La risposta svedese al COVID-19 e quel cupio dissolvi che nasce dall’epidemia
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Disclaimer: il seguente commento riflette informazioni scientifiche, raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e politiche svedesi di salute pubblica aggiornate al 1 Aprile 2020. Non dovrebbe pertanto essere utilizzato per fare riferimento a sviluppi successivi a questa data.
A livello internazionale ha cominciato il Guardian, attraverso un articolo in cui inizialmente si distorcevano le parole del recente discorso alla Nazione del primo ministro Stefan Löfven (ad esempio, un “supportate il vostro ristorante locale attraverso il take-away” tradotto in “pranzate al ristorante”). Sono seguiti poi altri articoli su piattaforme tra cui Bloomberg e Financial Times, e ne è infine nato l’ennesimo caso utile ad alimentare una infodemia sempre più inconcludente, imprecisa, cacofonica. Di colpo la Svezia, universalmente riconosciuta come modello di politiche pubbliche, si è trasformata agli occhi di molti media in uno ‘Stato-canaglia’ in cui un gruppo di scienziati pazzi gioca con la salute dei propri cittadini, trattando con malcelato senso di superiorità la pandemia di COVID-19 che sta bloccando il resto del mondo.
Anche in Italia il trend è stato inaugurato da diversi giorni, con una serie di sommari reportage che riprendono soprattutto le voci (ovviamente rispettabili) di expat preoccupati dal raffronto con l’attuale situazione del paese di origine, ed è quindi culminato con una analisi di Repubblica la quale, tra una testimonianza da Göteborg e un copia-incolla del pezzo del Financial Times, parlava di razzismo anti-italiano e “pericolosissimo errore del paese del modello nordico”.
La narrativa è nota. La Svezia, che a detta dei modelli epidemiologici si trova indietro di qualche settimana rispetto alla curva di contagi e ricoveri che sta devastando i sistemi sanitari di altri paesi europei, pare andare controcorrente. Eventi pubblici e privati bloccati, ma solamente sopra i 50 partecipanti (erano 500 fino a qualche giorno fa); servizio al bancone proibito e distanza di sicurezza, ma bar e ristoranti aperti; scuole chiuse e didattica online, ma solo a partire dai 16 anni; raccomandazioni di distanziamento sociale e teleworking, ma nessun obbligo o piani di quarantena su larga scala. Il Folkhälsomyndigheten (l’agenzia indipendente per la salute pubblica) ed il team guidato dall’epidemiologo Anders Tegnell che usano nelle loro conferenze stampa quotidiane toni solenni ma tutto sommato moderati, mentre intorno il mondo che conosciamo sembra collassare e le critiche si moltiplicano.
Intendiamoci, ogni dibattito sulle varie possibili strategie di contenimento e risposta alla diffusione del virus SARS-CoV-2 è importante, se promuove trasparenza ed utilizza le legittime voci delle migliaia di studiosi che in questi mesi difficili cercano di mettere la propria esperienza al servizio di una sfida comune. E però, se pure tralasciamo l’approccio giornalisticamente dozzinale di molti quotidiani (mancata verifica delle fonti, articoli basati su singoli pareri di non esperti, scrittura ‘a tesi’ che lascia cadere gli aspetti non convenienti al tipo di discorso che si vuole introdurre), c’è qualcosa di più profondo che conviene discutere, in questa caccia all’untore che sembra aver trovato nella Svezia un nuovo caso da additare dopo i ‘cinesi mangia-pipistrelli’ e gli italiani ‘diffusori del virus’.
Non si tratta, ovviamente, di valutare la bontà di un certo tipo di politiche di salute pubblica rispetto ad un altro (cosa che, a scanso di equivoci, neanche questa riflessione tenta di fare). Troppe sono le differenze, incluse quelle legate all’iniziale andamento epidemiologico, per poter giudicare le decisioni assunte in questi giorni dai vari paesi colpiti in una situazione di assoluta incertezza ed in continua evoluzione. Ed in effetti, è proprio questo il problema. Cosa ci spinge a interpretare con tanta parzialità e sospetto l’approccio svedese, in un momento in cui sappiamo ancora relativamente poco di quanto ci aspetterà nei prossimi mesi?
