Le scrittrici che mi hanno sconvolto l’esistenza

Eva Cabras
13 min readMar 1, 2018

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Frequentavo la quinta elementare in una piccola scuola di provincia, quando la mia maestra di italiano mi prese da parte durante l’intervallo e mi disse che ero pronta per i libri da grandi. A 10 anni da poco compiuti, il 90% dei miei amici erano quelli raccontati nelle decine di volumi che divoravo con continuità, saccheggiando senza tregua la biblioteca per ragazzi del paese. Che giorno meraviglioso quello in cui ricevetti la mia prima tessera per il prestito, con addirittura il mio nome sopra! Ma il catalogo riservato ai giovani iniziava a non darmi più le soddisfazioni di un tempo. I libri che avevo in casa erano pochi e mi sembravano scarsamente interessanti. Da piccolissima avevo ascoltato rapita mia madre che leggeva ogni fiaba a disposizione, passando alla mitologia greca e finendo con La fattoria degli animali di George Orwell.

Avevo fame di novità, delle avventure e dei rapporti umani che non potevo avere di prima mano. A scuola andavo bene, senza eccellere particolarmente in niente. Ero estremamente curiosa e amavo inventare dialoghi ed esperienze che poi spacciavo per vere. Avevo dentro un’indefinita voglia di scoperta, di primato, di consacrazione, che non riuscivo a saziare se non proiettando la mia immagine nelle vite altrui. Il mondo a cui mi iniziò quella giovane e sgraziata maestra di italiano, di cui mi sforzo da vent’anni di ricordare il nome, mi cambiò letteralmente la vita. Mi disse che era venuto il momento di farmi passare alla letteratura da grandi, scavalcando lateralmente il programma ufficiale. Mi prestò una copia di Piccole Donne di Louisa May Alcott, che avrei potuto leggere durante l’estate insieme ai volumi assegnati a tutta la classe.

Il solo fatto di essere stata scelta su tutti i miei compagni per quella sacra missione mi riempì d’orgoglio. Finalmente avevo qualcosa che mi distingueva dagli altri, che mi rendeva eletta, speciale, destinata a qualcosa di diverso. La lettura mi sconvolse e mi infiammò in maniera inattesa. Non tanto per la storia in sé, che racconta l’evoluzione di quattro sorelle nella società americana di fine ‘800, ma per il legame istantaneo e viscerale che nacque fin da subito con uno dei personaggi: Jo March.

Jo ambiva a far qualcosa di splendido: che cosa sarebbe stato poi questo qualcosa non lo sapeva neppure lei ed aspettava che il tempo glielo suggerisse; […] Il suo carattere furioso, la sua lingua mordace ed il suo spirito irrequieto, le procuravano sempre dei guai e la sua vita era una serie continua di alti e bassi, che erano insieme comici e patetici.

Josephine, detta Jo, era la pecora nera della famiglia, la sorella dall’aspetto meno aggraziato, da maschiaccio, che si nascondeva con le sue mele nella soffitta di casa per leggere romanzi, fantasticando di diventare una scrittrice. Il comune amore per la lettura, l’odio per le convenzioni sociali e la sua fama di ribelle, fece di Jo la mia prima vera eroina, colei che sarei voluta diventare e che parlava della mia vita interiore come nessun personaggio prima di allora. Fu la prima volta che manifestai quello che successivamente sarebbe diventato un comportamento ossessivo ricorrente. Mi immedesimai totalmente in Jo, seguendo semplicemente delle pulsioni all’ascetismo e alla conoscenza che già avevo. Comunicai ai miei genitori la volontà di ricavare uno spazio in soffitta dove andare a leggere, ma, una volta scoperto che nel sottotetto vivevano topi ben più grossi del piccolo compagno di Jo, decisi di accontentarmi della comoda poltrona della mia stanza, dove mi accoccolavo insieme alla gatta di casa. Quel primo contatto con un punto di vista letterario femminile fu incosciente quanto esplosivo. Non davo peso al genere di appartenenza dell’autrice, ma fu un colpo di fulmine destinato a ripetersi, non casualmente.

