Proseguire fino alla meta successiva

Elena Nesti
22 min readFeb 12, 2022

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Tra i doni che ricevetti per il Natale del 1987 c’era anche un gioco da tavolo, Viaggio in Europa. La scatola era di cartone bello resistente e dal coperchio si capiva subito di cosa si trattava: una specie di gioco dell’oca alla scoperta delle più belle città del nostro continente. La confezione era in gran parte occupata dal piano di gioco, ripiegato in quattro; c’erano poi delle bandierine con la punta acuminata e delle carte colorate con immagini evocative delle capitali e qualche domanda su di esse. Ricordo la soddisfazione che provai al primo gioco: la pianta dell’Europa era intonsa; ma ricordo anche il fastidio che suscitò in me il constatare che quelle bandierine lasciavano il segno sul cartone del piano da gioco: era come se, una volta che un giocatore vi aveva stazionato, la città non potesse più essere la stessa. Magia di un’inversione di punti di vista. Cominciò pochi mesi più tardi, proprio nell’estate nel 1988, con il mio primo viaggio a Londra, il gioco quello vero: raggiungere quelle città e tentare di conoscerle.
Oggi, svariati anni e città dopo quel 1987, mentre inizio a preparare l’ennesima tappa del mio gioco, quella che mi porterà a Lisbona, guardo con ammirazione la pianta dell’Europa, il continente che ho visitato senza poter dire di conoscerlo davvero bene. Ho la sensazione che tutti i Paesi ruotino intorno al Mediterraneo, anche quelli che non ci si affacciano, comunque vi aspirano: la Scandinavia, così lontana, torce il collo verso sud; la Gran Bretagna, con la testa puntata verso nord come l’ago della bussola, rimane magneticamente vicina alla Francia che, inevitabilmente la trascina in basso. Unica eccezione, il Portogallo. Aggrappato alla penisola iberica e quasi fagocitato dall’esuberante Spagna, che sembra volerselo scrollare di dosso, volge lo sguardo in tutt’altra direzione, verso l’ignoto, come un bambino che, desideroso di iniziare a camminare in autonomia, rimane comunque avvinghiato alle dita della mamma.

Raggiungo Lisbona in aereo da Bologna con un volo serale. All’aeroporto scelgo un taxi al posto dell’autobus per arrivare prima possibile in centro. Durante il tragitto non riesco neanche a parlare per l’urgenza di fare la conoscenza di questa città. Lisbona, che risponde al mio entusiamo con una provocazione, recita la parte della bella capricciosa e mi fa fare un po’ di anticamera. Infatti affida al monumento al marchese di Pombal il compito di accogliermi; e rimane ad aspettare. La sera il monumento, che si trova su un alto basamento proprio a ridosso del Parque Edoardo VII e introduce l’Avenida de Liberdade, è incorniciato dalla ruota panoramica del parco di divertimenti che fornisce al marchese, ricostruttore di Lisbona dopo il terremoto del 1755, una strana aureola a cavallo tra il pop e lo psichedelico che lo fa assomigliare ad un’opera di Jeff Koons.
Inizia da qui la spina dorsale e anche il salotto buono di Lisbona, l’Avenida de Liberdade, con le boutique di tutte le marche, e quasi tutte straniere: non che ci sia qualcosa di sbagliato, ma ammetto di esserci rimasta male. Malgrado tutto sopravvive in me un’idea forse un po’ sdolcinata e romantica del viaggiare, quella di visitare una città e trovare, non solo nei musei ma anche e soprattutto nei luoghi della quotidianità, il segno dell’unicità. Mi torna in mente il primo viaggio in Francia, a Digione, luglio del 1990: è la sera prima di partire e vado alla solita gelateria per salutare le mie amiche che appoggiano sul tavolino, un po’ appiccicoso di latte alla menta e resina dei gelsi, un biglietto con scritte uscite da più penne: non è un biglietto d’addio, eccessivo patetico e poco adatto all’età, ma l’elenco di quello che devo riportare dal mio viaggio. Ora, invece, questo non è così urgente: la globalizzazione alleggerisce i nostri trolley e ci permette di partire e tornare con lo stesso bagaglio a mano.