Il primo punto che andrebbe sottolineato riguarda il nostro bisogno di rapportarci all’incertezza quasi esistenziale scatenata dalla pandemia identificando in un particolare tipo di risposta, in questo caso quella della quarantena, il modello che da solo è capace di salvarci e salvare la società. A differenza di molti degli articoli che si leggono in questi giorni, i quali sì sembrano voler detenere la verità, la scelta del Folkhälsomyndigheten è esplicitamente piena di incertezze, e difficilmente potrebbe essere diversamente di fronte ad una situazione che quasi nessuno di noi ha mai veramente studiato al di fuori di un modello matematico. Se l’aneddoto di qualche cittadino svedese che si sente invincibile e guarda gli expat italiani con sufficienza è buono per un click (ma non ne discuto la veridicità), difficilmente descrive l’atteggiamento sobrio di Tegnell o del governo di Stoccolma. Entrambi ammettono che ci troviamo in uncharted territory, che le decisioni prese fino ad adesso potrebbero cambiare drasticamente se l’evoluzione dell’epidemia lo suggerisse, e che nessun paese sa se il modello di risposta che ha scelto sarà quello vincente.
In ogni caso, i fattori che guidano l’attuale strategia svedese sono adottati, non diversamente che nel resto dal mondo, da esperti del settore che hanno cercato di interpretare i dati provenienti dagli Stati più colpiti ed adattarli alle specifiche caratteristiche demografiche, geografiche e sociali del paese scandinavo (qui se ne può trovare una efficace ed imparziale descrizione, scritta da due epidemiologi dell’Università di Lund). La via scelta a Stoccolma non si discosta neppure completamente dalle raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, anche se sotto alcuni aspetti è certamente controversa (ad esempio, una problematica carenza di test cui si sta progressivamente cercando di far fronte, ed una certa riluttanza ad isolare soggetti che potrebbero aver avuto contatti ‘a rischio’, se asintomatici). Il nodo centrale riguarda però la funzione stessa della quarantena, che a detta di tutti gli studiosi non costituisce di per sé l’unica soluzione in grado di sconfiggere l’epidemia, bensì una delle potenziali strategie (da adottare in alternativa a, o in sequenza con, altri tipi di distanziamento fisico) per prendere tempo e dare modo al sistema sanitario di aumentare drasticamente la propria capacità di assorbire i malati. La valutazione svedese, è importante sottolinearlo, non è che tali misure non servano. Piuttosto, il Folkhälsomyndigheten ritiene che modelli di distanziamento fisico meno lesivi delle libertà fondamentali dell’individuo (e più consoni alla cultura del paese scandinavo) possano al momento essere più efficaci di una vera e propria quarantena, sia perché i passati successi di simili esperienze sono generalmente controversi, sia perché, come ripetuto recentemente da Hans Kluge (Regional Director per l’Europa dell’OMS), questa pandemia sarà più una maratona che uno sprint, e mettere in lockdown interi paesi per 12–18 mesi avrebbe ovviamente conseguenze sanitarie (malattie non trasmissibili, depressione, suicidi) e socio-economiche potenzialmente molto gravi.
Il vantaggio, in tal senso, è che la Svezia potrebbe aver avuto alcune settimane in più per prepararsi ad una futura crescita esponenziale dei contagi (a differenza, ad esempio, del Regno Unito, che sembrava voler perseguire un approccio simile prima di vedere i propri numeri esplodere). Questo ha significato da una parte focalizzare l’attenzione sulla necessità di proteggere le categorie più a rischio (una sfida in cui il paese potrebbe trovarsi avvantaggiato, visto che molto raramente chi è over 70 vive sotto lo stesso tetto con il resto della famiglia), e dall’altra iniziare ad aggiungere per tempo nuovi posti letto ed unità di terapia intensiva coerentemente con le previsioni legate all’andamento dell’epidemia. Nessuno sa, ovviamente, se tali previsioni si riveleranno corrette, ma puntare il dito a priori contro uno dei sistemi di epidemic preparedness ritenuti più solidi ci dice forse più di noi, e del nostro disperato bisogno di individuare qualcuno che sia in qualche modo più colpevole degli altri, di quanto ci parli di Anders Tegnell o della Svezia.
