Erik Boni
18 min readApr 18, 2024

LA CANCEL CULTURE NON ESISTE MA QUEL CHE ESISTE È PEGGIO

Su Le Goff, Montanari, e le statue giuste

Nel 1978 Jacques Le Goff, in un fortunato articolo pubblicato come voce della Enciclopedia Einaudi, tracciava una disamina critica riguardo alla distinzione “Documento/Monumento”. “Monumento”, ci ricorda lo storico francese, è qualcosa che lasciamo volontariamente ai posteri perché abbiano memoria di noi, o qualcosa che i nostri antenati hanno lasciato perché noi ci ricordassimo di loro. “Documento” è qualcosa che lo storico seleziona, fra le tracce rimasteci del passato, come prova di un avvenimento trascorso, o più in generale come elemento a supporto di una teoria riguardante un’epoca passata (non solo fatti e avvenimenti, quindi, ma anche teorie sul modo di vivere, sulla mentalità, eccetera).

Il senso comune ci dice che i due insiemi sono solo parzialmente sovrapposti: appare ovvio infatti che, se tutti i monumenti sono (possono essere utilizzati come) documenti, non tutti i documenti sono monumenti. Seguendo Marc Bloch possiamo in effetti tracciare un’altra distinzione fondamentale per lo storico, ovvero quella tra testimonianze volontarie e involontarie. Le prime sono prodotte allo scopo esplicito di narrare un avvenimento secondo la versione di chi scrive (per esempio La Seconda Guerra Mondiale scritta da Winston Churchill o il De Bello Gallico di Giulio Cesare). Le seconde, create almeno principalmente per altri scopi, comprendono un insieme molto più vasto di enti: la dichiarazione dei redditi, la lista della spesa, un progetto edilizio, la scritta “ti amo” disegnata con lo spray su un marciapiede, una traccia di rossetto su un mozzicone di sigaretta lasciata accesa sul posacenere (le due contrapposizioni, quella di Bloch e quella di Le Goff, non vanno tuttavia confuse: se il monumento è prodotto allo scopo di lasciare memoria di sé, infatti, non per questo nasce sempre come fonte storica, ovvero un conto è scrivere il De Bello Gallico, un altro è farsi rappresentare in una statua di marmo con gli attributi della divinità).

La testimonianza del secondo tipo, cioè quella involontaria, sarà privilegiata da un tipo di storico che Le Goff etichetta in quanto “positivista”, e che vi vede gli attributi della oggettività e della neutralità. Il compito di questo storico sarà la fredda accumulazione di questo tipo di fonti, normalmente da trovare negli archivi, e farle “parlare” oltre e nonostante l’intenzione di chi le ha lasciate, attraverso gli strumenti forniti dalle scienze sociali. I registri delle parrocchie, per esempio, possono fornirci dati demografici sulle nascite ed essere analizzati con criteri quantitativi e statistici dei quali chi li redigeva non sospettava nemmeno l’esistenza.

Le Goff non ha molta difficoltà a mostrarci come, tuttavia, la distinzione fra documento e monumento sia più sfumata di quanto appare a prima vista. Le stesse raccolte di testimonianze sedimentate negli archivi e che lo storico “positivista” oggi considera come “documenti” erano in realtà prodotte anche in quanto “monumenti” ed è la stessa terminologia usata in passato a confondere le due categorie. Parliamo ad esempio delle raccolte di diplomi imperiali e papali, o delle raccolte di leggi. Un diploma imperiale serviva a concedere un privilegio a chi ne faceva richiesta, ma allo stesso tempo con la sua solennità era diretta espressione del potere dell’imperatore e serviva a confermarne l’autorità. Gli studiosi germanici che all’inizio del XIX secolo iniziarono a pubblicare sistematicamente tale tipo di fonti, che oggi denomineremmo, appunto, “documenti”, chiamarono la raccolta Monumenta Germaniae Historica (e d’altronde la raccolta stessa si presentava come un monumento all’amor patrio da parte degli studiosi tedeschi).

Occorre inoltre avvertire che non solo la produzione del documento non può mai essere considerata del tutto scevra di intenti monumentali, ma che anche la sua trasmissione, la sua conservazione fino ai giorni nostri, è tutt’altro che innocua e scontata. I documenti arrivano fino a noi attraverso un processo di selezione nel quale alcuni di essi vengono irrimediabilmente perduti e altri vengono conservati, e le modalità di queste distruzioni e conservazioni devono essere indagate anche quando appaiono dovute alle cause più “naturali”. Certo, tale archivio è stato incendiato, o alluvionato, o magari distrutto dalle bombe, ma persino questo può raccontarci qualcosa sull’incuria in cui l’archivio era tenuto e sulla mancanza di protezione.