Mentre il taxi procede lentamente, l’eleganza posticcia di questa zona inizia a dare segni di cedimento: oltre le insegne delle boutique, sulle soglie dei negozi, al centro delle spine del viale sembra che qualcosa sia sfuggito al controllo. Tra i ghirigori dei mosaici, le bizzarre balaustre dei balconi e le divinità fluviali tristemente orfane di acqua nelle cascatelle, un’altra Lisbona fa capolino. Il taxi scivola lungo l’Avenida, raggiunge la Praça dos Restauradores, Rossio e, attraversando l’arco di trionfo, il vecchio Terreiro do Paço oggi Praça do Comercio, mia prima meta. Il taxi si ferma nei pressi del fiume e io scendo. Il Tago, rimasta invisibile fino ad ora, sfiora delicatamente la piazza che appare un po’ ingessata nel suo vestito geometrico. Il nero assoluto dell’acqua è appena sporcato dalle tracce del giallo squillante degli edifici e risalta a contrasto con il lucore dell’illuminazione. Ma quello tra la piazza e il fiume è un duello equilibrato, forse un giro di fandango: se l’oscurità sembra prevalere sulla luce, l’odore delle castagne arrostite nella cenere dei bracieri ambulanti è di gran lunga più denso di quello dell’acqua. Lasciato libero di fluire, il fiume lambisce mollemente la gradinata all’estremità, senza che ci siano parapetti o barriere: la città e il fiume appaiono quale due innamorati che si fondono, come Paolo e Francesca nell’opera di Rodin. Qui c’era il Palazzo reale che venne raso al suolo dall’alleanza tra il terremoto, l’incendio e lo tsunami nel 1755; al suo posto oggi si trova la piazza dominata dalla statua equestre di Dom José I. Da sotto il porticato giunge della musica . Mi volto per cercarne l’origine e do le spalle al Tago: ed ecco un’altra città, quella che sbadiglia da sopra le colline, che gioca a nascondino tra i tetti; non è né geometrica, né simmetrica, né ampia, né controllata; è tutto il contrario di quello che ho visto fino ad ora. Continua a rimbalzare della musica ed è evidente che sta cercando clienti per la birreria. Preferisco lasciare la piazza e andare a cercare l’alloggio che mi ospiterà per qualche giorno. Per raggiungerlo devo tornare indietro, verso l’Avenida: la Rua de Sao José è una sua parallela; mai descrizione fu più calzante. Il percorso inizia da Rossio: nascosto dall’imponenza neoclassica del Teatro Dona Maria II, si trova il Largo de Sao Domingos, su cui si affaccia sorniona l’omonima chiesa che riesce a ricavarsi un piccolo slargo protetto dalla rampa che sale verso Graça. Se esternamente è ufficiale, propagandistica, all’interno la chiesa non si vergogna di mostrare la propria vulnerabilità: le colonne degli altari portano le tracce dei terremoti e degli incendi che l’hanno guastata, i cornicioni e i capitelli hanno l’aspetto vissuto ma rassicurante dei piatti che si usano tutti i giorni, con i loro bordi sbreccati. Lasciato il largo, inizia la strada che diventerà Rua de Sao José: impercettibilmente, almeno all’inizio, la strada comincia a salire. Il selciato è scivoloso a causa della pavimentazione a mattonelle lucide. Sulla sinistra si trova il Museo della Società di Geografia di Lisbona. Ci sono tre ragazze che fumano fuori dal portone di questa accademia: sono giovani e ridono tra di loro. Mi avvicino per chiedere gli orari del museo; mi rispondono con una domanda: “Da dove vieni?”; “Sono italiana — rispondo — Vengo da Firenze”. Per un momento mi illudo che sia vero ciò che sostiene Marie, la mia cara amica di Aix: “se dici che sei fiorentina, ti si aprono tutte le porte! È così chic!”. In realtà scopro che le porte sono già aperte e tali rimarranno, così mi assicurarono le tre ragazze ricercatrici della società geografica, fino alle 21. Non ho molto tempo, ma sono curiosa e decido di fare un giro veloce. Invece di trovare risposte in mezzo alla collezione, trovo domande: come ci si libera dal fardello del colonialismo? È sufficiente trasformare gli oggetti da documenti della presunta inferiorità di una civiltà a fonti di conoscenza e di stupore? Mi attrae molto un piccolo oggetto in legno: viene dall’Angola, leggo. Rappresenta Nzambi, il dio supremo, creatore del cielo e della terra, dalle fattezze umane. Il dio si trova all’interno di uno rettangolo sormontato da un volatile, divinità protettrice delle nascite, e decorato con un motivo curvilineo. Mi piace l’idea del mondo come un rettangolo, una figura in cui il cielo e la terra, i due lati brevi orizzontali, si toccano, si fondono, racchiudono la divinità che, però, con la sua verticalità garantisce loro la stabilità.
Esco dal museo; è tempo di fermarsi per mangiare. Entro in una vecchia latteria ormai convertita in ristorante e, nell’attesa della prima porzione di baccalà di questo breve soggiorno, apro la mia carta della città e comincio l’esplorazione. Provo a immaginare possibili percorsi. Solo alla fine del viaggio sarò costretta ad ammettere che Lisbona, nonostante gli sforzi per studiarla sulla carta, per tracciare gli itinerari e per tentare di calcolare i tempi, si diverte a buttare tutto all’aria, con quei saliscendi, le rampe di scale, gli ascensori e i tram.

