea così assurda, anche se ormai così lontana dalla nostra cultura.

Oggi sfrutto la sveglia presto per percorrere la Lavena Coastal Walk, un sentiero tracciato per i turisti nella foresta, probabilmente parte della stessa iniziativa dell’ostello del villaggio. Un verde prepotente a tratti ha già reinghiottito il sentiero. Più avanti la fitta foresta si apre, e lungo un fiume compare un villaggio di 7–8 case, e una chiesa cristiana. Immagino che i bambini vadano a scuola nel villaggio di Lavena, che a loro sembrerà una città.

Scopro che nel villaggio prima di Lavena, Bouma, c’è un parco nazionale protetto, una rarità da queste parti. Bus la mattina presto non ce ne sono: è l’occasione perfetta per ripercorrere a piedi il tragitto che gli scolari facevano ogni mattina prima della costruzione della nuova scuola. Preparo lo zaino, e mi incammino lasciandomi alle spalle Lavena. Quando arrivo all’ingresso del parco sono già abbastanza stanco, e mi aspettano almeno 3 ore di trekking per raggiungere la terza e ultima cascata. Me lo spiega la ragazza del villaggio che si occupa degli ingressi, mentre disegna a mano una mappa tutta per me.

Prima di diventare parco naturale, questa splendida area era soggetta a deforestazione ai fini del commercio della legna. Pare non sia stato facile convincere gli abitanti del villaggio che avrebbero potuto fare più soldi se avessero lasciato stare gli alberi al loro posto. Ora il parco produce introiti per il villaggio, e questo meraviglioso angolo di natura è salvo.

Inoltrandomi nel sentiero di montagna, gli scenari si fanno più spettacolari, la vegetazione più fitta e rigogliosa, i versi dei pappagalli più frequenti e ravvicinati. Non mi sorprende che quest’isola sia soprannominata “il giardino delle Fiji”. La temperatura è piacevolissima, sono pochi i raggi di sole che riescono a filtrare. Gli unici turisti incontrati lungo tutto il percorso non si sono spinti oltre la prima “attrazione”, giusto il tempo di un paio di foto davanti alla cascata.

Finito di esplorare il parco, mi metto ad aspettare l’autobus delle 14, il secondo e ultimo della giornata che riscende verso sud. Dopo un’ora di attesa alla fermata, dell’autobus non c’è ancora traccia. Vari locali, incuriositi da questo bianco che aspetta l’autobus nel loro villaggio, si avvicinano a fare due chiacchiere. Mi spiegano che spesso gli autobus sono in gran ritardo e bisogna armarsi di pazienza, ma a volte si rompono proprio e lì c’è poco da fare.

Ripasso tra mezz’ora. Se sei ancora qui, farai meglio a fermarti da noi per cena. E sarai nostro ospite per la notte.

Poco dopo un altro signore mi fa lo stesso invito. E poi un altro. Io ringrazio tutti, incredulo davanti all’accoglienza, alla generosità, alla spontaneità di queste persone. Sono in un villaggio sperduto dall’altra parte del pianeta, eppure in mezzo a questa gente mi sento a casa.

Decido di provare a percorrere un tratto a piedi, ma vengo sorpreso da un temporale. Mi aggrego a dei locali che hanno trovato riparo sotto a un grande albero, e aspettano pazientemente la fine della pioggia. Anche loro mi offrono del cibo — che a quest’ora non sono più in grado di rifiutare. Sono tentato di accettare anche un posto per la notte, ma alla fine spunta fuori un taxi, e allora non mi resta ancora una volta che salutare ringraziando di cuore.

Ho deciso che oggi farò finta di essere un nativo dell’isola che ha un giorno libero da passare in “città”. Cerco di arrivare in paese in autostop. Vengo tirato su dagli addetti al controllo acque. Mi avvisano che devono prima fare una piccola deviazione. Il furgoncino si arrampica su una stradina sterrata, fino a una grossa cisterna d’acqua. Uno di loro versa degli agenti chimici per il trattamento dell’acqua, il secondo mi spiega come funziona l’acquedotto di Taveuni, e il terzo si fuma una sigaretta. Mezz’ora dopo siamo in città.

Vado ancora a sfidare i locali a biliardo, e perdo miseramente. Non ci sono molte alternative in zona, i giovani qui hanno tutto il tempo di coltivare il loro talento, e si vede. Mi consolo mangiando un chicken curry in un baretto locale, pagandolo un terzo di quanto costa in ostello. Faccio un giro per i negozietti arrampicati sull’unico palazzo dell’isola. Al computer shop, locali di ogni età fanno la fila — e pagano — per farsi caricare film su chiavetta usb. Spopolano sia Hollywood che Bollywood.

Ritorno verso “casa” sempre in autostop, ma questa volta mi ci vogliono un paio di tappe. Ne ho avuto abbastanza dell’ostello-resort. Preparo lo zaino, e mi presento da una signora che ha allestito una sorta di campeggio lungo la spiaggia. 17 dollari locali (circa 7 euro) per la notte, incluso tenda e materassino. La mia tenda è protetta da palme e altri alberi magnifici, e in più mi garantisce un riparo da zanzare, blatte, e altri insetti non meglio identificati. Mi addormento cullato dal profumo dell’oceano e dal rumore delle onde. Nella notte il rumore si fa un po’ troppo forte, e decido che è il caso di alzarsi a controllare. La marea è a neanche due metri dalla tenda. Titubo un po’, ma alla fine decido di confidare nell’esperienza della signora nel posizionare le sue tende, e torno a dormire.

Inizio l’ultimo giorno sull’isola di Taveuni facendo una cosa che non facevo da quando da bambino affittavamo una casetta estiva sulla spiaggia in Sud Italia. Svegliarmi e correre dritto in acqua, senza neanche lavarmi la faccia. È tempo di lasciare questa meravigliosa isola, e prendere un traghetto per tornare dalla gang di Savusavu.

