Storia bisestile della nascita di un monopolio

A una settimana dall’accordo tra Repubblica e La Stampa, una testimonianza dai loro corridoi nei giorni della fusione

Eugenio Damasio
6 min readMar 10, 2016

Il 29 febbraio è un giorno strano. Capita ogni quattro anni, pochi mesi dopo iniziano le Olimpiadi e nascervi può essere un incubo. Pur venendo annunciato su ogni mezzo di informazione per i più è un giorno qualsiasi. È un meccanismo utile a sincronizzare il calendario umano con quello astrologico e, per certi versi, dare un ritmo a processi di lunga durata, scandendoli.

Quando capitano cambiamenti epocali durante un anno bisestile, infatti, tenere il conto diventa molto più facile.

La classe di Reporting della Scuola Holden, di cui faccio parte, è l’unico gruppo di “esterni” che, inconsapevolmente, si è trovata ad essere testimone di uno di questi mutamenti epocali. All’interno di un percorso didattico sulla storia e il funzionamento dei più grandi quotidiani nazionali organizzato dal nostro maestro Riccardo Luna, infatti, ci siamo trovati tra i corridoi de la Repubblica il giorno dell’arrivo del nuovo direttore e nella redazione circolare de La Stampa proprio il 29 febbraio. Quarantott’ore dopo quella data è stato reso pubblico l’annuncio dell’accordo relativo alla costruzione di un monopolio nel mondo dell’informazione che, in un modo o nell’altro, avrà a che fare con le vite di ognuno di noi.

Il primo giorno di “Mario”

A Repubblica si cambia il direttore solo negli anni bisestili: 1976, 1996, 2016.

Via Cristoforo Colombo 90, Roma

Una firma diversa sotto alla testata ogni cinque 29 di febbraio. La mattina che Mario Calabresi, 46 anni, è entrato in redazione noi eravamo lì, addirittura prima di lui. La sede di Repubblica di via Cristoforo Colombo non si nota quasi dalla strada: un palazzone grigio e abbastanza anonimo con sorveglianza privata all’ingresso. La redazione, disposta su più piani, pare quasi la sede di una azienda tradizionale ancora organizzata secondo logiche novecentesche: 300 dipendenti a produrre il cartaceo e 30 impegnati sul web.

Erano passate poche ore dalla serata di festa all’Auditorium in cui tutti gli amici del giornale si erano esibiti, avevano portato una riflessione, un pensiero. Poche ore da quando eravamo stati investiti dalle parole di Eugenio Scalfari sulle interviste a Papa Francesco, dalla razionalità di Ezio Mauro, composto come sempre davanti a una sala che lo omaggiava commossa, e dalla presentazione di “Mario”, come lo chiamavano già tutti tra i corridoi. Calabresi, anche prima di diventare direttore, a Repubblica era di casa: lì si era formato professionalmente sino a diventare caporedattore centrale a 39 anni, una grande scommessa vinta dalla vecchia direzione.

L’attesa del suo arrivo in redazione era palpabile ma moderata. Una sorta di passaggio naturale per proiettare il giornale nel futuro grazie a una cura più elevata del digitale e al continuo miglioramento della qualità dei contenuti proposti. E questo si percepiva prima della presentazione del suo piano editoriale fatto in live streaming pochi giorni dopo. Si percepiva nelle parole di Giuseppe Smorto quando ci illustrava perché repubblica.it, di cui è direttore, debba lavorare con una logica del tutto differente rispetto al cartaceo, velocità e correttezza nella copertura degli eventi, ogni giorno, 24/7, o in quelle di Marco Pratellesi, a capo del sito dell’Espresso dal 2013.

«Quando si parla di rapporto tra aziende dell’informazione e social media bisogna sempre ricordarsi che la palla la portano i giornali: bisogna decidere come sfruttare il campo»

Il web 2.0 è il futuro del giornalismo e imparare a dominarne il campo utilizzando i social network nel modo migliore diventa fondamentale.

Bisogna considerare come una potenziale miniera d’oro ogni like e ogni condivisione. I numeri, infatti, parlano chiaro. Con Pier Paolo Cervi, direttore generale della divisione digitale del gruppo Espresso, abbiamo discusso come «nell’ultimo anno i ricavi provenienti dalla pubblicità sul digitale hanno toccato i 60 milioni di euro per l’azienda» a fronte di un cartaceo che perde migliaia di copie ogni anno. I giornali di carta diventeranno preziosi beni di nicchia mentre, online, la competizione sarà sempre più difficile da gestire.

