Essere giovani ai tempi del Coronavirus. La crisi e il futuro

Danilo Lampis
10 min readMar 29, 2020

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Sfuggire a noi stessi per la paura di perderci

In queste giornate di distanziamento sociale i compleanni, le lauree e — purtroppo — i funerali sono i momenti in cui è più facile rendersi conto della caducità delle nostre vite e certezze, nonché delle tante contraddizioni e irrazionalità del mondo in cui viviamo. Probabilmente un antropologo come Ernesto De Martino direbbe che siamo coinvolti in una inedita crisi di presenza. E questa si mostra con particolare forza proprio nell’interruzione o stravolgimento della molteplicità di riti, abitudini e liturgie alle quali siamo stati abituati per confermare il nostro “esserci nel mondo”, decostruendo e ricostruendo la nostra identità in reciproco rapporto con gli altri.

Un’esperienza così radicale di spaesamento, di “vissuto da fine del mondo”, noi Millennials (nati dal 1980 al 1994) o iGen (dal 1995 al 2012) — così come definiti da J. M. Twenge — non l’abbiamo mai vissuta in questa intensità. Abbiamo assistito a guerre, malattie, crisi economiche, ma mai a qualcosa di così sconvolgente per la nostra vita individuale e collettiva. Sembra paradossale che questa sensazione ci stia investendo in una situazione di semi-cattività, tra le cucine e le camere da letto delle abitazioni che teoricamente dovrebbero essere i luoghi dell’appaesamento e della tranquillità. Certo, c’è chi continua ad andare a lavorare, chi lo fa da casa, chi studia, chi è stato costretto a fermarsi completamente: tuttavia, in modi diversi, siamo tutti travolti da un inedito cambio delle abitudini, dei tempi di vita e degli spazi in cui viverla.

In questa situazione, per far fronte al bombardamento di notizie sull’andamento dell’epidemia, oltre a proseguire con impegni di lavoro o di studio, il primo tentativo è quello di approfittare di questo tempo improvvisamente dilatato per impegnarsi in qualcosa che non si è mai potuto fare, leggere, vedere, suonare. Più passano i giorni, più però ci si rende conto che è impossibile riempire produttivamente ogni ora. Non bisogna farsene una colpa, anzi: è forse l’ossessione della produttività continua — che è cosa ben diversa dalla attività libera, curiosa e creatrice — ad essere uno degli inganni del mondo in cui siamo cresciuti.

Tuttavia, sentiamo di dover riempire il tempo in qualche modo. Così, la tendenza dominante è quella di infarcirsi di serie tv, film o video divertenti, esercizi in palestre improvvisate o pulizie; tutti tentativi che rispondono a un inconscio imperativo di doverci distrarre, un compagno minore dell’imperativo all’apparire felici nel lavoro e nel consumo. Il resto del tempo molto spesso viene dedicato ai social, uno dei pochi modi rimasti per sentirci in contatto con amici e conoscenti ma soprattutto per cercare un po’ di riconoscimento e gratificazione, tra post acchiappa-like, foto e video. La verità è che siamo spaventati non solo dal cambio di abitudini e dall’essere costretti all’isolamento, ma anche dall’avere troppo tempo per poter pensare in profondità a noi stessi e a ciò che ci circonda. In definitiva, la soluzione che ci sembra più ottimale per non perderci, per trattenere le certezze del passato che costituivano il nostro debole appaesamento, è paradossalmente provare a sfuggire a noi stessi in tutti i modi possibili e immaginabili.