Il viaggio durerà qualche ora. Mi metto a chiacchierare con un iraniano cresciuto a Sydney, un uomo d’affari che ha venduto tutto per girare con la moglie. Il resto del tempo lo passo con una ragazza belga, stravaccati sul pontile a goderci il tramonto, farmi insegnare un po’ di fotografia, e filosofeggiare sulla vita, che per qualche motivo sulle navi viene sempre più naturale. Aprirsi agli estranei, sapersi godere il momento con persone che non hai mai visto prima, e che probabilmente non rivedrai mai più, può diventare una costante fonte di gioia.

Gente di Nuksville

Arrivo al porto di Savusavu all’imbrunire. Prendo un taxi per Nukunuve, il villaggio di Sonny e della sua combriccola. Loro lo chiamano “Nuksville”, perché il mito americano è riuscito ad arrivare fin qui. Mi fanno festa, sono tutti contenti di rivedermi. Stranieri da queste parti ne capitano davvero pochi, e quelli che dan retta ai nativi sono ancora meno. Josh neanche c’è, è in città a lavorare, ma non mi dispiace poi così tanto. Negli ultimi giorni qui avevo legato molto più con Sonny, ed era lui che aveva insistito perché tornassi.

Sonny vive in una casa di legno che si vanta di aver costruito con le sue mani, e che divide con sua figlia e la nonna. Per quanto lontana dagli standard occidentali, questa casa è sicuramente più confortevole della casa blu di Namoli. Sono sollevato dal vedere divani e sedie, anche se non c’è traccia di tavoli. La nonna mi spiega che la sua famiglia è per metà inglese, e questo sembra dargli una buona collocazione nella società, oltre che dei buoni divani. Rimango subito colpito dall’accoglienza e dalla calorosità di questa anziana donna. Le piaccio subito, e mi dice che potrò fermarmi quanto vorrò. È una grande narratrice. Passerò la sera sul divano ad ascoltare racconti sulle discendenze, sul passato del villaggio, e su un ragazzo tedesco che come me era finito per caso a Nuksville, e si era fatto ospitare per qualche giorno, che poi sono diventati 9 mesi.

Sonny mi mostra camera sua. Un vero letto matrimoniale, protetto da una zanzariera, un parquet cigolante, e una finestra sempre aperta che dà sul giardino di palme nane e polli scorrazzanti. Insiste perché io dorma lì, mentre lui vorrebbe sistemarsi con un materasso in sala buttato a terra. Io protesto, non posso accettare una cosa del genere. Ma lui non vuole sentire ragioni, e alla fine sono costretto a cedere. Ormai mi è chiaro come in questa cultura gli ospiti siano davvero oro, e come il poter dare ospitalità sia un privilegio, per loro. Mi addormento nel letto matrimoniale fissando la zanzariera, e pensando a come tutto questo sia incredibile.

Alle 3 del mattino siamo già in piedi. Avevo insistito per accompagnare Sonny e un amico in una sessione notturna di pesca. Mentre trasciniamo la barca a remi di Sonny nell’oceano, nel buio più totale, ripenso a quando fantasticavo su questo viaggio, e a quanto avrei dato per poter vivere la quotidianità di un villaggio sperduto, facendo quello che fanno loro, sia aiutare a costruire una capanna o andare a pescare…

Remiamo nella notte per prendere il largo, cullati dalla bassa marea. Dopo un’ora la mia testa mi ricorda che soffro di mal di mare. Mi ritrovo nell’acqua nera, a reggermi alla barca e vomitare, tra le risate generali. Poco dopo Sonny impreca qualcosa in fijiano. Abbiamo perso l’ancora, e non c’è modo di recuperarla. Non abbiamo preso un pesce, ma è già ora di fare dietrofront. Al ritorno, goccioline di pioggia si trasformano velocemente in un temporale torrenziale. Mentre i due remano, io me ne sto in un angolo ancora alle prese col mal di mare, a cercare di ripararmi dal diluvio con un telo, pregando di toccar terra il prima possibile. Assicurata la barca a una palma sulla spiaggia, ci liberiamo in una gran risata. Una spedizione più fallimentare di questa era difficile immaginarsela. Tornare a letto sarà un gran piacere.

Sonny e la nonna sono meravigliosi, ed io mi sento subito in debito. Sonny sta pensano di aprire un’attività di security per resort, sfruttando la sua esperienza nell’esercito, i suoi muscoli, e delle possibili sovvenzioni governative. Mi propongo di dare una mano sviluppandogli il sito web. Scendiamo “in città”, a Savusavu, e facciamo visita alle amiche di Sonny che lavorano nella biglietteria del servizio traghetti. Qui c’è l’aria condizionata, e un computer connesso a internet, dove posso iniziare a progettare il sito. Già che sono in città, vado a comprare gli ingredienti per una carbonara.

La sera cucino per la mia nuova famiglia fijiana, e la pasta viene divorata come al solito in tre minuti. La nonna sembra in estasi, e mi dice che dopo un piatto così potrebbe morire domani. Quanta felicità si può portare con una carbonara! È bello sentir di poter ripagare, anche se solo in una minima parte, tutto il bene ricevuto.

Una delicata brezza marina e il canto dei galli mi regalano un piacevole risveglio. Penso a tutto quello che mi sta succedendo, e sono raggiante. Senza neanche alzarmi dal letto, afferro il diario e inizio a scrivere freneticamente.

Ci sono un sacco di persone meravigliose, lì fuori. Esci da casa, esci dai tuoi luoghi, circondati di persone così e non smettere mai di cercarne di nuove. E con coloro che non lo sono, lascia stare, la vita è troppo preziosa perché la sprechi con loro.
Esci da casa e goditi le persone più belle. Ma assicurati sempre che loro possano pensare lo stesso di te.

