A talk with Cristiano Nordio: Gamification

Elisa Boaretto
10 min readOct 21, 2020

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Innovare e coinvolgere tramite il gioco

Ho avuto il piacere di conoscere Cristiano Nordio durante la stesura della mia tesi di laurea magistrale, precisamente a febbraio 2019. Lo intervistai per approfondire le dinamiche di engagement, tramite il gioco, all’interno di contesti non ludici.

Oltre ad un’intervista* illuminante (qui sotto👇), Cristiano seppe accendere in me la passione per il Game Design e in generale per il Design Thinking aiutandomi a capire quanto il gioco possa essere uno strumento meraviglioso per portare innovazione all’interno delle aziende.

Buona lettura!

Prima di procedere con l’intervista vera e propria chiariamo, o meglio mettiamo in comune il significato della parola Gamification.

«Al giorno d’oggi la Gamification ha preso molto spazio, è diventata quasi una moda, ed essendo tale viene a volte stravolta, modificata o piegata in funzione delle proprie esigenze, in attività che possono essere giochi o concorsi a premi. Per quanto riguarda per esempio le aziende che la applicano nell’ambito della comunicazione e marketing, può essere utilizzata anche attraverso piattaforme e software per l’engagement degli stakeholder interni come i dipendenti, oppure quelli esterni.

In genere la traduzione di gamification in italiano potrebbe essere “ludicizzazione”, quindi in realtà non è altro che l’utilizzo di elementi che vengono mutuati dai giochi come il Monopoli, gioco dell’oca o le carte. Sono tecniche di game design che vengono applicate per migliorare il comportamento e il coinvolgimento di un target di persona, che può essere esterno o interno all’azienda.

Il fatto che venga utilizzata attraverso piattaforme software è semplicemente un’estensione del modo in cui si può fare. Come insegnano i maestri del Lego Serius Play, abbiamo diversi modi di pensare e uno di questi è pensare con le mani, che è difficilmente replicabile tramite una piattaforma software. È un modo di pensare molto istintivo, come un cervello dello stomaco o del cuore, dal quale vengono fuori delle realtà che sono frutto del pensiero laterale e spesso conducono innovazioni che sono ben più che incrementali.

C’è molta confusione dietro questo termine perché viene usato in modo plasmato a proprio uso e consumo. Generalmente quello che la gamification consente di fare è imparare. Attraverso il gioco impariamo sin da quando siamo piccoli: apprendiamo a gestire situazioni complesse, il rischio, il feedback, il successo, e tutto questo ha all’ interno di una azienda ha come scopo di provare a generare un maggior coinvolgimento, ma serve anche a generare divertimento nello svolgere attività quotidiane».

Quand’è entrato in contatto con la gamification per la prima volta?

«Ho iniziato con un gruppo di ragazzi nell’ambito del marketing nel 2012 quando ci siamo inventati Playground. Nel 2012 in Italia nessuno sapeva o faceva gamification. Noi all’inizio non la vendevamo come gamification, eravamo un’associazione culturale senza scopo di lucro. Era solamente un ambito di divertimento, di condivisione, di stare assieme, aiutando imprese, associazioni. L’obiettivo era quello di conoscere il gioco come fonte di apprendimento. A proposito di ciò c’è una frase di Raph Coster che scrive sul suo libro La teoria di divertimento per il game design, che ci aiuta a capire la motivazione per cui le persone sono affascinate dalla gamification:

“Il divertimento nei giochi deriva dall’essere competenti e dalla comprensione del gioco, dal risolvere il puzzle non da puzzle in sé. Pertanto, è la possibilità di apprendere la vera droga del gioco”

(Raph Koster — Theory of Fun for Game Design)

Una delle caratteristiche principali della gamification è che riesce a contenere il classico brainstorming attraverso le regole e un campo di gioco . Per una questione di costante apertura, c’è il bisogno di contestualizzare attraverso delle regole, degli archetipi, dei ruoli, un campo di gioco, il contesto in cui vai a fare delle domande o stimoli la creatività delle persone
La passione per la gamification è nata fondamentalmente quando ho compreso che questo è uno strumento estremamente utile per fare emergere delle idee».