Se queste considerazioni possono apparire semplici inviti alla prudenza, a non accostarsi alle fonti con ingenuità da storico nutrito di fiducia positivista nel “documento”, possiamo però anche dire che Jacques Le Goff, facendosi prendere un po’ la mano, andava ben oltre e non solo arrivava a formulare con perentorietà il dogma “ogni documento è un monumento”, ma aggiungeva che in quanto tale ogni documento è sempre “falso” e ovviamente (è sottinteso malvagia) espressione del potere.

Si tratta di formulazioni accattivanti, che possono fare una certa presa su studenti in vena di ribellione che hanno appena letto Foucault, ma dalle quali è anche doveroso, credo, prendere le distanze, come altri hanno fatto (per esempio la diplomatista Giovanna Nicolaj). Prima di tutto si può osservare come la posizione stessa di Le Goff ne esca come altamente problematica, non tanto perché egli si metta in discussione, ma perché appare addirittura come il proverbiale cretese per il quale tutti i cretesi sono bugiardi. E questa posizione, difatti, non può essere considerata l’espressione di una certa classe intellettuale di sinistra, che trovatasi incapace di incidere sul terreno delle riforme sociali o semplicemente educative, si radicalizzava sul terreno della più astratta teoria, e che proprio nella Enciclopedia Einaudi si specchiava e cercava il suo monumento? (tentativo che peraltro portò la casa editrice sull’orlo del fallimento finanziario, sempre che non si considerino falsi i documenti che lo attestano).

Mettendo da parte questa digressione, quando Jacques Le Goff afferma che tutti i documenti sono monumenti e in quanto tali sono falsi dice, semplicemente, una falsità (almeno nel modo in cui lo dice), e rovescia completamente i termini della questione sul modo corretto di approcciarsi a un documento storico. Prendiamo la mia dichiarazione dei redditi: essa è in primo luogo quel che dice di essere, ovvero il modo in cui nel contesto in cui vivo faccio valere i miei diritti patrimoniali e vengono regolati i miei doveri verso la società. A partire da qui si può certamente allargare il discorso fino a comprendervi i più reconditi e impliciti messaggi che il potere costituito (nei suoi fini diabolici) nasconde nel formulario della dichiarazione, ma non certo fino a rendere residuale la banale questione della natura giuridica e dell’autenticità del documento: lo storico che vorrà occuparsene dovrà quindi soprattutto comprenderne la funzione documentale (prima che monumentale). Parlando di “falso” nel modo in cui ne parla Le Goff si rischia inoltre di confondere le questioni dell’autenticità e della sincerità del documento: io posso mentire nella dichiarazione dei redditi, cosa che potrà anche interessare i futuri storici, ma se essi vorranno trarne delle conclusioni dovranno in primo luogo accertarsi che quella sia davvero la mia dichiarazione dei redditi (che il documento sia autentico, sebbene contenga false dichiarazioni). En passant, ammesso che io menta, non lo faccio certo per erigermi un monumento e trasmettere ai posteri una bella immagine di me, ma semplicemente per cercare di risparmiare, e la mia è semmai una menzogna contro il potere, per difendermi da esso.

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È un’epoca, quella in cui viviamo, che non ha molta simpatia per i monumenti, come del resto si evince anche dalle dichiarazioni di Le Goff, dove il termine “monumento” è connotato da un’aura negativa di sospetto che diventa addirittura paranoia nell’estenderne il significato. Provenendo forse da una fase storica in cui vi è stata, piuttosto, una certa bulimia monumentale, a partire dalla seconda metà del Novecento si può constatare una qualche timidezza da parte delle istituzioni nell’esporre sulle piazze pubbliche i propri idoli. Quando presenti, i monumenti dedicati agli eroi della Resistenza, oppure ai martiri della lotta contro la mafia o al terrorismo, tendono a essere “discreti”, spesso non figurativi e certo poco monumentali, quasi chiedessero scusa della loro esistenza. Si può prendere a esempio l’albero di Giovanni Falcone, che è semplicemente l’albero che si trovava di fronte all’abitazione del giudice, ma che è stato scelto come simbolo della lotta contro la criminalità organizzata, molto più felicemente che una statua di bronzo o di marmo con le fattezze di Falcone.