Finite le scuole elementari, passai nel nuovo ambiente delle medie. Il passaggio non fu particolarmente traumatico, ritrovai alcuni compagni degli anni precedenti, mantenni la mia mediocrità accademica e portai avanti il mio percorso personale di scoperte letterarie. Il programma scolastico non mi regalò perle di stupore o epifanie, rimanendo sui suoi piatti binari di conoscenza per grandi concetti. A un determinato genere o corrente appartenevano determinati autori, si recitavano nome e periodo storico, citando alcuni titoli e la poetica a grandi linee, basata sui piccoli stralci di testo che analizzavamo in classe. L’intero processo mi annoiava a morte e mi fece disdegnare opere che avrei recuperato con gioia solo durante l’età adulta. A margine scoprii i romanzi gialli e mi appassionai sempre più al cinema horror, dove trovavo l’emozione, il brivido della novità e del proibito che non veniva in alcun modo incoraggiato a scuola.

Facevo ancora fatica a socializzare e mi resi conto con poca sorpresa di non essere popolare. Il mio aspetto goffo e sciatto non aiutava la mia scalata sociale e abbandonai ben presto l’idea di scampare alla crudeltà dei miei coetanei. Mi rifugiavo ancora nei libri per creare un’immagine di me e un futuro che riscattassero la delusione che andavo maturando, ma contemporaneamente mi resi conto che Dio non esiste e che attorno a me c’erano persone che invidiavo. Non mi sentivo più speciale, eletta o destinata alla grandezza. Avevo bisogno di letture oscure, dove tutto fosse buio e doloroso come nella mia testa. Decisi di procurarmi il Frankenstein di Mary Shelley, dopo averne visto la trasposizione cinematografica con Boris Karloff.

La sua pelle giallastra nascondeva a malapena il lavorio sottostante dei muscoli e delle arterie; i suoi capelli erano folti e di un nero lucido, i suoi denti di un bianco perlaceo; ma tutti questi particolari non facevano che rendere più orribile il contrasto con i suoi occhi acquosi, i quali apparivano quasi dello stesso colore delle orbite, di un pallore terreo, in cui erano collocati, con la sua pelle grinzosa e con le sue labbra nere e diritte.

Diventò una delle mie letture preferite del periodo, insieme a Edgar Allan Poe, che però abbracciai a pieno successivamente, durante una fase di invaghimento acuto per agli artisti dalla personalità travagliata come Charles Baudelaire e H.P. Lovecraft. Frankenstein mi proiettò nelle tenebre dell’atmosfera gotica che agognavo, dove la morte e la sofferenza erano concetti al tempo stesso assoluti e sfumati. Ci ritrovai la mia personale sfida a Dio e alla sua creazione imperfetta, rimanendo affascinata dalla storia che narra di come venne concepita l’idea per il romanzo: Shelley e il marito Percy trascorsero l’estate del 1816 nei pressi di Ginevra, dove insieme a Lord Byron, John William Polidori e Claire Clairmont si dilettavano nell’inventare storie di fantasmi per intrattenersi davanti al focolare.

Da una di queste amabili sfide nacque l’idea per Frankenstein, capolavoro di letteratura gotica, nato in grembo a un circolo intellettuale che avrei cercato per anni a seguire e, non ultimo, scritto da una donna. Una storia horror scritta da una signora dell’800, in barba ai romanzi d’appendice, alle storie d’amore e alle frivolezze alla Madame Bovary. Stavolta non era un personaggio del libro a monopolizzare la mia stima, ma la sua autrice, una nuova paladina nel mio viaggio interiore verso un posto nel mondo o un qualsiasi tipo di utilità.

Le scuole medie passarono, non senza lasciare cicatrici. L’entrata al liceo fu decisamente più problematica, mi feci qualche nuova amica, scoprii con trasporto la musica punk che ben si addiceva al mio ateismo e alla mia confusione mentale. Non sapevo chi ero, non sapevo cosa avrei fatto e cosa oggettivamente sarei stata in grado di fare. La matematica e tutto ciò che aveva a che fare con il rigore scientifico mi diventarono nemici, ma avevo ancora al mio fianco i libri, che adesso potevo permettermi di comprare con più frequenza.