La scoperta dell’importanza primaria del contatto e della cura

Passata la fase degli applausi e dei canti alle finestre, della reciproca chiamata alla responsabilità accompagnata purtroppo anche da spiacevoli fenomeni di diffidenza, risentimento e caccia all’untore, iniziano a mostrarsi alcuni segnali di cedimento sociale e psicologico. Una situazione che non si risolverà esclusivamente iniettando liquidità economica, ma impegnandoci a resistere e a darci reciproco sostegno per tornare il prima possibile a rivederci. Stiamo scoprendo che “mantenere il distanziamento sociale salvaguardando la connessione emotiva” — come ci ripetono in tv — sembrava tanto fattibile inizialmente, abituati come siamo ad essere interconnessi, ma a lungo andare si fa sempre più difficile. Si prende così atto dell’irrinunciabilità e importanza primaria del contatto fisico e della necessità di prenderci cura l’uno dell’altro, con ma soprattutto oltre gli schermi dei nostri smartphone e pc. Una cosa nuova, emozionante, che induce a una profonda riflessione sulla scala dei valori con i quali abbiamo finora condotto la nostra quotidianità. Sì, perché a pensarci, molto spesso siamo stati indotti a sottrarci al contatto non tanto per apprezzare la solitudine e la noia, che molto spesso sono motori di creatività e scoperta, bensì per produrre o studiare eccessivamente, per autopromuoverci, per essere continuamente “scattanti” mentalmente e fisicamente. Questo perché sin da piccoli siamo stati imbottiti di narrazioni moraleggianti che sostenevano che l’unico modo di stare al mondo fosse quello di competere selvaggiamente tra noi, inseguendo il miraggio di una promessa di realizzazione tutta dipendente esclusivamente dalle nostre qualità individuali. “Tutto ciò che conta è il merito!” dicevano. Non era vero, perché non partiamo tutti dalle stesse condizioni di partenza: fior fior di studi ci raccontano, infatti, quanto ciò che siamo scaturisce in larga misura dalla ricchezza della famiglia, dalle opportunità formative, dal luogo in cui si vive, dalle relazioni che si ha la possibilità di intessere. Eppure, nonostante la loro manifesta irrazionalità, queste convinzioni ci hanno reso più arrendevoli e vulnerabili: quanti delle nostre generazioni hanno masticato e continuano a masticare nelle loro stanze insoddisfazioni, ansie, stress, ossessioni, depressioni; quanti, non tollerando più tutto questo, hanno scelto di liberarsi con un atto irreparabile.

Ascoltare il silenzio, metterci in discussione

Inutile nasconderlo: la condizione di spaesamento che stiamo vivendo in queste giornate è piena di rischi, tra i quali quello di privatizzare le proprie incertezze e sofferenze — che è un effetto delle narrazioni dominanti nel nostro tempo — può essere quello più impattante. Bisogna provare a non sprofondare e a farvi fronte facendo una chiamata in più ad amici, partner e parenti. Ma è bene anche guardare all’opportunità che ci è data dal non avere i tempi contingentati. Con uno sforzo, se vogliamo, queste settimane possono diventare l’occasione per una epocale riflessione di massa che, a partire dalla nostra piccola ma preziosa singolarità, metta in discussione le priorità della nostra vita singola e di quella in comune.

Innanzitutto, possiamo metterci in ascolto del silenzio dei nostri paesi e città dove le profonde contraddizioni della nostra società si stanno facendo più assordanti e insostenibili. Il virus colpisce indistintamente e valica qualsiasi confine, ma non ci rende tutti uguali nelle difficoltà che si affrontano per gestire questa situazione e, soprattutto, per ciò che ci aspetterà dopo. C’è chi ha possibilità di avere un tampone celermente, chi invece deve attendere o non lo avrà mai; c’è chi ha miliardi di fatturato annuo e vuole tenere aperte le sue aziende chiedendo di poter licenziare per via del fermo produttivo e c’è chi, pur lavorando ogni giorno, resta comunque povero e pur tuttavia decide di fermarsi per la salute della propria famiglia e di chi gli sta attorno; c’è chi, ogni giorno, paga sulla propria pelle e sul proprio stipendio gli errori di chi è sotto i riflettori a lodare la sanità pubblica dopo aver votato per anni tagli, liberalizzazioni e privatizzazioni, bloccando il turnover, abbattendo i posti letto, chiudendo le unità ospedaliere, favorendo i colossi farmaceutici a discapito della prevenzione e della ricerca; c’è chi ha una dispensa piena e c’è chi, dopo sole due settimane di stop, è entrato in povertà assoluta e non sa come aggiungere la cena al pranzo; c’è chi vive in case piene di confort e svaghi e c’è chi condivide pochi metri quadri senza avere un pc o una connessione efficiente. Si potrebbe continuare a lungo, facendo centinaia di esempi. Se ci pensiamo la nostra società era già intimamente infettata dalle disuguaglianze e dalle ingiustizie ben prima dell’arrivo del Covid-19. Ora è solo tutto più evidente.