Quindi è nata in un modo per cercare di decontestualizzare per esempio le aziende, i dipendenti o gli studenti per farli pensare fuori dagli schemi, in pratica?

«Esatto! Noi — di Playground (n.d.a.)- avevamo uno slogan “ci servono i problemi perché le soluzioni esistono già”. Si trattava semplicemente di portare le persone che partecipavano a questi playground a decontestualizzare il loro sapere e la loro quotidianità, a uscire dallo schema di interpretazione dei soliti meccanismi decisionali aziendali e farsi contaminare, condizionare da un gioco e da persone che la pensavano in modo diverso da loro. Qui sta il vantaggio della gamification: non essere verticale. Anche il Design Thinking che alla fine è un’applicazione della gamification è molto trasversale. In poche parole: più diversità si porta all’interno di un’aula meglio è, perché si generano letture e visioni laterali».

Quindi la gamification può essere una soluzione per ritrovare quel coinvolgimento, all’interno delle aziende, che si sta perdendo a causa del Covid-19? Potrà diventare uno degli elementi chiave per l’innovazione delle imprese?

«Domandona da 1 milione di dollari. Noi abbiamo un gran bisogno di nuovi
input, di rompere gli schemi, di coinvolgere le persone, di far emergere le decisioni dal basso, di creare engagement in tutte le fasi del processo decisionale sia strategico che tattico che operativo e valorizzare le risorse che abbiamo all’interno o all’esterno delle imprese. Se parliamo di aggregazione di impresa o di eventi di impresa, troviamo una moltitudine di persone di riferimento che stanno attorno (in termini di mappa degli attori/stakeholder).

La gamification è certamente un modo diverso di affrontare le problematiche quotidiane e se vogliamo provare a fare le cose diverse - come diceva Einstein - non possiamo continuare a farle esattamente come le facevamo fino a ieri. Quindi, non so se la gamification sia in grado di risolvere il problema delle aziende italiane o di risolvere la crisi che stiamo per affrontare, ma oggettivamente le aziende che approcciano la strategia, la tattica, l’analisi attraverso questo strumento, sono aziende che hanno un’apertura mentale, un mindset diverso e quindi probabilmente porterà a creare qualcosa di più disruptive rispetto alle aziende che affrontano le cose in modo classico. Se si pensa alle teorie che stanno dietro al business modelling o all’analisi della customer experience — i due grandi filoni per la definizione della strategia in azienda — , una cosa è fare un piano strategico come lo insegnano all’università e che spesso viene dimenticato in un angolo della scrivania, e un’altra è farlo attraverso poster, post-it, materiali di sintesi che diventano esperienze vissute e di conseguenza parte integrante del contributo come persona l’interno di un’azienda. Quindi è mio, è un pezzo di strategia che ho creato io assieme a tanti altri, e non ho nemmeno bisogno di star lì a fare il report e a sintetizzarli perché li ho vissuti direttamente. È una delle metodologie assolutamente più utili oggi per cercare di creare innovazione. Non so se possa essere considerata un pilastro, io penso di si. Ritengo che oggi sia assolutamente necessario riuscire a generare un pensiero innovativo, e per farlo la gamification è uno strumento estremamente utile e coinvolgente».

Tutte le imprese sono adatte all’applicazione di queste metodologie innovative? Oppure l’impresa deve avere dei prerequisiti (a livello tecnico, organizzativo, umano) specifici?

«I livelli di risultati che si possono ottenere dipendono dal carattere di coinvolgimento con cui si vuole partecipare al gioco. È un po’ la differenza tra chi guarda gli altri a giocare a nascondino e chi gioca e partecipa a tutti gli effetti: ci sono alcune persone che stanno alla finestra, altre che osservano in modo timido e altre che lo fanno in modo partecipato. Secondo me è un insieme di mind-set, è una questione di approccio, come dissi in una precedente intervista di Massimo Cerofolini. È una parte cruciale il fatto che le metodologie ludiche consentano di stimolare dei comportamenti attivi. E chi è che normalmente è attento a generare dei comportamenti attivi? La risposta alla domanda che mi hai fatto sta qui: è l’imprenditore, o il manager che è attento a generare e stimolare dei comportamenti attivi che avrà degli occhi di riguardo e delle attenzioni nei confronti della gamification.