Questo ci ha evitato di sicuro molte bruttezze e dell’imbarazzante kitsch, ma c’è un effetto collaterale indesiderato. Le nostre piazze sono diventate anacronistiche: sono vuote di monumenti che esprimano i nostri valori, nel mentre sono rimasti molti dei monumenti di prima. Eretti dai nostri antenati, essi affermano principi nei quali le nostre generazioni non riescono a immedesimarsi, quali il sacrificio estremo per la bandiera e i confini della patria, quando non va peggio ancora e celebrano magari il colonialismo italiano, come nel caso dell’obelisco a Roma dedicato ai caduti di Dogali (va meglio col fascismo, del quale sono state rimosse almeno le tracce più vistose se si escludono i monumenti architettonici).

Già poco rispettati, spesso oggetto di vandalismo e incuria, i monumenti da qualche tempo devono affrontare una nuova minaccia: quella della rimozione a furor di popolo in nome dei nuovi valori progressisti, inclusivi o politicamente corretti che dir si voglia. Non che ci sia nulla di veramente inedito: vi sono sempre stati movimenti iconoclasti mirati a “correggere” la memoria tramandataci dal passato. Basti pensare alle devastazioni sui simboli dell’Antico Regime (e sui simboli religiosi) operata dai rivoluzionari francesi, o ai tradizionali abbattimenti di statue che avvengono in occasione di qualsiasi rivoluzione: i bolscevici abbattono la statua dello zar e vi sostituiscono Lenin, che a sua volta sarà abbattuto qualche decennio dopo. Un elemento inedito potrebbe semmai essere rappresentato dal fatto che questo nuovo movimento sorge all’interno delle società più opulente e democratiche, non esattamente all’indomani di una transizione rivoluzionaria.

Il caso recente più noto e paradigmatico è probabilmente quello dell’abbattimento della statua di Edward Colston a Bristol, nel 2020. La statua era dedicata a un filantropo vissuto a cavallo fra Sette e Ottocento e che contribuì generosamente al benessere della città elargendo donazioni per ospedali e ricoveri per la popolazione più povera. Piccolo problema: gran parte delle fortune di Colston derivavano dal commercio di schiavi. Questo portò nel corso degli ultimi anni a varie contestazioni e richieste di rimozione o perlomeno di contestualizzazione (mettendo una targa che descrivesse il personaggio anche nei suoi aspetti più controversi). Richieste sempre respinte dalle autorità, fino a quando una folla di manifestanti non prese l’iniziativa dal basso e non rovesciò la statua poi gettandola in mare.

Questo precedente ha sollevato l’attenzione su molti altri monumenti, alcuni anche in Italia. È il caso, per esempio, della (brutta) statua dedicata al giornalista Indro Montanelli, che a dire il vero era già stata vandalizzata dalle femministe nel 2019, un anno prima dell’episodio di Colston. Era proprio il caso di dedicare un monumento a un nostalgico protagonista delle imprese coloniali in Etiopia, che ne aveva sempre negato il carattere di oppressione cruenta, e che aveva descritto con un certo compiacimento l’acquisto di una sposa etiope appena dodicenne? (Proprio nel giorno in cui scrivo queste righe, per coincidenza, la statua di Montanelli è stata imbrattata dagli attivisti per l’ennesima volta, oggi di vernice viola).

