Due o tre cose, sulla scuola.

Kairos
6 min readNov 6, 2023

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Da tempo mi sembra che nella scuola si sia delineata una dinamica chiara: è diventato evidente che un modello di istruzione ‘libero’, ‘gratuito’, con il solo scopo di far crescere tutte le donne e tutti gli uomini in consapevolezza culturale ed emotiva non è compatibile con la conservazione dell’attuale sistema economico. I motivi sono almeno due. 1) Per ragioni strutturali, il sistema è soggetto a crisi cicliche, quasi sempre risolte con corposi interventi statali a sostegno dei settori privati con l’acqua alla gola, con il conseguente taglio di spesa nei servizi pubblici, istruzione compresa (a volte i tagli sono praticati per scelta, altre per insipienza, altre ancora perché avvertiti come ‘inevitabili’). 2) L’unico modo per far galleggiare sopra la linea di sostenibilità economica un modello di sviluppo già affondato socialmente è istradare precocemente quanti più possibile allo sfruttamento lavorativo. Ciò può avvenire, in primo luogo, anticipando sempre di più l’ingresso ‘al lavoro’, a basso o nullo costo per il datore di lavoro. Questa dovrebbe essere, in sintesi, la funzione degli istituti tecnico-professionali, con i loro stage sotto o nulla pagati, le massicce alternanze scuola/lavoro, e — peggio ancora — la considerazione dei suoi allieve e allievi come carne da fatica cui non vale la pena di insegnare scienza, filosofia, storia, italiano se non nei rudimenti utili per l’alfabetizzazione. (E bisognerebbe forse riflettere sul perché non si sia mai voluto, nemmeno a sinistra, contestare una idea di scuola che preveda studenti di serie A e studenti di serie B). Altra possibilità è che si faccia della scuola la palestra in cui allenare alla mentalità-da-lavoro. Tutto, o quasi, deve insegnare: ‘lavorare è la cosa più importante, chi dà lavoro è un eroe, la realizzazione dell’individuo passa attraverso la sua affermazione nel sistema economico’. E il rovescio della medaglia suona: ‘la mera possibilità di lavorare va considerata una fortuna, poco importa se non scarsi diritti e tutele, santificate il datore di lavoro perché c’è sempre chi sta peggio; indecisione, fallimento non sono ammessi, chi resta indietro nella corsa è un inadatto e la colpa è solo sua’. Per risultato di queste due motivazioni, la didattica scolastica è stata, ed è sempre più, colonizzata da una serie di attività job-oriented che erodono lo spazio per l’insegnamento, la discussione, la rielaborazione critica. Tutte attività lente evidentemente non funzionali allo scopo della ‘nuova’ scuola. Ed è bene precisarlo, non si tratta qui di quella legittima discussione sui metodi di insegnamento, sull’azione didattica più utile a seconda dei contesti. Questa riflessione fa parte, infatti, da sempre del percorso professionale di qualsiasi buon insegnante. Il guaio, semmai, è che oggi si spacciano per didattiche innovative pratiche di insegnamento che, nella migliore delle ipotesi, sono state sempre adottate, o più spesso, sono usate come slogan dietro quali si nasconde una chiara insofferenza per qualsiasi attività complessa, che non sia immediatamente misurabile. Si dice peste e corna della lezione frontale, per esempio, ma nessun/a insegnante sano/a di mente ha mai fatto solo ricorso alla lezione frontale, tutti quanti abbiano un minimo di esperienza didattica sanno che un momento di frontalità è indispensabile per introdurre gli studenti ad argomenti complessi, a partire dai quali si possono stimolare pensieri e dibattiti. Pretendere che l’insegnante stia lì a ‘facilitare’ l’apprendimento, vuol dire appunto insistere perché egli rinunci al proprio ruolo di professionista che ha studiato un certo argomento, ne conosce il fascino, ma anche le asperità, per diluirlo in pillole di didattica che tutto banalizzano. (Faccio notare inoltre come gli innumerevoli corsi di formazione cui i docenti sono istradati siano tutti organizzati come pure lezioni frontali. Chissà perché). Ma non si tratta solo di questo. Il punto è che il tempo destinato all’insegnamento/apprendimento è sensibilmente diminuito, al di là del monte orario stabilito dagli ordinamenti. Chiunque insegni sa che, per cercare di far decentemente il proprio lavoro, dovrà farsi campione di slalom tra ore dedicate ad improbabili incontri e iniziative. Oggi incontriamo tal de tali, prestigiosa personalità che ci parla di x — fa niente se di x non capiremo niente perché non abbiamo avuto il tempo di studiarlo, contestualizzarlo a scuola; domani non dimentichiamoci delle celebrazioni estemporanee della giornata del bullismo, della terra, della gentilezza, dell’educazione digitale, della legalità, dell’ambiente; certo, avremmo potuto sviluppare una vera sensibilità su questi attraverso la lettura di una pagina di letteratura, scienze, storia dell’arte, ma non c’è tempo, accontentavi dello spot, alla prossima. Che non sarà a breve, perché dietro l’angolo c’è pure lo spettro