Tutti coloro che vedono l’azienda classica piramidale, con solo ruoli, processi definiti, dove lo stimolo del comportamento attivo da parte delle persone è meno gradito oppure c’è meno attenzione, sono aziende che probabilmente non avranno alcun o poco beneficio da questo tipo di attività. La chiave è l’obiettivo che ci si pone: se lo vuoi fare tanto per farlo o se veramente vuoi stimolare qualcosa. Si va a giocare sullo stimolo di alcuni istinti primordiali dell’essere umano, come quello di appagare desideri, bisogni, la competizione il successo. Quando si fa un gioco all’interno di un’azienda (con ruoli, archetipi, punti, livelli, ricompense, distintivi doni) si genera competizione, ed è lì che la gente poi alla fine dà il massimo del proprio contributo.

Se tu imprenditore sei disposto a fare una cosa così nella tua azienda probabilmente hai un’apertura mentale da volere il coinvolgimento delle tue persone. Se poi si allarga il tiro e pensiamo allo stakeholder engagement, quanto sei disposto coinvolgerli? Alla fine a quel gioco tu ci arrivi nudo come azienda, li fai entrare a casa tua, li fai vedere com’è arredata, cioè tu in quel momento apri le porte e li fai giocare. Anche se si tratta di gamification online, bisogna essere capaci di gestirla, coinvolgere come sanno fare i buoni padroni di casa e di moderare».

Può avere risultati positivi, ma se uno ha qualcosa da nascondere, non presta attenzione alla reputazione della sua azienda può anche ritorcersi contro?

«Esatto questo va oltre la gamification, anche parlando semplicemente di comunicazione aziendale, è una cosa che vale anche in altri ambiti».

Quindi quei dipendenti che si sentono più esclusi o magari sono timidi, o gli stakeholder più esterni, piuttosto di coinvolgerli con la forza è sempre meglio non coinvolgerli se sono restii?

«Io credo che ci sia sempre un modo per mettere a proprio agio le persone.
Stiamo parlando di ascolto, quindi è difficile che una persona all’ interno di un contesto ovattato non trovi il modo di essere messa a proprio agio. È come costruisci il gioco che fa la differenza; è difficile che qualcuno sia restio a partecipare se tu hai pensato in modo empatico a cosa potrebbe aiutarlo. Non è tanto il fatto che funzioni o non funzioni, ma come la pensi».

Al giorno d’oggi il “cliente” non è più solamente un consumatore, ma è quasi un co-creatore di significato, un prosumer, e fa parte della grande e sempre più importante famiglia degli stakeholder. In che maniera la gamification può essere utile utile al loro engagement e al mantenimento della relazione tra impresa e stakeholder?

«Io proverei a pensare che tutti questi sono intermediari e hanno influenza. Ogni soggetto avrà le sue problematiche e sarà lì per un motivo, principalmente risolvere le sue problematiche riguardo a quella cosa, quindi ognuno da quel contesto deve portarsi a casa qualcosa. Pensare a un gioco che consenta agli attori di tratte il massimo beneficio. Bisogna sempre pensare di mettersi sempre nelle scarpe di chi le vive, non solo nella testa. C’è la teoria sull’empatia e sulla necessità di porsi in modo empatico che è estremamente utile: solo così si riesce a costruire qualcosa che faccia vivere un’esperienza di gioco alla parte che hai davanti.