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Le statue giuste è un piccolo volume che lo storico dell’arte Tomaso Montanari ha dedicato alla questione. Qui di seguito elenco alcuni degli esempi discussi da Montanari oltre a quelli appena visti, premettendo subito a scanso di equivoci grossolani che non di tutte queste opere si propone la rimozione/distruzione: si parla delle molte statue dedicate al re Umberto I, fra le cui colpe vi è l’appoggio alla feroce repressione dei moti popolari del 1898 da parte di Bava Beccaris; della pittura murale di Mario Sironi nell’Aula Magna del Rettorato della Sapienza, recentemente restaurata riportando in auge i simboli del fascismo che erano stati cancellati dopo la guerra; il monumento a Ferdinando I a Livorno, detto “dei quattro mori” perché il candido granduca vi è rappresentato mentre domina quattro schiavi neri; la cappella funebre di Francesco Feroni in Santissima Annunziata a Firenze, capolavoro barocco di Giovan Battista Foggini (anche Feroni fu un mercante di schiavi); il monumento di Giambologna a Cosimo I che si trova in Piazza della Signoria a Firenze, dopotutto dedicato a un tiranno che stroncò definitivamente le istituzioni repubblicane fiorentine; e si parla persino della statua di Apollo e Dafne di Gian Lorenzo Bernini, che in fondo rappresenta un tentativo di stupro. Ma allargando un po’ il senso del termine “monumento”, o meglio attenendosi alla definizione di Le Goff, si parla anche e soprattutto di odonomastica (i nomi delle strade) e delle varie intitolazioni a scuole ed edifici pubblici: via Reginaldo Giuliani (un militare fascista), la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III (un re indegno che ha reso possibile la dittatura fascista e firmato le leggi razziali), le molte scuole intitolate al duca Amedeo d’Aosta (un altro personaggio compromesso col fascismo). Curiosamente ma non troppo non vi è alcuna menzione delle varie vie Stalin, Lenin, Mao, eccetera, come se questi personaggi fossero considerati compatibili con la Repubblica italiana.

Come già anticipato non è che Montanari si proponga la distruzione fisica di ognuno di questi manufatti (ci mancherebbe), ma egli intende anche rassicurarci sul fatto che nessuno vuole, davvero, “cancellare” la storia, essendo la famigerata cancel culture nient’altro che un’invenzione della destra conservatrice. Solo che un conto è ricordare, un conto è celebrare. Un conto, si potrebbe dire, è conservare i documenti che ricordano il nostro passato, eventualmente neutralizzandoli dando loro una cornice museale adeguata, mentre tutt’altra faccenda è continuare a proporre un certo personaggio o un certo evento del passato come qualcosa di cui andare orgogliosi e un esempio da seguire. Già, ma cosa succede se tutti i documenti sono monumenti, in quanto tali mai neutrali ma sempre falsi ed espressione del potere che opprime?

Non che i moderni distruttori debbano per forza sottoscrivere questa visione della storia, quella secondo la quale tutte le tracce del passato non sono altro che i monumenti delle potenze vincitrici, da sostituire con altri monumenti più “giusti”. Ma è anche legittimo pensare che una certa furia iconoclasta derivi proprio da un atteggiamento simile, per il quale di fronte a una testimonianza non ci chiediamo più se sia vera o autentica, e cosa ci può rivelare del passato, ma quanto essa sia, appunto, “giusta”, buona, corretta.

Potrebbe essere rivelatrice, a questo riguardo, una polemica di pochi anni fa che riguardava non una statua, o un quadro, ma proprio dei documenti in senso stretto, delle carte d’archivio. Nel 2018 l’archivio di Pino Rauti, già dichiarato l’anno prima di interesse storico dalla Soprintendenza Archivistica del Lazio, venne donato dalle figlie alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Il comunicato stampa col quale l’istituto comunicava gioiosamente l’acquisizione dell’archivio riprendeva, in maniera un po’ imprudente, lo stesso comunicato fatto uscire dalla famiglia Rauti, nel quale l’uomo politico di estrema destra era presentato come “uno dei personaggi chiave della storia della destra in Italia: organizzatore, pensatore, studioso, giornalista, deputato dal 1972 al 1992. Tanto attivo e creativo, quanto riflessivo e critico”. Parole che furono considerate apologetiche e che vennero presto cancellate per diretto intervento del ministro Franceschini, per quanto a considerarle da una certa distanza sia difficile vedervi degli elogi sperticati che rimuovono gli aspetti più controversi della persona (non c’è nulla che impedisca a un fascista, o se per questo a un criminale della peggior specie, di essere “creativo”, “critico”, “riflessivo”).