La mattina successiva esco dall’appartamento che ho preso in affitto. Il tempo è bello e il riflesso del sole sull’acciottolato chiaro mi fa rimpiangere di aver lasciato gli occhiali da sole a casa. Ai bordi della strada i palazzi sono irregolari, ora alti ora bassi, eleganti e decadenti, dal sapore parigino ma orientaleggianti. Una volta raggiunta Rossio imbocco la strada che conduce al Convento do Carmo: sono decisa a cominciare da qui, perché pare essere l’unico monumento che contraddice Saramago: “A Lisbona non sono mai piaciute le rovine. O le ripara con pietre nuove o le rade al suolo per costruire edifici che rendano”, scrive in Viaggio in Portogallo, la guida che ho scelto per questo soggiorno. Si tratta infatti di una chiesa gotica che, pur non avendo resistito al terribile terremoto, si è cocciutamente sottratta al fanatismo illuminista di Pombal. La chiesa mostra la sua facciata, praticamente intatta. Tuttavia è sufficiente una breve ricognizione per rendersi conto che manca completamente il tetto e gli archi rampanti, pur sopravvissuti, giganteggiano quali inutili spaventapasseri in un campo incolto. Camminando lungo il perimetro si giunge ad una terrazza dalla quale si vedono sia l’abside, rivolta scenograficamente verso la città, che i colli dirimpetto. Tornando di fronte alla facciata noto che, nonostante le dimensioni della chiesa e della stessa piazza, il contesto è intimo e confidenziale: sembra quasi che i pochi avventori dei locali abbiano portato le loro sedie da casa e si siano seduti per una chiacchierata tra vicini di casa. Torno sui miei passi e giro su Rua Garret per giungere in piazza Luis de Camoes: nel percorso visito alcune librerie storiche e anche il Brasileira, dove tento di bere un caffè, ma senza successo a causa della grande affluenza di turisti. Sosto brevemente nella chiesa del SS. Sacramento e anche in quella della Madonna di Loreto, la chiesa degli italiani. Giunta in piazza Luis de Camoes, prendo la mappa della città perché vorrei raggiungere il convento dos Cardaes per vedere i suoi azulejos. La pianta è qui particolarmente intricata: le strade si confondono l’una nell’altra e l’unica indicazione che riesco a seguire è quella di allontanarmi dal Tago che, invece, vedo bene in fondo a Rua das Flores. La passeggiata è faticosa e anche frustrante, dato che la chiesa è in restauro, e le cose non migliorano proseguendo verso Sao Roque: trovo la chiesa chiusa e così il museo. Per oggi devo abbandonare l’idea degli azulejos. Tuttavia il percorso mi permette di perdermi nel quartiere di Bairro Alto e di Chiado dove scopro le case basse e modeste, con i panni stesi fuori; non ci sono ristoranti, né bar, né negozi di vintage. Ma niente è sciatto qui, tutt’altro: vi si respira una nobiltà vissuta con noncuranza. Questa zona di Lisbona assomiglia ai figli cadetti delle famiglie di antico lignaggio che, concepiti quasi quali riserve del titolare e da utilizzare in caso di necessaria sostituzione, godono di una libertà che ai maggiori non è concessa e, se giungono per caso al trono, si compiacciono di questa fortunata circostanza come di un vero dono. Giungo infine, senza sapere davvero come, al Miradouro de Sao Pedro de Alcantara e prendo l’Elevador da Gloria per scendere nuovamente a Rossio. Queste vetture gialle, arredate con severe panche di legno verniciato e lucido, sono numerose a Lisbona, hanno l’aspetto intirizzito di vecchi gentiluomini fin de siècle eppure dimostrano la tenacia di un ciclista sullo Zoncolan o lo sprezzo del pericolo di un hiker, mentre si arrampicano con eleganza lungo le calcade. Mi siedo un po’ impettita anch’io, cercando di mimetizzarmi con la vettura stessa. Ma le acque calme e compatte della Belle époque si dividono al nostro passaggio come quelle del Mar Rosso di fronte a Mosè, lasciando emergere una strada che smonta gli sforzi mimetici dei miei neuroni a specchio: sui lati di questo breve tratto si srotola una moderna Bibbia, fatta dei colori delle bombolette spray e delle tags dei writers. Scopro che la Calcada da Gloria è una delle sedi della Galleria d’arte urbana di Lisbona e che Kilos Graffiti è uno dei suoi eroi.