Per pranzo la nonna cucina per tutti pesce fritto con latto di cocco e riso. Da dove arriva il pesce fresco? Mentre questa mattina io riflettevo dal letto sulla bellezza dell’umanità, lei trascinava la barca a remi in acqua, remava fino a largo e tornava con qualche chilo di pesce. Da sola, a 70 anni. Penso a tanti dei nostri vecchi, che decidono di essere vecchi, e sprecano gli ultimi anni di salute davanti alla televisione.

Seduti sui divani a mangiare pesce delizioso col piatto sulle cosce, la nonna ricomincia a raccontare. “Qui ‘chiamiamo’ le persone” — spiega. Se stai mangiando qualcosa o sorseggiando un tè, e qualcuno passa da quelle parti, tu devi ‘chiamarlo’, cioè invitarlo a condividere quello che stai consumando. O meglio, non è che devi, ma è un’usanza, una bellissima abitudine, un piacere quotidiano. Se stai mangiando una banana in strada, e passa un bambino, tu gliene offri metà, senza neanche pensare. Le case sono sempre aperte — porte e finestre servono solo a proteggersi dai tifoni — e quindi è facile immaginare come una passeggiata nel villaggio possa valerti numerose ‘chiamate’.

La nonna racconta con orgoglio di questa usanza, e dello shock che provò andando a visitare familiari “in Occidente” (Nuova Zelanda e Stati Uniti). Vedere finestre con inferriate, giardini recintati, e realizzare che questi nemmeno conoscevano il nome dei loro vicini di casa. Forse sta proprio qui l’essenza delle differenze tra questo mondo e il mondo occidentale. Mentre loro parlano con orgoglio delle loro comunità, noi ci vantiamo dei progressi nel campo della privacy, della sicurezza e in fondo dell’individualismo.

Nel tardo pomeriggio, al rientro dal beach volley quotidiano, veniamo sorpresi da un tramonto incredibile. O almeno, io sono sorpreso. La marea, ritirandosi, ha lasciato dietro di sé metri e metri di pozzanghere d’ogni forma, che le luci del tramonto hanno dipinto d’oro. All’orizzonte, una palma solitaria svetta orgogliosa da uno scoglio, ricordando alla gente di Nukunuve del ciclone Thomas, che nel 2010 spazzò via tutte le palme da questa baia. Tranne una.

Per pochi minuti, le nuvole disegnano una linea che come per magia viaggia parallela a quella dell’acqua dorata. Per fortuna oggi non ho lasciato la macchina fotografica a casa.

Sonny dice di aver da fare un po’ di commissioni, e decidiamo di scendere assieme in città. Passiamo un paio d’ore girando per i vari supermarket, mercati, e macellai, cercando di racimolare gli ingredienti per un’altra pasta italiana. Ormai loro ci hanno preso gusto, e a me ogni tanto non dispiacciono un po’ di sapori di casa.

Girando per le vie, veniamo fermati ogni 50 metri. Sonny conosce davvero tutti da queste parti. È il classico ragazzo di paese, simpatico e bonaccione, che è sempre in giro e ha una parola per tutti. Andiamo a trovare le ragazze del traghetto, e veniamo invitati a pranzo. Nel pomeriggio, Sonny dovrebbe presentarsi in banca per capire come fare domanda per ottenere quelle sovvenzioni statali per finanziare l’attività di security. Ma perché andare fino in banca, quando il tuo amico che ci lavora dentro ti invita al bar, ti offre una birra, e si presenta con la domanda già compilata per te?

Sonny mi spiega una cosa che a questo punto mi era piuttosto chiara: “Here is not about what you know, but who you know.”, cioè che in questa realtà non importa molto quello che sai fare, ma chi conosci. Soldi ce ne sono pochi, e si tira avanti con un continuo scambio di favori. Il tessuto sociale è fondamentale per cavarsela.

Questa mattina doveva esserci un torneo di volley, annunciato da giorni. Saltato. Il secondo tentativo di andare a pesca, dopo la prima spedizione fallimentare? Saltato. Quando un fijiano fa un piano, c’è un 80% di probabilità che venga quantomeno stravolto, e un buon 50% che salti del tutto.

Alla fine, nel pomeriggio il torneo si concretizza magicamente, anche se solo con un totale di due contendenti. Ci si ritrova in una prateria di Savusavu e si aspetta sotto gli alberi che le temperature diventino più sopportabili. Qualcuno raccoglie spiccioli per metter su un montepremi. Poi la partita comincia, e si capisce subito che il livello è alto, molto più alto del livello medio in una spiaggia del Mediterraneo. Date le circostanze, io me ne sto tranquillo “in panchina” a fare il tifo, e faccio giusto un paio di apparizioni in campo a ricevere sassate sulle mani. In 3 set, Nuksville vince il torneo. Investiamo l’intero montepremi in birra e andiamo a far festa in spiaggia. La scena mi ricorda un po’ dei festeggiamenti sulla spiaggia post Italia-Marocco in Tre uomini e una gamba.

La sera si continua a bere in un bar di Savusavu, anche se ormai il montepremi è prosciugato. È la prima volta che faccio una serata in un bar da queste parti. Il locale non è molto diverso da quelli che si trovano sui nostri lungomari. Ci sono tavoli in legno pieni di boccali di birra, una band che suona classici rock, e una coppia di bianchi di mezz’età che improvvisa un ballo tra i tavoli. È una sensazione strana, vivo come eccezionale quella che sarebbe una serata normalissima a casa. Ovviamente i musicisti sono amici di Sonny, e la serata evolve in una sorta di jam session dove anche lui finisce sul palco. L’atmosfera è così accogliente che alla fine anch’io vinco la timidezza. Sonny mi chiama sul palco e io salgo a cantare la classica Hotel California. È la mia prima volta davanti a un microfono, e rende la serata ancora più memorabile.

La domenica qui è sacra, almeno dai tempi dell’arrivo del Cristianesimo. Ma non sacra nel senso che non si lavora, proprio non si deve fare nulla. Non si beve, non si fa musica, non si gioca, spesso non ci si ritrova neanche tra amici. Decisamente contro la mia concezione di godersi la vita.