dell’orientamento universitario: giornate trascorse a veder sfilare nelle aule, in presenza o virtualmente, docenti universitari prestati alla televendita, con l’unico slogan: ‘iscrivetevi qui, perché grazie a noi potrete trovare lavoro’. Sottotesto: ‘l’università italiana è messa male, lo Stato ha rinunciato a finanziarla seriamente, e l’unica maniera per raggranellare spiccioli sono le vostre tasse universitarie; perciò, da docenti che dovrebbero dedicare il loro tempo alla didattica e alla ricerca, ci siamo ridotti a una umiliante televendita di noi stessi e dei nostri dipartimenti”. Stando così le cose, giungono poi, periodicamente, i dossier sullo stato della scuola italiana. A volte male interpretati, contestabili nelle modalità di rilevazione, sembrerebbero comunque certificare un calo delle abilità di articolazione logico-critica del pensiero di studentesse e studenti. Il paradosso è che questi dati, piuttosto che condurre a una revisione critica delle strategie finora adottate, sono presi a motivo per ancora più robuste iniezioni delle stesse strategie. Insomma, non sia mai che possa venire il dubbio che sia stata proprio la sistematica sottrazione di tempo alla didattica complessa a produrre questi effetti, semplicemente il problema deriva dal fatto che questa sottrazione non è stata pratica in maniera abbastanza massiccia. Così per esempio, se il problema è la sempre più scarsa capacità di concentrazione per tempi medio-lunghi di studentesse e studenti la soluzione proposta non prevederà l’invito a riallenare gli alunni alla fatica dell’ascolto e dello studio, ma inviterà invece a virare verso modalità gamificate di lezione, verso le pillole di didattica, verso spiegazioni che non durino più di 10 minuti (perché si sa dopo di 10 minuti gli studenti non sono più attenti e non si può che prenderne atto). Si tratta, in tutta evidenza, di logiche blindate ad ogni possibilità di falsificazione, come accade in tutte le posizioni ideologiche, prive di scientificità. [Per inciso accadeva in maniera analoga nel Cinquecento con la caccia alle streghe: se, nonostante la tortura, la presunta strega comunque non confessava di aver stretto un patto col diavolo ciò doveva dipendere — argomentavano gli inquisitori — non dal fatto che non l’avesse mai stipulato, ma dalla ragione che il diavolo le era così amico da consentirle una straordinaria resistenza fisica alla tortura stessa]. E quindi cosa c’è da fare? Certamente non rimpiangere la scuola del passato e la sua presunta severità educativa (quella era una scuola — e chiunque ne sia sopravvissuto non lo può negare — per la maggior parte classista, autoritaria fino alla violenza verbale e psicologica), ma ripensare la scuola oggi, sempre partendo da un’analisi delle condizioni materiali in cui docenti e studenti si trovano in classe. Questo mi pare il grande rimosso di tutte le discussioni su come cambiare la scuola, anche quelle mosse da buone intenzioni. Se si vuole dare senso al tempo passato in classe bisogna poter strutturare attività complesse, che prevedono momenti di confronto, ricerca, spiegazione, e devono quindi essere programmate con anticipo; ma quale programmazione è possibile in condizioni in cui, nei mesi di più intensa colonizzazione scolastica, si deve mettere in conto di veder ridotte, se non proprio dimezzate, le lezioni a disposizione in settimana? Se si vuole dare senso al tempo passato in classe bisogna poter lavorare in ambienti che non siano serre da maggio a settembre, o ghiacciaie in inverno; se si vuol dare senso al tempo passato in classe bisogna fare in modo di non avere studenti che già a 17 anni sono risucchiati dalla preparazione ai Tolc universitari, e sempre più costretti a pensare alla scuola come a un ingombro tra una simulazione di test e l’altra. Se si vuole dare senso al tempo passato in classe, bisogna cominciare a chiedersi perché molti docenti manifestino sempre più stanchezza e insofferenza, se non, peggio, arrendevolezza alla deriva tecnicista. Sono tutti impiegati pubblici scansafatiche o non vivono piuttosto in molti il disagio di una professione in cui il momento magnifico dell’insegnare è residuale rispetto a quello della rendicontazione quantativa dell’insegnare stesso? E allora alla pedagogia che vuole risolvere i problemi della scuola innestandovi nuovi metodi — quasi si fosse in un contesto asettico — bisogna dire come alla dialettica di Hegel che deve smettere di camminare sulla testa, e rimettersi in piedi, partire dalla critica del modo in cui oggi vive chi la scuola la fa. Il problema della scuola, oggi, è politico e chi la scuola la studia o la vive dovrebbe capire la prima battaglia da combattere è quella per cambiarne le condizioni materiali di sussistenza (tempi e luoghi, innanzittuto). Finché non si comincerà da qui, si sarà, malgrado le buone intenzioni, complici di chi la scuola pubblica ce l’ha ideologicamente per nemica e non vede l’ora di affossarla.

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