Nonostante l’entusiasmo della discesa della Calcada da Gloria, sono nuovamente al punto di partenza, e comincio a scoraggiarmi. Non so se riuscirò ad affrontare gli altri quartieri: Alfama e Graça. A dire la verità mi sento abbastanza stanca e mi fermo a prendere un caffè ed un pastel de nata in Rua da Sapateiros. È un’altra vecchia latteria, ma questa volta non una qualunque. Infatti è arrivato il momento di ricorrere all’aiuto da casa: alla mia partenza dall’Italia, cercando qualche informazione sulla città, ho avuto dal mio caro amico Nilo, fotografo giramondo e riserva inesauribile di avventure, il nome di una sua conoscente di Lisbona, Adriana, che potrebbe darmi una mano a scovare l’anima della città. Per dire la verità avevo scritto il nome su una delle pagine della guida, più per dar soddisfazione a Nilo che per una reale convinzione. Tuttavia a questo punto del mio viaggio, innervosita dall’inefficacia della mia visita, ricorro a questo espediente per vedere di far uscire il mio soggiorno dall’impasse. Adriana è la moglie del proprietario di questo locale. Chiedo subito di lei, che arriva convocata dal cameriere che mi ha accolto. Non è giovanissima e mi guarda con curiosità. Avendo deciso di parlare solo italiano (non amo usare l’inglese con chi parla lingue neolatine), mi faccio capire; lei sfodera un italiano perfetto: sì, ricorda perfettamente Nilo, si sono conosciuti in Egitto mentre lei seguiva certi lavori di ristrutturazione e lui collaborava con uno studioso per un programma televisivo . Mi aspettava: Nilo, certo dell’effetto che Lisbona avrebbe avuto su di me, l’aveva già avvisata. Nata a Lisbona da madre brasiliana e padre belga, è ingegnere, parla sette lingue ed è libera nel pomeriggio. L’aspetto. Adriana mi propone una breve gita in vespa. Ci fermiamo spesso: mi parla delle origini di Alfama che in arabo significa fontana, passiamo davanti a Chafariz de Dentro, poi saliamo alla cattedrale e sostiamo agli scavi del teatro romano. Scopro che il nostro obiettivo è raggiungere tutti i punti panoramici: il largos das Portas do Sol, il miradouro da Graça, da Senhora do Monte e quello da Santa Luzia. Qui c’è molta gente che si affaccia verso il Tago, sporgendosi oltre il pergolato di bougainville che però, essendo novembre, non dà il meglio di sé; il muro della chiesa di Santa Luzia è ricoperto di azulejos che narrano la battaglia per la conquista cristiana di Lisbona. Rimango incantata da una fontanella che si trova di fianco agli azulejos: sulla parete bianca calce è fissato il rubinetto che ha la forma di una grossa biscia che avvolge tra le sue spire turgide una colonnina sormontata da una pigna. La biscia apre la bocca per lasciare scorrere un getto d’acqua che cade nella vasca sottostante, dalla smerlata forma a conchiglia. Mentre parlo con Adriana si avvicina un ragazzone di colore, un venditore ambulante, che mi saluta usando un bell’italiano dall’inconfondibile calata fiorentina. Mi viene istintivamente da sorridere: mi sento a casa, mi rilasso e comincio a parlare con lui: è senegalese, è cresciuto a Brescia (infatti all’occorrenza passa dal fiorentino al bresciano con grande disinvoltura), ha vissuto a lungo a Firenze e adesso si trova a Lisbona. Ci tiene a farmi sapere che non fa il venditore per vivere, perché con la moglie gestisce un ristorante, ma per raccogliere i soldi per un’associazione caritatevole. Non mi pongo il problema della veridicità di quello che mi racconta e accetto il braccialetto che mi porge, lasciando il solito minimo obolo che tiene a bada la coscienza. Tuttavia questo incontro non mi scivola addosso: la sera, sistemando gli appunti e ripensando a questa sosta nel quartiere di Alfama, vado a cercare le parole di Saramago: “Animale mitologico per conto altrui, Alfama vive il proprio e difficile conto. Ci sono ore in cui è un animale sano, altre in cui si accuccia in un angolo a leccarsi le ferite che secoli di povertà gli hanno provocato sulla carne e che non trova il modo di curare”. Mi rendo conto di non aver chiesto il nome a quel gigante senegalese, portoghese di adozione e dall’accento bresciano — fiorentino; ma per me lui è Alfama.

