Un fiore all’inferno
Ho visto bambini tra i rifiuti; donne gravide senza denti; vecchi decrepiti di 50 anni. Ho ammirato un fiore all’inferno.
Sono stato a Rio de Janeiro, lungo la Bandeira, una linea ferroviaria in parte abbandonata in cui si accumulano gli scarti della favela Jacarè, sia materiali che umani. Una discarica che si stende tra i binari e un muro di fango, in cui gente di tutte le età vive, stendendo un cartone per terra o accatastando lamiere e pannelli di compensato. Quasi tutti sono cracudos, dipendenti dal crac, una pietrina che costa poco e uccide in fretta. Vicino alla cracolandia ci sono tante baracche; qualche bar improvvisato; ragazzini con pistole sotto le magliette e buste di coca per lo spaccio.
Serginho è contento di vederci, conosce padre Renato da anni, e ci guida tra i mucchi di immondizia. Ha una trentina d’anni, gli mancano parecchi denti ed entrambe le braccia. Le ha perse quando aveva 10 anni: era drogato, stava facendo surf su un treno in corsa, è caduto. Il treno è passato, le braccia sono rimaste sulle rotaie. Il destro amputato fino alla spalla; il sinistro fino al gomito, e con quello fa tutto: beve, mangia; abbraccia.
Qui è tudo coraçao, tutto cuore. Altrimenti, da un posto come una cracolandia, ad ascoltare la testa scappi immediatamente. Invece sembra tutto naturale, e vai avanti lasciandoti indietro i preconcetti, la paura, lo schifo. Ricambi sorrisi sdentati, stringi mani annerite, abbracci persone che si alzano dal fango per salutarti. Ti addentri in una realtà talmente surreale da lasciare attoniti; però si ama, si ama, si ama e si va avanti. Questo cambia tutto. Si assiste tanto al degrado di persone che contendono lo spazio ai cani randagi quanto alla forza disarmante dell’amore. Amore che è accoglienza, che è assistenza, che è semplicemente presenza.
Scambiamo due parole con i cracudos, offriamo panini e guaranà, ascoltiamo le loro storie, giochiamo con i bambini. Ci facciamo coinvolgere, ci lasciamo sconvolgere.
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Da quando sono qui ho conosciuto molte persone, mi è passata tra le mani tanta vita. Nelle case di accoglienza ho abbracciato assassini ed ex-spacciatori, il più vecchio ha 16 anni. Ho ascoltato bambini raccontare storie di sofferenze impensabili, faticando a tenere gli occhi asciutti. Ho assistito alla forza di persone deboli che si lasciano rivoluzionare dall’amore.
Hanno scritto che un libro, per essere utile, deve aprire ferite. Si può dire lo stesso di un’esperienza. Questa, però, non si limita ad aprirle, le ferite, ma ci fruga dento, e fa male. Fa. Male.
Sono grato di questo dolore. Sono grato di sentirmi ferito e poter dire: sono stato arato.
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A che serve portare un fiore all’inferno? Me lo sono chiesto spesso, in questi giorni. I sorrisi che ho sentito mi hanno risposto che è l’unico modo per concentrarsi sulla bellezza che ogni dramma contiene, per educarsi continuamente alla bellezza, per continuare ad andare avanti, continuare a sperare.
L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.