Non dobbiamo ricostruire, dobbiamo costruire

Pensavamo che i nostri tempi non ci avrebbero potuto riservare sorprese inedite e invece eccoci giunti a un incrocio storico decisivo, a una crisi che ci domanda una presa di responsabilità collettiva. Si può tentare di riprendere la strada del “prima”, più impoveriti, vulnerabili e incattiviti, o quella che ci allerta all’ingresso che il “prima” non era razionale, né tantomeno desiderabile o naturale.

Per tentare di quietare questa presa d’atto, continueranno a dirci che siamo in una guerra dove occorre sacrificarsi compatti in nome del ritorno alla normalità che ci stiamo lasciando alle spalle non per colpa nostra, ma per un microscopico virus. “I would prefer not to”, diceva Bartleby, lo scribano di Melville. Preferirei di no. Sì, oggi essere responsabili e realisti significa dare risposte nuove alle nostre vite singole e in comune, accompagnando studio, impegno concreto e proposta a nuove narrazioni e promesse di felicità. Dobbiamo avere il coraggio di dire che non è tempo di ricostruire una società malata, ma di costruire una società più giusta dove nessuno sia lasciato ai margini economici, sociali, territoriali.

Se dovessimo decidere di percorrere questa strada, potremo trovare sul nostro cammino alcune sfide irrimandabili, locali e globali al medesimo tempo.

Una è quella ecologica. I virus sono connessi alla distruzione degli ecosistemi e delle biodiversità, all’urbanizzazione selvaggia, all’agricoltura e all’allevamento intensivo, all’inquinamento e ai cambiamenti climatici in generale. Ci uccidono molto più queste cose che il Covid-19, che è soltanto l’ennesima dimostrazione di quanto vi sia la necessità irrimandabile — pena un futuro pieno di fenomeni catastrofici — di definire un modello di sviluppo generativo e non estrattivo, in grado di produrre salute e benessere e non più di sottrarne.

Un’altra riguarda il modello di lavoro e consumo. In pochi giorni, la fragilità delle lunghe e disperse catene globali della produzione è emersa con forza. La globalizzazione capitalistica non solo non ha prodotto uno spazio liscio dove tutti abbiamo le stesse opportunità, moltiplicando forme di disuguaglianza e sfruttamento, ma sta dimostrando la sua incapacità di affrontare dei cambiamenti se non mettendo a rischio milioni di posti di lavoro. Tutto il contrario dell’efficienza, tutto a discapito di chi lavora. È tempo di mettere in discussione il cosa e il come si produce, puntando sull’innovazione tecnologica, la formazione permanente, i diritti e le tutele, la piena democrazia nei luoghi di lavoro.