Alla fine di questa galoppata sui colli di Lisbona, torniamo verso il Tago e, prima di salutarci, ci fermiamo per un bicchiere di vino e una porzione di polpette di baccalà. Scegliamo un bistrot anonimo di fianco alla Casa dos Bicos, la cui facciata, ispirata a quella del Palazzo dei diamanti di Ferrara, si appoggia alla città come un giubbotto di pelle con le borchie alle spalle di un dandy. Adriana deve tornare alla latteria e io ho già un programma per il pomeriggio, ma non lei non ha intenzione di abbandonarmi e io accetto ben volentieri la sua decisione materna. Adriana mi dà appuntamento per l’indomani. Con lei visiterò Belem, la zona dove lei abita.

Rimasta da sola, cammino lungo il Tago : la passeggiata è piacevole per il tepore del vento, ma un po’ noiosa a causa del paesaggio urbano. Si cammina infatti lungo la ferrovia e il percorso è abbastanza trascurato e mal frequentato. Raggiungo finalmente la Rocha do Conde de Obidos dove sorge il Museo di arte antica. La collezione di arte portoghese è interessante soprattutto per le sculture lignee policrome tardo medievali. Le opere sono molto elaborate e, nell’estrema decoratività e anche nel carattere naïf, mostrano qualche vicinanza con la scultura spagnola e fiamminga. Siamo distanti anni luce da quello che nello stesso periodo si stava compiendo in Francia e in Italia, sebbene la Madonna del latte mostri, nell’atteggiamento pensoso e nell’hanchement, qualche influenza delle sculture francesi. Mi incuriosisce una Trinità, nella quale un Dio Padre seduto, coronato e biondo, dai lunghi capelli e dalla barba pettinata, sostiene la croce su cui è crocifisso il Figlio. Dio Padre ha un’espressione serena: le sopracciglia sono distese, gli occhi morbidi, le guance lievemente rosate e le labbra, sebbene prive di increspature, lasciano intendere benevolenza. La testa coronata è appoggiata senza la mediazione del collo direttamente sulle spalle, decisamente troppo piccole e arrotondate per sostenere un tale peso. Un mantello rosso bordato di oro e una veste dello stesso colore costituiscono le quinte e il sipario per un’apparizione: è la colomba bianca dello Spirito Santo che, planando, incombe sulla croce dove Cristo è crocifisso. Sfortunatamente il volto di Gesù è stato mutilato, ne vediamo solo il corpo dall’anatomia molto marcata, propria di un lavoratore. Il legno rozzo della croce e le fattezze grossolane di Gesù stridono al confronto con l’oro sfoggiato da Dio e con la sua impeccabile capigliatura; come anche le poche ma evidenti ferite contrastano con l’espressione benigna del Padre.
La sezione di pittura portoghese è altrettanto intensa . Belle alcune opere di Carlos Frey, pittore fiammingo attivo in Portogallo nella prima metà del XVI secolo. Preziosa l’Annunciazione: il formato quadrato del dipinto dà luogo ad una strana suddivisione dello spazio, in cui la casa della Vergine Maria viene fortemente scorciata per lasciare correre lo sguardo verso un giardino dove tre angeli musicanti, ammantati in vesti cangianti, fanno le prove per un eventuale concertino. In virtù di questa scelta compositiva la soluzione per lo scomparto centrale del dipinto è assai originale: la casa di Maria appare quale l’elegante dimora di un antiquario, le colonne di marmi variegati sorreggono candidi capitelli rinascimentali, le mostre delle porte in pietra serena sostengono medaglioni marmorei figurati e il pavimento rallegra la severità dell’insieme grazie ai toni pastello delle mattonelle disposte in motivi geometrici. Tale eleganza si ritrova anche nell’arcangelo Gabriele: la sua veste bianca stretta in vita è impreziosita da un bel mantello in tessuto doppiato, broccato giallo all’esterno e rosso bordato di verde all’interno. Sul bordo esterno è ricamato il suo saluto alla Vergine. Preziosa la spilla che chiude il mantello e il bastone di cristallo di rocca culminante con uno stelo attorcigliato e con un giglio. Entra con passo di danza e saluta Maria, mentre lei, inginocchiata su un morbido tappeto di seta decorato a cuori e intenta a leggere, risponde timidamente al saluto. Immediata sopraggiunge la colomba dello Spirito Santo. Il volumetto che Maria è intenta a leggere, provvisto di un’infinità di nastrini segnalibro, è appoggiato, protetto da un telo rosato, su un mobile molto singolare, una specie di altarolo ornato da un vaso in fine porcellana bianca da cui esce un ramo di gigli bianchi. L’altarolo, marmoreo e dal gusto antiquario in linea con la dimora, si apre su una veduta esterna, di difficile lettura: un uomo inginocchiato in un paesaggio. Sul fianco del mobile si apre uno sportellino. Molti i riferimenti al ventre casto e fecondo della Madonna.