Qualche mese più tardi Andrea De Pasquale, l’allora direttore della BNCR, venne nominato direttore dell’Archivio Centrale dello Stato, e in tale occasione ci si ricordò della vicenda dell’archivio di Pino Rauti per avviare una campagna di opinione (raccolte di firme, dimissioni di protesta) contro la nomina: De Pasquale, dimostratosi un simpatizzante dei fascisti, era indegno di tale ruolo. È difficile pensare che reazioni tanto forti fossero motivate solo da una scelta di parole infelice su un comunicato stampa: in realtà sembra plausibile che a dare molto fastidio sia la stessa esistenza di un archivio Rauti, che esso sia considerato di interesse culturale rilevante, che sia conservato e protetto da un’istituzione statale (e duole rilevare, per inciso, come al linciaggio mediatico contro De Pasquale partecipò anche una prestigiosa archivista come Diana Toccafondi). E infatti un articolo di Montanari lamentava che il fondo era “confezionato dalla famiglia […] e dunque un’avvelenata polpetta autoapologetica: forse da vagliare comunque, per sottoporlo alla più affilata critica storica, ma certo non da legittimare come una conquista culturale”. E poi: “l’osceno comunicato è stato rimosso [ma] l’acquisizione acritica del fondo resta, [e] resta anche un direttore che invece dovrebbe essere rimosso all’istante”. Acquisizione acritica? In cosa consiste un’acquisizione critica di un fondo archivistico? Si direbbe che Tomaso Montanari non abbia la minima idea di che cosa sia un archivio di persona (o anzi un archivio tout court), che per definizione è il prodotto dell’attività di quella persona, e quando è possibile deve essere conservato nelle stesse condizioni che le sono state date dal produttore dell’archivio. Compito dello storico è appunto studiare le carte, non certo “vagliarle” – ovvero separare la parte utile dalle scorie, secondo la prima definizione del dizionario Treccani – e ordinarle in modo da indirizzare la ricerca (in questo caso per mettere in luce qualcosa che però sembra già noto a priori agli storici giusti, e cioè che Pino Rauti era brutto e cattivo), e quindi produrre, stavolta letteralmente, un falso. È ovvio che l’archivio di Pino Rauti abbia un interesse culturale, per chi voglia studiare la storia dei partiti e movimenti di destra in Italia, ma è altrettanto chiaro che per qualcuno studiare e comprendere un fenomeno storico in maniera per quanto possibile obiettiva si avvicina troppo pericolosamente al giustificarlo.

Ma se non è la cancellazione lo scopo ultimo dei progressisti più woke, allora qual è? La parola chiave, spesso ripetuta nel libretto di Montanari, è “risemantizzazione”. I monumenti “cattivi” non devono essere distrutti o rimossi, ma devono essere risemantizzati, e cioè resi giusti. A leggere il libro, ci si accorge che la risemantizzazione è qualcosa di più della semplice “ricontestualizzazione”, ovvero dare al manufatto un nuovo contesto che ne elimini la componente celebrativa, o “musealizzazione” (inserirlo nella cornice di un museo quale oggetto di studio). Come la parola stessa dice, risemantizzare è attribuire un nuovo significato, ma un significato che non è frutto della libera interpretazione di chi studia il manufatto, bensì un significato imposto dall’autorità. Anche al visitatore di un museo deve essere spiegato, in ogni istante, qual è il modo in cui l’opera (che potrebbe avere un significato ambiguo e quindi pericoloso) deve essere letta, quale sia l’interpretazione giusta, e soprattutto dove stanno il bene e il male e da che parte bisogna stare.

Per esempio, “si sarebbe potuto accogliere il ritorno di Cosimo [il Granduca] in piazza con un palco da cui narrare […] tutta questa altra parte della storia” – e cioè che i Medici erano cattivi – con il Bruto di Michelangelo (statua che celebra un tirannicida da sempre interpretata in chiave antimedicea) proiettato a contraltare sulla facciata di Palazzo Vecchio. A proposito della cappella Feroni “sarebbe impensabile mutilare il monumento” ma “ci vuole una potente narrazione di riparazione e di educazione, che preveda pannelli, visite guidate, eventi teatrali e didattici nella piazza antistante, e persino liturgie di penitenza (visto che siamo in chiesa)”. Ugualmente, sul monumento a Ferdinando I a Livorno “si potrebbe costruire una narrazione spettacolare, che faccia di quel monumento, nei mesi estivi, l’epicentro di una grande educazione collettiva alla conoscenza della nostra storia”. Quanto all’Apollo e Dafne di Bernini ci vuole un apparato didattico, “ma anche l’intervento di installazioni di artiste donne di oggi” che facciano tornare visibile l’enorme rimosso del dominio secolare dei maschi, un rimosso “che rischia, fra l’altro, restando non esplicitato, di farci, più o meno consciamente, odiare quell’opera meravigliosa”. Infine, su Youtube è ancora possibile trovare uno spot elettorale in cui Montanari parla del quadro La cacciata dei mercanti dal tempio, di Cecco del Caravaggio, descritto come una “profezia” in cui la vittoria del “no” al referendum costituzionale (Gesù Cristo) scaccia dal tempio della democrazia italiana la finanza internazionale, le grandi banche, e i palazzinari. Non è un caso unico e ironicamente adoperato solo per fare campagna elettorale, poiché simili interpretazioni attualizzanti venivano fornite anche nei programmi divulgativi di storia dell’arte che Montanari conduceva in Rai. Viene solo da chiedersi se la distruzione fisica non sia un destino tutto sommato più pietoso, rispetto a certi ridicoli travestimenti.