Per fortuna Sonny la pensa come me, e mentre mezzo paese è in letargo, lui tira fuori da non si sa dove una chitarra e una tastiera impolverata e ci mettiamo a fare musica. Il tempo di accordarsi su una canzone, accordare una chitarra, trovare una presa funzionante, e ricordarsi come si fa un Re minore su un piano, e iniziamo a viaggiare. Dopo un po’ passa da lì un amico di Sonny e si accovaccia in un angolo, diventando il nostro primo spettatore. Quanto è facile connettere tramite la musica, è quasi magico. Dovrei sempre viaggiare con uno strumento.

La nonna aveva annunciato che oggi sarebbe arrivata una nave da crociera carica di turisti, e lei non avrebbe perso occasione per allestire una bancarella vicino al porto. Decidiamo di andare a dare una mano, ma ovviamente di domenica sono fermi anche gli autobus, e quindi ci ritroviamo a dover fare l’autostop. Passano una decina di macchine indiane, guardandoci con sospetto e sfrecciandoci davanti. Eppure non siamo così brutti, io mi ero addirittura fatto la barba.

Ma la cultura indo-fijiana non ha davvero nulla a che vedere con quella nativa fijiana. Nel ventesimo secolo, braccianti indiani furono introdotti sull’isola dal governo inglese per lavorare lo zucchero di canna. Quando agli inizi del ‘900 il programma fu interrotto, i britannici misero a disposizione navi per far rientrare in India le famiglie degli emigranti forzati. Molti però optarono per stabilizzarsi definitivamente alle isole Fiji. Negli anni, la comunità indiana è proliferata, anche grazie a una maggior propensione al lavoro e agli affari, fino a rappresentare il 40% della popolazione fijiana di oggi. Le profonde differenze tra le due culture impediscono ogni forma di vera integrazione, e la limitano a una mera tolleranza reciproca. Giovani indo-fijiani indossano magliette con scritto “F.B.I. — Fiji-born Indian”, che la dice lunga sulla situazione attuale.

In qualche modo io e Sonny riusciamo a raggiungere Savusavu. La città mi appare irriconoscibile. Strade dove era difficile incrociare un bianco sono oggi colme di turisti. Australiani, americani, persino cinesi e vietnamiti. Savusavu cambia faccia per accoglierli. Bancarelle ovunque, musica dal vivo, reception al porto con passerelle di legno, servizio navetta, e cocktail freschi. La nonna è tutta impegnata a vendere conchiglie e ricami. Provo una strana, bellissima sensazione di essere dall’altra parte. Al tramonto la nave salpa per altri porti, riportandosi con sé tutti i turisti e quella versione di Savusavu che purtroppo nel giro di qualche anno potrebbe diventare la normalità, con l’industria del turismo che cresce a questi ritmi. Fisso la nave che scompare all’orizzonte, pensando a quanto poco quei passeggeri sapranno della vita qui.

Alla sera, quando tutto il fervore finisce, me ne torno in camera e mi ritrovo ad ascoltare musica e ridere da solo nel letto. È un attacco di felicità intensa…

Io e Sonny prendiamo un autobus per Nukubolu, un villaggio nell’entroterra dell’isola di Vanua Levu. Non cercatelo su Google Maps, neanche l’occhio di Google si è spinto fino a qui. Ci deve essere passato invece un esploratore della Lonely Planet, e la sua descrizione di questo villaggio sperduto tra le foreste, teatro di battaglie passate, con antiche rovine, e sorgenti termali, mi aveva convinto ad affidarmi per la prima volta a una guida turistica. Sonny era divertito all’idea di fare per la prima volta il “turista” nella sua terra. Prima di partire, compriamo delle radici di kava da portare in dono al capo villaggio, rispettando quell’antica tradizione chiamata “sevusevu”, che avevo scoperto nei primi giorni alle Fiji.

L’autobus percorre la strada principale che attraversa l’isola, rivelando come questa sia ancora largamente selvaggia, per poi deviare in una strada secondaria sterrata — non molto più larga dell’autobus stesso — che attraversa una splendida foresta di palme. Io sono sempre col naso incollato al finestrino, in ammirazione di una vegetazione che dopo un mese alle Fiji ancora mi stupisce. Tutto d’un tratto, l’autobus inchioda bruscamente. Davanti a noi c’è un camion colmo di pietre che arranca nella direzione opposta. L’autista sbuffa, scende a valutare la situazione, e poi decreta che la corsa finisce lì. Bisogna proseguire a piedi. Tutti i passeggeri scendono e si incamminano senza troppo stupore, mentre l’autobus riparte in retromarcia.

Nell’ultimo villaggio prima della nostra meta, ci imbattiamo in tre giovani del posto. Mi guardano come se fossi un alieno, e dalla loro faccia deduco che di bianchi da queste parti ne passino davvero pochi, nonostante quel trafiletto su Lonely Planet. Bastano però un sorriso e due parole in inglese, e la loro diffidenza diventa forte curiosità, come spesso accade. I tre finiranno per essere le nostre guide per l’intera giornata.

L’ultimo tratto di sentiero è interrotto dal corso di un fiume. I ragazzi mi spiegano che questo punto è il capolinea dell’autobus, quando riesce ad arrivarci. Da qui in poi non si può far altro che attraversare il fiume a piedi, e questo è quello che fanno ogni giorno uomini, donne e bambini di Nukubolu.