Tra le opere provenienti dalle spedizioni trovo affascinanti due coppie di paraventi giapponesi, dove, su ampie campiture dorate che raffigurano l’isola di Nagasaki, si narra paratatticamente l’arrivo dei portoghesi, i barbari del sud, con i loro strani abiti e la loro merce che viene accolta festosamente e con curiosità dagli autoctoni. Il mare su cui si staglia la mole gigantesca delle navi è nero come il mistero che avvolge questi esotici viaggiatori. Proseguo la visita nonostante la stanchezza, dato che non ho la forza di accogliere le sagge raccomandazioni di Saramago che, consapevole della densità di questo museo, suggerisce di visitare una sala alla volta: sfortunatamente il mio soggiorno è troppo breve e la vita troppo imprevedibile per essere sicura di poter tornare.
Uscita dal museo, mi soffermo a guardare verso il Tago che dalla collina appare vasto come un mare. A sinistra il centro e in lontananza il recente ponte Vasco da Gama; a destra Belem e il leggendario ponte 25 de Avril. Torno in tram verso il centro, dove molte persone sono per strada a godersi la domenica sera. Cammino in direzione del mio appartamento e, invece di rientrare, decido di cenare in una taverna poco distante per poi potermi riposare e cominciare a scrivere qualcosa sul mio diario.

Di buon mattino parto per il Castello di Sao Jorge che raggiungo passando da Praça de Figuera e prendendo un ascensore. Non mi aspetto una grande scoperta, soprattutto per quello che scrive Saramago: “Fortezza di tante e tanto remote lotte fin dai tempi di Romani, Visigoti e Mori, oggi sembra piuttosto un parco”; e per quello che ha aggiunto Adriana: “Un posto spoglio con molti pavoni”. La struttura è divisa in varie parti, ma la cosa più strabilinate è il panorama che si gode da lassù. Cammino all’interno del parco, fiancheggio ciò che rimane delle antiche costruzioni del VII a.C., delle rovine degli edifici di epoca araba e infine entro nella struttura del IX secolo. Mi inerpico sulle scale strette e ripide che conducono al camminamento e, facendo il giro, mi imbatto nella Torre di Ulisse, dove si trova un osservatorio. Da qui la vista sulla città è ancora più ampia: vedo finalmente i sette colli di cui mi si parla dal mio arrivo. Scopro che i colli qui non hanno un legame con Roma, bensì con Ulisse, il mitico fondatore di Lisbona. Secondo la leggenda la terra su cui sorge Lisbona era la terra di Ofiusa, la regina dei serpenti che, innamoratasi di Ulisse, gli permette di fondare una nuova città, Ulisseia; ma l’eroe greco, mai pago di scoperte e soprattutto desideroso di tornarsene ad Itaca, la abbandona e la regina, nel tentativo di raggiungerlo, si lancia verso il fiume e per l’esasperazione muore. La sua coda colta dagli spasmi inizia a percuotere il terreno e nascono così i sette colli, tutti protesi verso il fiume. Donne serpente, eroi greci, territori lussureggianti che diventano città: ci sono tutti gli ingredienti per un vero mito di fondazione. Mi chiedo se l’Ulisse fondatore di Lisbona sia quello omerico, tormentato dal desiderio di tornare in patria, o quello sfrontato e guascone di Kazantzakis, spinto verso l’ignoto. Ripenso allora alla fontanella al miradouro di Santa Luzia, a quel serpente che fa sgorgare l’acqua, è forse questa la chiave di lettura della città? È forse quello l’animale mitologico a cui fa riferimento Saramago?