Il secondo punto che trovo inquietante è l’abbandono repentino di ogni riflessione sull’importanza di fiducia nelle istituzioni e responsabilità collettiva che pure sembrava emergere all’inizio di questa pandemia, un tema su cui il modello svedese può fornire spunti interessanti. Nonostante il meritorio impatto del movimento #StayHome, nello spazio di pochi giorni i leitmotive mediatici riguardanti il COVID-19 si sono rapidamente trasformati in messaggi quasi esclusivamente negativi, tra cui (a) l’ossessiva stigmatizzazione dell’untore sorpreso a violare le varie regole (legali o sociali) di comportamento adottate in questa fase, e (b) un’enfasi sulle inefficienze governative e burocratiche nella gestione dell’epidemia. Quello che manca, a mio avviso, è una analisi più profonda del ruolo delle comunità nella risposta epidemiologica, ed in particolare delle dinamiche che determinano l’osservanza (e inosservanza) di provvedimenti o raccomandazioni dell’autorità pubblica in differenti contesti socio-culturali. A dispetto di quanto si potrebbe pensare, infatti, tale analisi non significa solamente additare il singolo che sbaglia, ma serve anche e soprattutto a guardare avanti, a capire come creare società più informate e solidali nell’epoca del rischio generalizzato teorizzata da Ulrich Beck.
Nel discutere la situazione della Svezia, in particolare, ci si accanisce molto contro la mancanza di divieti e la modulazione assai cauta delle misure adottate fino a questo momento, allegando a testimonianza la foto di questo o quel ristorante coi tavoli esterni pieni di avventori. Così facendo, però, si ignorano le azioni positive già adottate da enti pubblici, settore privato e società civile per aumentare la capacità di risposta del paese sul breve e medio termine. Ad esempio, la partnership tra Sophiahemmet University, Novare e Wallenberg Foundation, che sta cercando di fornire dei corsi accelerati ai molti impiegati di Scandinavian Airlines lasciati temporaneamente a terra dalla crisi del traffico aereo, in modo da poterli reimpiegare urgentemente nel settore sanitario e consentire di affidare più medici ed infermieri professionisti ai pazienti affetti da COVID-19. Inoltre, si rischia di dimenticare che il distanziamento fisico non è un gioco a somma zero, ma una misura di lungo periodo che può rallentare la diffusione dell’epidemia solo facendo leva sulla fiducia negli altri (incluse istituzioni ed esperti) e sul supporto reciproco tra i cittadini. Quando questa fiducia manca, come nel caso dell’ultima epidemia di virus Ebola nella Repubblica Democratica del Congo, anche i divieti più severi rischiano di rivelarsi inutili, se non addirittura controproducenti. In Svezia, gran parte (non tutte) delle raccomandazioni adottate sino a questo momento non sono vincolanti, eppure moltissime aziende si sono organizzate per consentire ai propri dipendenti a lavorare da casa, grandi multinazionali come Volvo e Scania hanno fermato la produzione, e la frequentazione di mezzi pubblici e luoghi di aggregazione è, in media, calata vistosamente (non a caso, nonostante bar e ristoranti possano restare aperti, alcuni hanno in realtà già chiuso o cambiato parzialmente il loro modello di business per far fronte ai mancati introiti).
E’ presto per dire se un tale approccio al distanziamento fisico possa essere sufficiente, nei prossimi mesi, a mantenere la curva epidemiologica del COVID-19 al di sotto delle capacità di gestione del sistema sanitario svedese. Come detto in apertura di questo commento, sarebbe in ogni caso del tutto fuorviante fare paragoni con paesi in cui la diffusione del virus sta avvenendo con modalità e tempistiche differenti. Nel frattempo, tuttavia, è importante comprendere come una simile strategia voglia soprattutto contribuire a responsabilizzare ulteriormente la popolazione e non invece ad ignorare maldestramente i rischi, continuando ad investire nel senso di comunità e rendendo meno controversa l’adozione di ulteriori restrizioni non appena queste si renderanno necessarie (cosa che peraltro sta già accadendo, con il divieto di visita alle residenze per anziani e la chiusura delle piste da sci in anticipazione delle vacanze pasquali). Riflettere su questo modello in maniera non pregiudizievole ci impone di abbandonare quel cupio dissolvi che sembriamo privilegiare in fasi storiche di grande incertezza, e può farci interrogare sul rapporto tra responsabilità collettiva, tenuta democratica e resilienza sociale che dovremo (ri)costruire con fatica in un futuro non troppo lontano.
In altre parole, dando per scontato che l’attuale pandemia continuerà a farci compagnia per un lasso di tempo piuttosto lungo, sarebbe utile iniziare a chiedersi non soltanto come ne usciremo, ma anche in quale tipo di società vogliamo vivere una volta che l’emergenza sarà finita. Se questa sarà meno solidale, meno democratica, meno resiliente, allora il drammatico periodo che stiamo vivendo potrebbe essere stato invano.