Al nostro arrivo al villaggio, veniamo portati direttamente al cospetto del capo villaggio, tra gli sguardi incuriositi e un po’ increduli dei nativi. Finalmente assisterò al mio primo vero sevusevu, e sono eccitato all’idea. Il capo villaggio vive in una modesta dimora su una collina, distante qualche centinaio di metri dal resto del villaggio. Quando ci apre la porta per accoglierci, mi trovo davanti a un anziano signore dall’apparenza umile, navigato, con un abbigliamento che potrebbe essere quello di un contadino del Sud Italia. Senza proferire parola, veniamo accolti in soggiorno e ci sediamo in cerchio a gambe incrociate. La scena potrebbe suonare ridicola e anacronistica, ma in quel contesto ne percepivo l’intensità e la sostanza. Sonny stringe la mano al capo villaggio, mi introduce in lingua fijiana, annuncia le nostre intenzioni e presenta il nostro sevusevu abbassando la testa in segno di rispetto. Il capo villaggio mi rivolge lo sguardo per un attimo, come per offrire un breve cenno di approvazione, e poi rivolgendosi a Sonny sempre in lingua nativa recita qualcosa di incomprensibile. La breve cerimonia è finita. Ci alziamo, e finalmente il capo villaggio mi stringe la mano. All’uscita dalla casa, Sonny mi traduce la conversazione: il capo era molto lieto della nostra visita e del nostro dono, e avevamo il suo permesso a visitare il villaggio e le terre circostanti. Mi sento privilegiato ad aver preso parte in prima persona a un rito d’altri tempi e d’altri luoghi.

Trascorriamo la giornata godendoci la sorprendente natura in quest’area. Nuoto in torrenti d’acqua cristallina, circondato da cavalli, maiali, mucche e uccelli vari. Mi disseto bevendo succo di cocco. Mi ustiono cercando di resistere per più di 20 secondi con i piedi nella fonte termale, tra le risate generali dei locali, che invece ci si immergono completamente per ore, per sfruttarne le proprietà curative.

A metà pomeriggio decidiamo di riprendere la via di casa, anche se non sappiamo precisamente quale sia. Sappiamo che non ci saranno autobus diretti, quello sì. Le nostre guide ci riaccompagnano fino al loro villaggio, ci invitano a tornare a fargli visita, e ci congedano calorosamente. Non sono l’unico che avrà una storia da raccontare oggi.

Io e Sonny ci incamminiamo nuovamente, raggianti per l’esperienza vissuta, senza curarci troppo di non sapere come tornare a casa. Sonny è ancora più entusiasta di me. È la prima volta nella sua vita che viaggia nella sua patria non per lavoro, non per visitare parenti, non per far festa con amici, ma per godere della bellezza delle sue terre e della disarmante accoglienza e benevolenza degli uomini che le abitano. Sono sicuro che si ricorderà di questa giornata, e che intraprenderà esperienze simili in futuro, ora che ne apprezza il valore. Sono sicuro di avergli lasciato qualcosa, oggi, di avergli trasmesso una visione del mondo in cui credo. E non è forse questo uno dei piaceri più grandi della vita?

Raggiunto il capolinea, con grande sorpresa, troviamo un autobus che sosta a due passi dal fiume. Sonny scambia due parole con l’autista, e poco dopo questo si mette in marcia, con a bordo due soli passeggeri. Mi godo il silenzio della foresta e il silenzio dell’autobus vuoto, ora che la mia testa non fa più caso a questi rumorosi motori da museo della meccanica. Gambe distese, finestrini spalancati, e sorriso fino agli occhi, mi lascio cullare dalle irregolarità del terreno e dalla fresca brezza della foresta all’imbrunire.

A un tratto l’autobus frena di colpo, in prossimità di un piccolo agglomerato di case nella foresta. L’autista ha finito la sua giornata lavorativa ed è arrivato a casa. Parcheggerà il bestione di fianco casa, e domattina ripartirà per la sua tratta. Sonny ed io ci guardiamo, facciamo spallucce, e in una gran risata ci rimettiamo in cammino. Qualche minuto dopo sentiamo un pick-up avvicinarsi a tutta velocità. Un cenno, due parole, e mi ritrovo sul retro a guardare le palme che scorrono via velocemente, avvolte in una nuvola di polvere. Il pick-up ci porta fino all’imbocco della strada principale, e noi, ancora una volta, salutiamo e ci incamminiamo. Siamo ora sulla strada principale dell’isola, ma davanti a noi non c’è traccia di costruzioni. Solo due carreggiate asfaltate, che tagliano una foresta infinita. Per fortuna c’è ancora un po’ di luce. Abbastanza per farci notare da un grande autobus di linea, di quelli con l’aria condizionata come siamo abituati in Occidente, che si ferma per tirar su due autostoppisti, come non siamo abituati in Occidente.

Gli occhi dei passeggeri sono tutti su di noi. Un bianco smilzo e un nativo dalle spalle larghe, che fan l’autostop nel mezzo del nulla. Non dev’essere una scena molto comune da queste parti. Il grande autobus ci porta fino a Savusavu, quasi casa. È decisamente la nostra giornata fortunata, e non crediamo proprio sia il caso di risalire fino al villaggio a piedi. Nella strada in direzione Nukunuve c’è un altro autobus, l’ultimo della giornata, con un altro autista che è pronto per tornare a casa. Il motore è già acceso, ed è come se fosse lì ad aspettare solo noi. Dove abita? Ovviamente dietro casa nostra. Sonny scuote la testa, incredulo. Che giornata.

Arrivo a casa, e mi sale un po’ di angoscia. Questa è la mia ultima sera a Nuksville. Cucino l’ultimo piatto di pasta per tutta la famiglia, e brindiamo con l’ultimo vino rosso. Per l’occasione, Sonny ha insistito per invitare pure le amiche del traghetto. “Questo probabilmente ti varrà un viaggio gratis”, aveva profetizzato. A fine serata usciamo per salutare tutta la gang di Nuksville. Nel buio pesto della fermata dell’autobus, tra i ragazzi salta fuori l’idea di inscrivere il mio nome da qualche parte alla fermata che loro stessi hanno costruito, assieme a quello del ragazzo tedesco che anni prima era passato da qui. Io spero che si ricorderanno di me anche se non lo faranno. Sicuramente io mi ricorderò di loro. Mi passano l’ultimo bong, e insistono che me lo goda fino in fondo. Crollo a letto. Stanco, malinconico, e un po’ stordito.