La componente empatica è fondamentale, basti pensare al linguaggio. Potremmo metterci d’accordo sul significato di una parola: giallo vuol dire giallo, ma nel momento che io dico giallo, tu immagini un giallo che è diverso dal mio, stiamo dando due “significati” diversi alla stessa parola. Quante situazioni di confusione può generare questa problematica di uso comune del linguaggio all’interno di un’azienda? Io e te diamo alla parola onestà un valore diverso. Quindi dai significati delle parole o dei valori che rientrano dentro la reputation del brand di un’azienda, o semplicemente nei comportamenti interni valoriali aziendali, il significato che diamo alle cose è diverso. Ci si addentra nel mondo della semiotica del linguaggio, dell’osservazione, dell’esperienza individuale: noi abbiamo archiviato dentro al nostro cervello che il giallo è quello e poi ci sono tante sfumature. Però quando iniziamo una sessione di gamification si cerca di concertare il significato delle parole, è una delle cose più importanti per far funzionare il gioco e quindi è assolutamente necessario mettersi nelle scarpe di chi hai davanti.

È più facile quando si parla di stakeholder interni perché anche se ci sono problematiche organizzative, è più semplice raggiungerli; diventa più complesso quando si coinvolge il cliente, e lo diventa ancora di più quando coinvolgi attori che sono gli stakeholder più esterni, come il pubblico di riferimento, gli azionisti, banche, fornitori perché raramente fanno parte del gioco. La chiave è che deve essere di interesse per loro.

Tornando sul tecnologico, prova a pensare se tu coinvolgessi dei cittadini per
sviluppare un’app che fornisce informazioni su parcheggi, soste, biglietti dell’autobus ecc. Potresti coinvolgere i cittadini nel pensare qual è l’esperienza d’acquisto o quali sono le cose più utili a loro nel trovare la risposta al problema. Nel momento in cui studio il gioco, studio anche il modo migliore in cui si troveranno all’interno di quella piattaforma: c’è il cittadino che ti dirà determinate cose e quello che te ne dirà altre, bisogna “solo” metterli a proprio agio.

Si tratta proprio di mettere le persone al centro — una delle frasi più inflazionate del mondo(n.d.a.) — e fare in modo che quelle persone capiscano veramente. Io mi metto in gioco con te e ho pensato a quella cosa la per te e perché tu poi ti porti a casa un valore, solo così si possono generare i cosiddetti prosumer, altrimenti se tu non dai qualcosa non li rendi realmente partecipi; se non gli fai delle domande e in qualche modo fai percepire che gli stai facendo delle promesse che non puoi mantenere, anche se sono soltanto sottointese, alla fine vai a generare soltanto il contrario: aspettative che non vengono poi soddisfatte».

Quali possono essere le maggiori difficoltà che un’impresa può trovare quando inizia un percorso di innovazione di questo genere?

«Gli aspetti negativi normalmente derivano dai partecipanti. Come in ogni
gioco può succedere che ci sia un eccesso di foga di qualcuno che vuole predominare sugli altri. Sappiamo che in un ambito di ecologia di business, collaborazione, rete, mappe degli attori se c’è qualcuno che fa ombra agli altri, normalmente la piantina che sta sotto muore. Questa componente è legata alla bravura di chi media il gioco e al meccanismo ludico che si va a creare.

Un’altra difficoltà che si riscontra frequentemente è che pur facendo delle bellissime sessioni di gamification che portano a definire un piano da attuare, a volte le aziende perdono il piano creato nel corso del tempo perché non riescono a trasformare il gioco in azione.

La gamification, inoltre, tende ad essere considerata un semplice gioco. Questo di per sé è una debolezza, perché non viene ritenuto un campo serio, non è una cosa da adulti, da strategia di business, come se per decidere bisogna sempre essere in giacca e cravatta. È un preconcetto che però crea un bel po’ di problemi.

Ma quanto è distante il gioco dalla creatività? Come si genera la creatività? Non è che uno si mette là e pensa. Devi creare degli elementi di rottura, devi pensare prima al “come” che al “cosa”. Solamente adottando quest’ottica ha senso utilizzare la gamification a discapito dei tradizionali metodi di ricerca e sviluppo che portano raramente a un’innovazione incrementale e interessante, ma a qualcosa di mediocre».

*L’intervista risale a Febbraio 2019, ma è stata riadattata a Ottobre 2020

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Elisa Boaretto

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