Imbocco una delle porte della cittadella e mi dirigo verso la cattedrale di Lisbona, la Sé. La distanza è breve ma riesco a renderla lunga, perdendomi nel groviglio delle viuzze che salgono e scendono, assecondando le linee curve e morbide e svoltando a gomito senza nessun punto di riferimento. Sbucando da questo nodo di strade, mi aspetto di trovarmi di fronte ad un edificio altrettanto mosso; invece la cattedrale ha la facciata massiccia di una fortezza, appena alleggerita dai trafori del rosone e dall’alternarsi di vuoti e pieni del camminamento. È stretta tra due poderose torri che, vergognandosi per tanta scontrosità, si lasciano convincere ad aprire due timide bifore. In alto ci sono due ampie finestre che, nelle colonnine delle strombature, rendono visibile l’eco delle campane che ospitano. In effetti la cattedrale non è l’edificio originale che si trovava qui: molto più coerentemente qui sorgeva la moschea che fu rasa al suolo e rimpiazzata dalla cattedrale pochi anni dopo la conquista cristiana portata a termine dal re Afonso Henriques anche grazie al sacrificio dal mitico Manuel Moniz nel 1147. All’ingresso la chiesa è deludente, molto spoglia e ampiamente ristrutturata in stile neoromanico. Il vero capolavoro è il deambulatorio che abbraccia il presbiterio e le cui volte costolonate si intrecciano come rami di alberi in una fitta foresta tropicale. Le cappelle radiali sono illuminate dalla luce che filtra attraverso le vetrate, i cui decori geometrici e aniconici riecheggiano i motivi arabi invece di allinearsi al coevo figurativismo del gotico francese. Niente santi tra i colori primari, solo quadrati, rettangoli, triangoli e meandri prospettici. L’atmosfera astratta e per questo serena delle cappelle accoglie realistici corpi scolpiti nel marmo: nella cappella dei Santi Cosma e Damiano si trova la tomba di una nobildonna, Maria Vilalobos, raffigurata comodamente appoggiata su due cuscini e intenta a leggere il libro che tiene saldamente con le mani, mentre ai suoi piedi un cagnolino dalle orecchie rovesciate e dai grossi bubboli al collare mordicchia il collo di un gallo con tanto di cresta e bargigli, forse un avanzo del pranzo. Forte è il contrasto tra questa zona fresca e serena e il Camerino del Patriarca dove una profusione di marmi bianchi e rosa, variegati e incrostati, ricopre il pavimento e il livello inferiore delle pareti. Il legno intagliato con virtuosismo e dorato, alternato a dipinti e sculturine policrome, impreziosisce la parte superiore dominata dall’altare con la Madonna e un giovane Gesù che leggono. Vi sono esposte, su un mobile da sacrestia sulla sinistra, le sette mitrie delle diocesi suffraganee di Lisbona e al centro il piviale del vescovo. Nei pressi dell’uscita si apre la cappella di Bartolomeu Joanes, di cui mi colpisce un drappo appeso alla parete di un bel rosa ricamato con filo in argento, e il battistero, quasi una nicchia ricavata nel muro e ricoperta di azulejos. È dedicata a sant’Antonio da Padova, che qui studiò, qui fu tentato dal demonio e qui tracciò la croce per respingerlo, prima di partire per l’Italia.

La mattina è trascorsa tra spazi chiusi, quasi asfittici; il pomeriggio lo dedicherò alle ampie prospettive, cioè a Belem, dove andrò con Adriana con la quale ho un appuntamento alla fermata del 15 in Praça do Comercio alle 13. Siccome è ancora presto, percorro con calma Rua da Madalena e mi fermo nella Rua dos Bacalhoeiros, dove, secondo le indicazioni di Adriana, si trova la migliore Conserveira di Lisbona: è un locale piccolo, con le pareti nascoste da scaffali in legno riempiti di scatoline colorate. Qui si vende pesce in scatola, uno dei prodotti tipici del Portogallo. Non mi piacciono molto le sardine, ma questo posto è incantevole, a cominciare dalla sorridente accoglienza del proprietario al quale chiedo un aiuto per la scelta, vista la varietà di prodotti. Acquisto molte scatole di sardine che mi faccio confezionare in una scatola in legno sulla quale è impressa a fuoco il marchio della conserveira. Non mangerò mai tutte queste sardine, ma i colori accesi e la grafica genuina della carta mi serviranno per risvegliare il ricordo di Lisbona.