Insomma, la cultura della risemantizzazione non vuole semplicemente restituire i vecchi monumenti alla loro dimensione storica e documentale, magari musealizzandoli, ma vuole coprire i monumenti con altri monumenti, rendendoli così adatti alla nostra sensibilità, un po’ come Daniele da Volterra detto il Braghettone rese “decenti” gli affreschi di Michelangelo. L’universo documentale deve diventare un unico grande monumento, ma un monumento ai “nostri” valori, che sono gli unici giusti, mentre tutti gli altri monumenti del passato o del presente non possono fare altro, a meno che non vogliano essere brutalmente cancellati, che essere incorporati e risemantizzati nella nostra visione corretta del mondo, e le statue della famiglia Medici sono tollerabili solo a patto di spiegare che quella dinastia non incarna esattamente i valori democratici che sono alla base della nostra Costituzione. Per indicare come il fenomeno sia internazionale, del resto, posso testimoniare che le didascalie di una mostra su Klimt che visitai a Vienna qualche anno fa chiedevano quasi scusa perché i disegni erotici dell’artista, pur rappresentando in modo nuovo una sessualità femminile libera e disinibita, erano comunque il prodotto evidente di uno sguardo maschile sul corpo delle donne (chi l’avrebbe mai detto).

La cultura della risemantizzazione, infine, è un’ideologia profondamente ipocrita, perché si presenta come strumento di rivalsa delle minoranze oppresse ma al tempo stesso non può che essere l’espressione della classe egemone, dominante, e che non può imporsi in altro modo che con l’esercizio del potere. È ben vero che alcuni degli episodi che hanno fatto più scalpore, come quello della statua di Colston, sono stati movimenti di protesta popolare, in quel caso conseguenza del clamore suscitato dall’uccisione di un cittadino nero – George Floyd – da parte di un poliziotto negli Stati Uniti, e anche che si tratta di proteste da parte di minoranze che si sentono minacciate nei loro diritti, e giustamente mal sopportano la celebrazione di uno schiavista in una piazza pubblica (e però, cosa dovrebbero fare gli statunitensi con la statua di Jefferson a Washington? è colui la cui dichiarazione sull’eguaglianza di tutti gli uomini è alla base della democrazia americana, eppure possedeva gli schiavi). È anche vero e persino banale, però, che la scelta della narrazione giusta da imporre pubblicamente può essere fatta solo da chi ha vinto e può dettare le condizioni.

È significativa, in effetti, la continua invocazione o meglio il continuo sventolare a mo’ di arma della carta costituzionale da parte dei progressisti. Ci viene ricordato, giustamente, che la Costituzione è antifascista e che i simboli del passato regime sono incompatibili con essa (a voler mettere i puntini sulle i la Costituzione vieta solo la riorganizzazione del disciolto partito fascista, ed è semmai la legge Scelba a vietare l’apologia di fascismo, laddove vi sono però varie sentenze che ridimensionano tale disposizione a tutela dell’altro sacrosanto principio costituzionale della libertà di espressione). Ma se per gli integralisti di sinistra la Costituzione è – anche legittimamente – un testo sacro e indiscutibile, è anche giusto sottolineare come esso – come tutti i documenti ma soprattutto esso – non sia che un monumento, il monumento che la parte vincitrice nell’ultima guerra civile in Italia ha voluto imporre alla parte perdente. Quando ci appelliamo alla Costituzione contro i neofascisti reali o immaginari non facciamo altro che dire “80 anni fa avete perso la guerra, e guai ai vinti”.