Alle 7 del mattino, un taxi aspetta col motore acceso affianco casa. È ora di salutare la famiglia. Non so come ringraziarli. Il tempo qui è volato, e quanto mi sarebbe piaciuto trattenermi più a lungo. Mi mancano le parole. Non so se comprendono quello che hanno fatto per me. Chissà se almeno hanno capito che mi hanno lasciato una storia da raccontare, e che le persone della mia vita sapranno di Sonny, della nonna, e della gente di Nuksville.

Il taxi mi lascia davanti al traghetto. Mi metto in coda al banchetto per i biglietti, e quando arriva il mio turno, mi trovo davanti l’amica che era a cena da noi. Mi guarda, mi fa un gran sorriso, e mi stacca un biglietto per un posto con cabina letto. Sonny la sapeva davvero lunga.

Ostelli, resort, e città

I l viaggio di ritorno verso l’isola più grande delle Fiji dura 12 ore. Ne passo una buona parte sul ponte di prua a gambe all’aria, ad ascoltare musica mentre il Pacifico mi scorre sotto i piedi, e i profili di isole remote appaiono all’orizzonte implorandomi di essere esplorate. Non mi capacito di come tanti possano preferire un volo aereo a tutto questo. Ah, ma è una questione di tempistica. La gente deve andare, deve correre, deve visitare.

Il traghetto attracca sul versante sud dell’isola, a Suva, la capitale delle Fiji. Ancor più che Nadi, Suva è una città. Si rivelerà vicina all’idea che me ne ero fatto: una cattiva imitazione di una metropoli occidentale. Sono ospite per la notte da un tedesco conosciuto tramite CouchSurfing, che sta facendo ricerca sulla conservazione delle foreste tropicali, la protezione dell’ambiente e altri buoni propositi che verranno probabilmente calpestati dalla smania di progresso e occidentalizzazione. Passerò la serata con il suo coinquilino — anch’egli ricercatore, anch’egli europeo — in una sorta di centro commerciale, cenando in un fast food e finendo in una sala cinematografica con schermo enorme e aria condizionata esagerata, che trasmette film in inglese. Dopo più di 20 giorni lontano dai centri urbani, questa finestra sull’Occidente mi pare surreale, bizzarra e un po’ patetica. Quasi mi verrebbe voglia di correre in strada, fermare la gente e urlargli “Fermatevi! Non fatelo, lasciate che le Fiji rimangano le Fiji!”, come se fossi un viaggiatore venuto dal futuro.

In mattinata vado a visitare il Museo delle Fiji, l’unica ragione che mi ha convinto a passare dalla capitale. Il museo raccoglie testimonianze dei primi tentativi di conversione da parte dei missionari cristiani, documenti sulla colonizzazione inglese, e ricostruzioni delle imbarcazioni con cui i polinesiani sfidarono per secoli le acque del Pacifico, trovando a volte nuove isole, e molto più spesso la morte.

Girando tra le stanze del museo, mentre la mia immaginazione corre verso questi antichi popoli dei mari, mi imbatto in una grande asse di legno in pessime condizioni. Leggendo la descrizione, il mio cuore inizia a palpitare. Ho davanti ai miei occhi il timone del Bounty, la grande nave inglese ammutinata nel 1789, incendiata e affondata a largo delle Pitcairn Islands dai ribelli, nel terrore che potessero essere scovati dalle forze britanniche, e impiccati in qualche piazza di Londra. Io l’incredibile storia del Bounty la conoscevo bene, e sicuramente aveva contribuito a far crescere in me una forte curiosità per questi luoghi remoti e misteriosi. Quel che non sapevo è che il timone era miracolosamente sopravvissuto all’incendio e, dopo aver riposato nei fondali per oltre un secolo, era stato riportato alla luce e spedito alle Fiji a impreziosire la collezione del museo.

In città fa un caldo torrido. Le mie aspettative sono molto basse, e vengono confermate. Ogni palazzone è un pugno nell’occhio. Ogni clacson nel traffico mi rimanda al peggio di Milano. Pure le palme mi sembrano tristi e intossicate. Quanto avrebbero bisogno di un bel soggiorno nelle rigogliose foreste dell’isola di Vanua Levu, o di farsi cullare dal rumore delle cascate del parco nazionale di Bouma, sull’isola di Taveuni. Passeggio, e penso ai fijiani che hanno lasciato la famiglia e il villaggio con la speranza di un futuro migliore, e si sono ritrovati a lavorare come commessi da McDonald’s. Sarà anche una realtà comune in ogni parte del mondo, ma alle Fiji, nelle Fiji che ho conosciuto io, mi sembra impossibile da accettare.

Scappo dalla città in mattinata, dopo aver lasciato una nota di ringraziamento per i miei due ospiti, già partiti per il lavoro. Zaino in spalla, prendo un autobus verso ovest. Il piano, se così lo si può chiamare, è di esplorare la costa sud dell’isola principale, per poi risalire fino a Nadi, tornare in ostello da David a recuperare l’altro zaino, e presentarsi in tempo all’aeroporto internazionale per il volo che tra 7 giorni mi porterà via dalle Fiji.

La prima tappa è Pacific Harbour. Ho sentito dire che c’è un canyon scenografico che si può esplorare facendo rafting. L’autobus mi lascia in prossimità di una sorta di cittadina turistica, piena di bar, ristoranti, fontane, e negozi di souvenir. Questi luoghi non-luoghi solitamente mi fanno scuotere la testa e scappare velocemente, ma il fatto che per giunta non ci sia alcuna traccia di turisti per via della bassa stagione rende la scena particolarmente patetica. Mi presento in un centro informazioni a cercare di organizzare la traversata del canyon. Dietro al bancone trovo una ragazza gentile e sorridente che, entusiasta di vedere un essere umano, mi illustra le varie attività fluviali lungo il canyon. Dei precursori europei avevano “scoperto” questa splendida area una decina di anni fa, avevano comprato dei terreni e stretto accordi con le comunità locali per la ripartizione dei profitti e la conservazione del territorio. “Tutto molto bello”, pensavo tra me e me. Poi la ragazza si calma, abbassa il tono di voce e timidamente conclude: “Per la discesa in rafting, sono 170 euro.” Io la ringrazio calorosamente, ma faccio fatica a celare il mio disappunto. Me ne torno alla fermata dell’autobus. Di Pacific Harbour ne ho già avuto abbastanza. Sull’autobus che prosegue lungo la costa sud, penso a come noi occidentali non impareremo mai, a fermarci prima che il profitto diventi speculazione.