In terzo luogo, se non stiamo attenti, anche a emergenza conclusa le nostre libertà continueranno a essere compromesse da misure straordinarie. Lo erano già, sia per le disuguaglianze economiche e sociali, che impediscono di poter esercitare i propri diritti di cittadinanza e dunque di avere la stessa voce, che per lo strapotere dei grandi colossi del mondo digitale che mettono a valore i nostri dati e influenzano le nostre opinioni e comportamenti. Sul controllo democratico dei dati e sulla trasparenza del web si giocherà un’altra sfida decisiva. Per fortuna, la rinnovata fiducia nella scienza ci aiuterà a dare risposte migliori alle paure legittime, spazzando via al tempo stesso quelle indotte dalle balle xenofobe. E soprattutto, stiamo capendo che le paure e l’incertezza si affrontano con più benessere e sicurezza collettiva, investendo sui servizi, sul lavoro, sul reddito delle persone, sulla sanità, l’istruzione, il welfare, la ricerca. Immaginare una nuova universalità della cittadinanza non sarà essenziale soltanto per migliorare materialmente le vite della maggioranza delle persone, ma anche per rafforzare la qualità della democrazia e della convivenza. Anche nei piani alti della Bce e di tutti gli altri attori della governance europea e mondiale si stanno rendendo conto che non si può andare avanti in questo modo, ma è troppo tardi per dare loro credito. Occorrerà dare battaglia per costruire un nuovo sistema economico, finanziario, fiscale a favore della maggioranza delle persone e non più di pochi privilegiati.

Respirare assieme, osare il futuro

Infine, la sfida più importante siamo proprio noi. Dobbiamo ingaggiare una lotta innanzitutto con noi stessi, con i sentimenti dominanti e diffusi che sono un misto di impotenza di fronte al mondo — anche quando siamo consapevoli che va male — e di paura di non riuscire a realizzarsi professionalmente e personalmente. Ciò ci ha spesso costretto ad arrenderci e a conformarci agli eventi, anche a quelli più ingiusti e umilianti. Il più delle volte abbiamo provato a esorcizzare tali sentimenti con l’ironia, altre col cinismo, come sosteneva Mark Fisher. Eppure, ne siamo sempre rimasti coinvolti e colpiti. Perché siamo tutti irrimediabilmente umani e diversamente fragili. Ammettere a vicenda le nostre paure, i nostri problemi, i nostri desideri, è il primo passo per liberarci dalla zavorra del senso di impotenza, del sentirsi spettatori del mondo e unici responsabili del nostro destino individuale, scoprendo che l’unico modo per cambiare anche le nostre singole vite è diventare attori, costruendo con tanta pazienza, solidarietà e cura, una nuova volontà collettiva.

Con il dolore per le morti e i contagi, la sofferenza per la perdita dei posti di lavoro, per le distanze, i progetti interrotti, lo smarrimento individualizzato ma condiviso, questo virus ci sta costringendo ad aprire gli occhi e a respirare aria nuova come mai avevamo fatto. La scintilla del cambiamento scatterà se sapremmo intrecciare i nostri sguardi e co-spirare, respirare assieme.

Probabilmente entreremo sul serio in una nuova recessione globale. Altrettanto probabilmente l’Europa per come l’abbiamo conosciuta non esisterà più. Le premesse per alcuni cambiamenti epocali ci sono tutte. O ci prendiamo in carico la costruzione dei giorni che verranno o purtroppo collasseremo insieme a chi ci proporrà strade già battute.

Siamo immersi in un mondo ingiusto e malato da ben prima dell’arrivo del coronavirus, dove tutto ciò che era tremendamente irrazionale veniva presentato quasi sempre come l’unica strada possibile e praticabile. Ci sembrerà impossibile e servirà tanto impegno, entusiasmo e soprattutto tanta immaginazione per coniugare pragmatismo e utopia, ma a noi, giovani generazioni che saremo segnate per sempre da questa emergenza, sta il compito di costruire, in ogni luogo, da quelli di lavoro alle città, dal più piccolo paese alle università, un’alternativa credibile, realistica e praticabile di società.

Non sta a noi perché tutti gli anziani hanno sbagliato, sarebbe davvero demagogico pensare questo. Sta a noi perché abbiamo tanti decenni di fronte, un’energia potenziale da sprigionare e la possibilità di osare il futuro, superando le vecchie soluzioni proposte dagli apologeti dei piccoli aggiustamenti, del conformismo asfissiante, dell’eterno presente. La storia non è finita e ci meritiamo molto di più dalla vita.

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