All’orario stabilito arrivo alla fermata del tram e vedo Adriana camminare verso di me; viene dal Municipio dove doveva prendere non so quali permessi per un suo cantiere e si lamenta, come tutti in tutto il mondo, per le lungaggini della burocrazia. Oggi ha un aspetto molto più formale, ha coperto la pelle con la divisa da ingegnere che, però, nel giro di due fermate ha di nuovo riposto. Si arruffa un po’ i capelli, toglie il foulard che ripone disordinatamente in borsa e mi offre le castagne arrostite che ha avuto il tempo di acquistare raggiungendomi. Le mostro i miei acquisti che lei approva, particolarmente la petiscada de dourado com tomilho che mi suggerisce di gustare versandola sulle patate lesse ancora calde. Nel parlare vediamo Lisbona scorrere come un film attraverso i finestrini: una volta passata la zona di più recente urbanizzazione, ci avviciniamo ai pilastri del ponte 25 de Avril e scendiamo alla fermata. Proprio lì Adriana ha parcheggiato l’auto che prendiamo per raggiungere un luogo pazzesco, la libreria Ler Deavagar, dove, in mezzo a intere pareti di libri nuovi e usati e sotto una bicicletta penzolante, ci sediamo per un pranzo veloce. Purtroppo manca il tempo per ciondolare tra gli scaffali di questo vecchio magazzino riconvertito e quindi torniamo sul lungo Tago. Siamo quasi arrivati a Belem dove gli edifici, sebbene compressi sulla strada, mantengono l’eleganza del centro, recano facciate ricoperte da azulejos e delicate decorazioni liberty. Improvvisamente la strada si allarga nei pressi di uno spazio verde che introduce una vista grandiosa, il Mosteiro dos Jeronimos. Cominciamo con la visita della chiesa, sontuosa, soprattutto nel presbiterio. Ogni dettaglio racconta una storia; ogni intarsio si intreccia ad un altro; ci sono volti nascosti tra i racemi, nodi marinari e corde, sfere armillari e astrolabi. Nelle due cappelle all’inizio della navata sono sepolti Vasco da Gama e Luis de Camoes, il suo cantore: come dire Ulisse e Omero. Basta questo per capire che il monastero esalta la visionarietà di questi portoghesi, la loro temerarietà, anche il loro affidarsi a Dio oltre ogni ragionevolezza, o forse esalta la fine della superstizione, l’apertura al mondo e al diverso. Il chiostro del monastero ribadisce lo stesso concetto: il mondo occidentale che si apre a quello orientale, è la sopravvivenza dei demoni che si volevano scacciare e la scoperta che in fondo quei demoni non spaventano. Dal chiostro si accede al coro della chiesa: alla base delle colonne pigri tritoni si divertono ad intrecciare le corde dei marinai. Non sarei mai uscita, ma Adriana mi incoraggia perché vuole accompagnarmi sulle rive del Tago che qui, a suo dire, sono diverse da quelle di Praça do Comercio. Attraversiamo il viale che fiancheggia il monastero e passiamo di fianco al Centro culturale di Belem, senza soffermarci. Alla nostra destra un monumento sproporzionato esalta il coraggio dei portoghesi, è il Padrao dos Discobrimentos: il tono è quello perentorio e progandistico tipico dell’Estado Novo che, probabilmente, non aiuta a rendere omaggio alla spinta verso la conoscenza e al coraggio dell’infante Enrico, di Vasco da Gama, Bartolomeo Diaz e degli altri navigatori. Non è questo ciò che ha in mente Adriana: mi indica la nostra meta, nonché ultima immagine di Lisbona che riuscirò a godere prima di ripartire per l’Italia. Non è certo un tesoro nascosto quello che vuole mostrarmi; al contrario è il monumento più fotografato di Lisbona, ma non per questo quello più compreso. È la torre di Belem. La sua mole è talmente grande che dà l’illusione di poterla raggiungere velocemente, invece dobbiamo camminare un po’ e inganniamo il tempo gustando una pina colada: il ricordo vola a Monaco di Baviera, di cui solitamente si ricorda la birra o la radler. Mex, la giunonica padrona della casa dove ho trascorso l’estate del 1994, amava il sole e nel suo giardino a Assling aveva ricreato un’oasi esotica: sdraiate, in bikini, sorseggiavamo la pina colada che lei preparava mentre io le facevo ascoltare la musica del Boss. Qui la situazione è assai diversa: è la fine di novembre e fa piuttosto fresco, ma la pina colada è migliore di quella di Monaco. La coppa è un mezzo ananas svuotato che contiene una crema fresca e lievemente alcolica. Il ritmo lento della passeggiata, il gusto della pina colada e la vista in lontananza della torre inducono Adriana a raccontarsi un po’: dopo l’infanzia trascorsa tra Lisbona, Liegi e vari viaggi a Blumenau, l’Erasmus (uno dei primi) a Bologna e la specializzazione in Cina, si è fermata per amore, ciononostante la sua passione restano le scoperte che, pur non potendo fare più così frequentemente, continua a coltivare in maniera letteraria. Sì, perché nei momenti liberi si dedica alla traduzione.
“E tu?” mi chiede sostando per un breve momento e guardandomi diretta negli occhi.
“Io talora assecondo la mia natura irrequieta che, come te, ho scelto di domare per amore”, rispondo.
“È un bel modo per appagare tutte le anime che so di avere”, aggiungo.
Anche la torre di Belem, che diventa sempre più definita man mano che ci avviciniamo, ha molte anime. La sua mole enorme piantata nel punto in cui il Tago si getta nell’Oceano, antenata della bandiera americana piantata da Armstrong sulla Luna, ha l’eleganza e la spavalderia leggiadra delle caravelle. Incerta se prendere l’aspetto di fortezza o concerdersi il lusso delle grazie di una residenza, segna la fine della sicurezza e l’inizio dell’ignoto; e rappresenta per me la fine di questo viaggio. Lisbona ha fissato la sua bandierina su di me.

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