La prossima tappa sarà Mango Bay. Non essendo un grande fan delle guide turistiche, tendo sempre a costruirmi una sorta di mappa mentale dei luoghi da visitare mettendo assieme pezzi di conversazioni con altri viaggiatori. Col tempo e l’esperienza s’impara a capire nel giro di qualche frase se il proprio interlocutore condivide simili valori e passioni, e quindi a scartare le raccomandazioni per luoghi che mi deluderebbero. (Sto ancora cercando di ricordarmi chi diavolo mi avesse raccomandato Pacific Harbour.) L’ideale sarebbe ricevere raccomandazioni da gente del posto, ma spesso i locali dimostrano una scarsa conoscenza del territorio, perché raramente guardano al loro Paese con gli occhi di un esploratore. Purtroppo.

A Mango Bay non ci sono ostelli, né villaggi in cui cercare accoglienza, e quindi mi tocca fermarmi per la notte in una camera-dormitorio di un resort. All’arrivo nel resort, mi spiegano che il dormitorio è in rinnovamento, e complice la bassa stagione, mi offrono una camera singola allo stesso prezzo. È un lusso a cui non sono abituato, e a cui spero di non abituarmi, ma per una notte me lo concedo volentieri. Ammiro lo splendido tramonto sulla baia e, con la stanchezza accumulata sulla strada, mi arrendo a una cena nel ristorante del resort. Sono circondato da coppie di australiani e neozelandesi che sono qui per una settimana di mare. Molti di loro metteranno piede fuori dal resort solamente per tornare in aeroporto. Cerco di iniziare una conversazione con qualche altro ospite, ma faccio fatica a trovare qualcosa da dire, e a trovare interesse nei loro discorsi. Per fortuna scopro che un membro dello staff è un buon giocatore di ping pong. Passerò la serata a sudare e contare punti nel retro del bar.

Al risveglio corro a tuffarmi e godermi il meraviglioso mare di Mango Bay. Che privilegio poter nuotare in acque così. Dopo essermi fatto raccontare dal proprietario del resort l’ennesima storia del bianco australiano/neozelandese, che vent’anni fa ha avuto la fortuna di comprare qui un terreno e costruire un resort/ostello e sposarsi con una fijiana/australiana e fare 2/3 figli, lascio il resort e mi rimetto sulla strada.

In tre ore e mezzo di autobus sono di nuovo a Nadi, dove un mese fa iniziava il mio viaggio. Ritorno all’ostello a due passi dall’aeroporto internazionale, dove così tanti backpacker sono appena tornati o stanno per partire per il loro tour organizzato alle isole Yasawas, l’emblema di come un certo tipo di turismo possa compromettere un paradiso naturale e depredare i nativi delle loro terre. Pensarci mi risveglia le sensazioni che ho provato nei primi giorni. Per fortuna le Fiji sono molto più di questo, e per fortuna non mi sono arreso prima di averlo scoperto.

Al calare della notte, la gente dell’ostello si riunisce attorno al solito pentolone di kava. Tra gli schiamazzi dei ragazzi e le smorfie di chi prova il kava per la prima volta, noto una donna il cui sorriso scalda il cuore e i cui occhi nascondono un romanzo intero. Appena la vedo capisco che devo andarci a parlare. È una hippie oltre i quaranta, dal Texas. Farà un piccolo show in spiaggia, facendo volteggiare tre fiamme nella notte, mentre un ragazzo la accompagna con una sorta di bongo improvvisato. I ragazzi prima tutti presi a far festa sono ora come bambini davanti a un bravo prestigiatore. Se i gestori dell’ostello apprezzeranno, a lei salterà fuori una notte gratis. In ogni caso, domani volerà via, verso Tonga. Ha scoperto che c’è un villaggio in cui tutte le donne locali, da tempi immemorabili, e per ragioni sconosciute, padroneggiano l’arte dei giocolieri. Ha intenzione di girarci un documentario.

Tempo di saluti, ancora una volta

Ormai siamo agli sgoccioli. La mia mente inizia a proiettarsi verso la vita che mi attende in Nuova Zelanda, e verso la ragazza che mi raggiungerà lì. Ma mi è rimasta un’ultima cosa da fare. Avevo promesso a Vasiti e ai bambini di Namoli che sarei tornato a salutarli, prima di lasciare le Fiji. Prendo un minivan per la città di Lautoka, la porta d’accesso al villaggio. I minivan sono gestiti da ragazzi che fanno la spola tra due città a prezzi modici. Più corse riusciranno a infilare in una giornata, più passeggeri riusciranno a infilare in una corsa, e più dollari si porteranno a casa. Il risultato è che si viaggia come le sardine, si rischia l’infarto a ogni incrocio, ma si arriva nella metà del tempo rispetto al solito vecchio autobus.

Scendo a Lautoka, e mi godo il ritrovato ossigeno. Raggiungo il villaggio a piedi, e gli stessi bambini che nella mia prima visita a Namoli mi scrutavano con un po’ di diffidenza dietro le tende delle loro case, ora stanno correndo verso di me. Sapevano che sarei arrivato a breve, e si erano radunati nella casa blu di Vasiti ad aspettare. Vedere dei bambini che, in un villaggio dall’altra parte del mondo, ti corrono in contro per abbracciarti, scalzi, scoordinati, e con un sorriso più grande della faccia, è pura gioia. Passerò il pomeriggio a giocare con loro attorno alla casa blu, imparando innumerevoli giochi che si possono fare con una palla sgonfia, e ammirando i loro impressionanti progressi con il mio diablo, regalatogli alla mia partenza dal villaggio, che allora riuscivano a malapena a maneggiare.