«Internet non è più un insieme orizzontale di siti ma una nuvola dove i monopolisti possono seguire ovunque e comunque l’utente»

ha dichiarato Cervi offrendo come unica possibile soluzione che le aziende editoriali diventino nel giro di breve tempo mass media market unici in grado di profilare i propri lettori.

Il 15 gennaio l’obiettivo per repubblica.it era quello di raggiungere i dieci milioni di utenti giornalieri entro il 2020.

“Mario”, nello stesso istante, pochi piani più in su, si presentava alla nuova redazione portandone in dote oltre un milione.

Il 29 febbraio

Cento anni prima di questa fatidica data, la famiglia Agnelli intraprendeva i primi passi nel mondo dell’editoria. Era sempre un anno bisestile e la più importante casata dell’industria automobilistica italiana, che giusto quattro anni prima aveva posto le basi del suo impero con l’inizio dell’edificazione dello stabilimento del Lingotto, iniziava la scalata verso la totale acquisizione de La Stampa avvenuta poi, nel 1926, con l’avvallo delle autorità fasciste.

Via Lugaro 15, Torino

Di nuovo, e in modo del tutto casuale, ci siamo trovati nella sede dello storico giornale torinese proprio il 29 di febbraio: il penultimo giorno della sua totale autonomia da altri quotidiani nazionali dalla stessa famiglia Agnelli. Nostro Cicerone Anna Masera, ex Capo dell’Ufficio Stampa e Responsabile comunicazione della Camera dei Deputati durante il primo anno del governo Renzi e attuale public editor de La Stampa. Appena arrivati le differenze con il quotidiano romano appaiono evidenti: a pochi metri dalla fermata “Nizza” della metropolitana, in Via Lugaro, un palazzo di vetro e ferro risalta tra il grigio e l’abbandono propri delle aree de-industrializzate della città. «Non è solo un aggiornamento di tecnologie questa nostra quinta sede (…) ma un tentativo di rispondere alle sfide dell’informazione e di un mondo che cambia a una velocità sconosciuta» scriveva proprio Calabresi in occasione dell’ultimo trasloco, necessario soprattutto per i problemi economici che colpivano il giornale.

Facendo di necessità virtù veniva così proposto un manifesto ideologico per un giornalismo più competitivo e moderno in cui, anche grazie alla disposizione concentrica degli open space, la figura del giornalista perde la classica impostazione redazionale imparando, poco alla volta, a svolgere tutte le mansioni necessarie a fornire informazione su più piattaforme in contemporanea. Quando la competizione si fa più dura bisogna imparare a far fruttare il capitale umano in modo sempre più produttivo.

Dopo aver assistito a una breve parte della riunione pomeridiana dei caporedattori con Maurizio Molinari, l’attuale direttore e presidente ItEdi, collegato in videoconferenza da Tel Aviv, ci siamo fermati a chiacchierare con la redazione di Origami. Il settimanale, nato ispirandosi al Le One di Le Monde, è un invito a “rallentare e a riflettere” su un singolo argomento e, soprattutto, è pensato esclusivamente come cartaceo. Pur essendo un esempio tanto romantico quanto virtuoso, le parole di Cervi sul futuro della carta iniziano a rimbalzare forte nelle nostre teste. È in quel momento che Masera, con una frase che sta tra l’off the records e la boutade, ci fornisce l’ultimo decisivo tassello per riuscire a capire cosa sarebbe successo. Una frase lasciata cadere con naturalezza all’interno della conversazione.

«Per Origami, addirittura, pensiamo, ad una collaborazione con la Repubblica» dice sorridendo.

La fusione tra i gruppi editoriali ItEdi e l’Espresso apre a una nuova era nel campo dell’informazione. Accaparrandosi un quinto del mercato complessivo, infatti, assistiamo alla nascita di un polo editoriale capace di declinare grandi firme e straordinari numeri sul web, storia del giornalismo e innovazione. Se, da una parte, le dinamiche globali impongono una strategia di questo genere per affrontare il futuro, dall’altra le nubi sull’indipendenza e autonomia delle singole istituzioni giornalistiche si fanno sempre più fosche. Si apre un’epoca fatta di ritorno a dinamiche monopolistiche simili a quelle che Orson Welles , nel 1941, raccontava nel suo Citizen Kane. Un’epoca in cui, e non solo in campo giornalistico, la redistribuzione di ricchezza è sempre più limitata e i protagonisti rimangono invariati.

In un contesto tanto fragile quanto complesso è impossibile riuscire a trarre conclusioni per il futuro e, per capirci davvero qualcosa, probabilmente, bisognerà aspettare almeno il 2020 evocato da Cervi.

Il prossimo anno bisestile.

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