È normale, per un integralista, appellarsi alla lettera del testo sacro in realtà per forzare quella che è una sua interpretazione, interpretazione che vorrebbe imporre a tutti in sostituzione del libro stesso (fra l’altro sovrapponendosi alle istituzioni a ciò destinate dalla stessa carta, e cioè gli organi giudiziari). Quindi non si tratta semplicemente di punire e cancellare i fascisti dichiarati, ma anche tutti coloro che potrebbero essere in sospetto di collusione con i valori del testo sacro come il povero De Pasquale, in pura logica da santa inquisizione. E allora fra gli scandali recenti oltre alla statua di Montanelli – personaggio di sicuro discutibile ma non esattamente fascista – rientrano anche la strada dedicata a Oriana Fallaci, inopportuna per via delle sue posizioni anti-islamiche, le onoranze civili per il funerale di Franco Zeffirelli (accusato di razzismo e omofobia, a dire il vero in modo curioso per uno che non ha mai nascosto di essere omosessuale), e i funerali di Stato per Silvio Berlusconi (avrebbe avuto rapporti con la mafia). Più esattamente, per essere “chiamati fuori” è sufficiente essere di destra (sufficiente ma non necessario perché la condanna colpisce anche le persone di sinistra troppo moderate).

Il problema è che questa è un’arma che rischia di rimanere alquanto spuntata, perché se è vero che gli antifascisti hanno vinto la guerra 80 anni fa, come ci viene continuamente ricordato, è anche vero che il partito che forse in parte si richiama ai valori che furono anche del fascismo è quello che ha vinto le ultime elezioni, e quindi ecco, “guai ai vinti, stavolta tocca a noi”. È verissimo che c’è un certo revival nostalgico dei simboli della destra, uno “sdoganamento” per usare il gergo giornalistico, e così – giusto per fare un paio di esempi – in un piccolo comune in provincia di Roma, Affile, è stato costruito nel 2012 un mausoleo dedicato a Rodolfo Graziani, criminale di guerra in Etiopia e repubblichino, e nel 2021 un sottosegretario leghista propose di cambiare il nome del parco Falcone-Borsellino a Latina per tornare al nome che aveva durante il regime: Arnaldo Mussolini. Quello che non si capisce, almeno sposando il punto di vista dei risemantizzatori sistematici, è dove stia lo scandalo, e per quale motivo la destra di governo non dovrebbe tentare di condividere la memoria dei “suoi” eroi, imponendoli ai vinti: in fondo è sempre chi vince che detta le regole (mi vengono in mente le ciniche parole di non ricordo bene quale ex brigatista: “noi abbiamo perso, ma se invece avessimo vinto adesso saremmo celebrati come eroi”).

Ma la Costituzione, troppo spesso menzionata a sproposito (in genere in maniera direttamente proporzionale all’insipienza degli argomenti) è in realtà qualcosa di più di un monumento, e anche qualcosa di più di un “comando sui vinti” (espressione di Gustavo Zagrebelsky). È un documento che dev’essere compreso nel suo valore giuridico – che non è solo storico ma in questo caso ancora vivo e attuale – e che in primo luogo serve a fondare un patto di convivenza fra il numero più ampio possibile di cittadini. E se è vero che da questo patto sono espressamente esclusi i fascisti, occorre pure rammentare i limiti di questa esclusione, che non ha mai inteso essere una pregiudiziale a favore della sinistra e contro la destra, o contro qualsiasi idea che ai super progressisti ricordi anche da lontano il fascismo. Usare la carta in questa maniera significa, purtroppo, inflazionarla e svuotarla di valore, privarla del riconoscimento della sua importanza in quanto base per la civile convivenza, proprio come, guarda un po’, sta accadendo.

Cosa fare, dunque, coi nostri monumenti, almeno con quelli più brutti e discutibili? Se cancellare la storia non è possibile, ma neanche la risemantizzazione – ovvero il rivestire il vecchio monumento di un nuovo senso monumentale – sembra la soluzione più adeguata, cosa resta? Un’alternativa potrebbe essere quella del ritorno al vecchio e ingenuo metodo storico positivista criticato da Le Goff (e che in realtà non ha nulla di positivista). I monumenti buoni restino al loro posto, quelli più cattivi e insostenibili (che ci sono) vengano pure neutralizzati tramite la musealizzazione o la ricontestualizzazione, ma soprattutto essi – tutti – vanno considerati e studiati come documenti, come tracce del nostro passato. Il che significa da una parte il non oblio della loro vecchia funzione monumentale, ma significa anche lo sforzarsi di far parlare il documento oltre le intenzioni di chi lo ha prodotto, e soprattutto e in omaggio al principio costituzionale della libertà di ricerca, oltre le intenzioni delle istituzioni che oggi lo conservano e vorrebbero spiegarcene il nuovo significato.