Vasiti mi informa che non ha più il materasso extra. Mi aspetta una bella notte sul tappeto. Pazienza. Ora le blatte mi impressionano meno della prima, enorme, che mi ero ritrovato sul cuscino nella mia prima notte al villaggio.

Tra un esagerato caldo mattutino e il fatto che un pavimento è comunque un pavimento, dormo un minimo sindacale di sei ore. Nel giro di qualche ora devo farmi due docce. Oggi l’afa è davvero insopportabile. Mi lascio trascinare dai ragazzi del villaggio fino al parco cittadino, a giocare a calcio. L’Italia non hanno idea di dove sia, né di come sia fatta, ma per qualche ragione sanno che lì la gente gioca bene a calcio. Nonostante il mio impegno, il sudore, e un paio di gol, credo di avergli rovinato quell’immagine.

Più che parco, avrei dovuto dire prateria. L’albero più vicino è a 200 metri, e il sole non dà tregua. Inizio a sentirmi strano, e decido di avviarmi a casa. Ci metto poco a capire che mi sta salendo la febbre. Mettendo da parte l’orgoglio, chiedo a Vasiti se nel villaggio abbia qualche parente, amico, o chicchessia, che possa prestarmi un vero materasso. Dormire per terra con la febbre non dev’essere il massimo, pensavo.

Vasiti fa una scansione mentale delle varie alternative, e alla fine mi porta dai suoi cugini, a 100 metri dalla casa blu. Mi presento da loro parecchio stonato. Nonostante si tratti della stessa famiglia, e dello stesso villaggio, questa casa mi appare completamente diversa, come se appartenesse a un’altra cultura. Non ci sono pareti e pavimenti in legno grezzo, non c’è un frigo convertito a credenza. Ci sono moquette e pareti colorate. Ci sono divani, mobili e un televisore. E soprattutto, materassi. Veri materassi. I cugini decidono di lasciarmi la loro camera matrimoniale e dormire tutti assieme, Vasiti compresa, nel salotto. Io collasso nel lettone, questa volta senza alcuna forza per protestare contro l’eccessiva ospitalità. Sono conciato male. Mi pongo come unico obiettivo quello di riuscire a salire sul volo per Auckland fra tre giorni.

Passo l’intera giornata bloccato a letto, faccio fatica solo ad alzare la testa. Ogni tanto passa Tom, il cugino di Vasiti, e mi porta pesce fresco, appena pescato. Ogni tanto passano due topi, sfrecciando lungo i mobili. Ogni tanto passa un altro cugino, visibilmente preoccupato per la mia salute. “Ti devi riposare, ti devi riposare” mi ripete. Starà in camera mia un tempo interminabile, cercando di convincermi a trovargli una moglie italiana, non appena rimetto piede in patria.

Come sono le donne lì? Belle, vero? Ah, le donne italiane. Ci sposiamo, la faccio venire a vivere qui. Per voi questo è il paradiso, sarà la donna più felice del mondo. Dai promettimelo. Tieni, ti scrivo il mio numero. Appena trovi quella giusta mi chiami. Pensa a chi puoi presentarmi. Hai già in mente qualcuna?

La febbre va un po’ meglio. Il paracetamolo è arrivato anche qui, per fortuna. Ma non sono ancora indipendente, e ho un aereo domani. Nel frattempo, il mio viaggio programmato per Abaca è saltato per forza di cose, per la seconda volta. Vorrà dire che dovrò tornare alle Fiji.

Riesco finalmente a reggermi in piedi, e vado a pranzo con Tom. Tom è uno di quelli che ha un lavoro vero, in una ditta di costruzioni di Lautoka. Mi spiega che la paga è davvero buona, non può lamentarsi. E in effetti, avendo visto casa sua, non potevo pensare che le differenze con la casa di Vasiti fossero una mera questione di gusto. L’unico problema è che si è pagati a giornata, e il lavoro arriva a ondate imprevedibili. Si inizia a lavorare alla riparazione di un tetto, ma poi finiscono i soldi e ci si ferma. Qualche settimana dopo arrivano nuovi fondi, e si riprende. Poi magari arriva un ciclone, e si ricomincia daccapo.

È arrivata l’ora di andare. Vasiti mi fa mille raccomandazioni e prega per me. Tom si carica il mio zaino in spalla, e mi scorta fino alla stazione di Lautoka. Ancora una volta, non so davvero come ringraziare questa gente. Ho avuto un altro esempio, l’ennesimo, dell’incredibile ospitalità di questo popolo. Con le poche forze che ho, do un mega abbraccio al grande Tom.

Prendi il mio tubo e la mia maschera, serviranno più a te qui che a me in Nuova Zelanda. Così potrai pescare altro pesce fresco per i tuoi prossimi ospiti. Grazie ancora, Tom. Ah, quasi dimenticavo! Lasciami il tuo indirizzo, appena posso vi spedisco la foto che vi ho fatto in salotto.

Torno per l’ultima volta in ostello a Nadi, e recupero lo zaino extra che avevo affidato a David, l’animatore dell’ostello. Aver viaggiato fino a Nadi tra le sardine del minibus con la febbre alta mi è sembrata un’impresa eroica. Non resta che buttarsi a letto, a raccogliere più energie possibili, per poter reggermi in piedi domani portandomi in spalla tutto ciò che ho con me da questa parte del mondo. Domani un aereo mi riporterà in Occidente. Secondo le carte geografiche è a solo due ore di volo da qui. Ma in realtà è distante quanto un altro pianeta.

Ci sono persone che sai già non rivedrai mai, luoghi in cui non metterai più piede, sorrisi che non potrai più ricambiare, e colori che potrai soltanto sognare. Ma il loro ricordo ti impreziosisce la vita, in una maniera che non riuscirò mai a spiegare.

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