La letteratura insegnata al liceo non sembrava più matura o intensa di quella del triennio precedente, mi annoiavo ancora molto e non feci grandi scoperte. Il quarto fu il mio anno terribilis. Iniziò con svogliatezza e finì con odio. Tra un quadrimestre e l’altro diventai maggiorenne, saltavo spesso le lezioni, studiavo poco e non ne sentivo la necessità. Conclusi portandomi dietro un paio di insufficienze, ma il programma di quinta mi dette qualche piccola speranza. Mi resi conto di dedicarmi volentieri solo agli argomenti che mi interessavano, ero cosciente di sbagliare ma andava bene così. Durante le lezioni di letteratura inglese analizzavamo brani in lingua di autori che mi erano pressappoco sconosciuti. Arrivò il giorno in cui leggemmo un estratto da La signora Dalloway di Virginia Woolf e il mondo tornò per pochi minuti a sembrarmi tollerabile.

Ma come era mai possibile ch’ella potesse ingoiare tutte quelle fandonie sulla poesia? Come poteva lasciarlo perorare su Shakespeare? Grave, solenne, Richard Dalloway saliva in cattedra, e dichiarava che un uomo che si rispetti non poteva leggere i sonetti di Shakespeare, che sarebbe stato come origliare a una porta (a parte ciò, rapporti di quel genere non godevano della sua approvazione). Un uomo che si rispetti non doveva permettere alla propria moglie di andare a far visita alla sorella della sua prima moglie. Incredibile! L’unico modo per farlo tacere era bombardarlo di mandorle zuccherate, come s’era fatto a tavola.”

La Woolf fondeva nella sua prosa il flusso di coscienza alla James Joyce con una delicatezza e una profondità emotiva che mi sconvolse. Sprofondare nella psicologia dei suoi personaggi era meraviglioso e di nuovo mi trovai attratta dalla storia personale dell’autrice, tormentata dalla depressione e dalle fobie che la portarono prematuramente al suicidio nel 1941. Scrivere da un punto di vista apertamente femminile agli inizi del ‘900 era ancora impresa non semplice, tanto più se si faceva parte della corrente più modernista del periodo e si mirava alla massima espressione dell’interiorità umana.

L’immagine di Virginia Woolf come eroina fragile, mente eccelsa e pioniera mi aprì la strada verso la letteratura contemporanea, ricordandomi che oltre le mie paranoie personali c’era tutto un mondo di lotte, prevaricazioni e vittorie di cui andare fiera. Quanto avevo mai riflettuto sulla complessità e il valore della parità di genere? Veramente poco ed era il momento di cambiare rotta.

Ero ancora troppo assorta nel mio reticolo di insicurezze e domande per dedicarmi all’autorialità femminile dal punto di vista filosofico o storico. Stavo per terminare il liceo, ero abbastanza grande da guidare una macchina ma non abbastanza per decidere del mio immediato futuro. Cosa avrei fatto dopo il diploma era una landa ventosa di incertezza. Volevo continuare a studiare, possibilmente solo quello che decidevo io, e l’idea di frequentare l’università, di conoscere persone nuove, nuove idee e contesti intellettuali mi rendeva gli ultimi mesi di superiori insopportabili. A diciannove anni suonati mi sembrava ancora di non avere una personalità, di non sapere esprimere a parole ciò che avrei voluto. Mi venne di nuovo in soccorso la letteratura in lingua inglese, stavolta dagli Stati Uniti. In classe leggemmo e analizzammo distrattamente Mirror, una poesia di Sylvia Plath del 1961.

Sono d’argento e rigoroso. Non ho preconcetti. Quello che vedo lo ingoio all’istante così com’è, non velato da amore o da avversione. Non sono crudele, sono solo veritiero — l’occhio di un piccolo dio, quadrangolare.”

Mi trovai con gli occhi pieni di lacrime. Dissezionare quel potentissimo grido di autoanalisi mi urtò nel profondo. Tornai a casa e comprai la raccolta completa dei componimenti di Plath e mi ci gettai senza riserve, facendomi squartare il cuore da sensazioni che sentivo quasi come fossero mie. Il linguaggio poetico e, nuovamente, un’eroina che si dibatte tra mania e abisso depressivo, dissolsero momentaneamente il legame strettissimo che avevo sempre avuto con la narrativa.

Già con Woolf avevo assaporato la gioia di perdermi nella mente di un personaggio, tralasciandone a tratti la vita, ma fu con Sylvia che imparai ad annullarmi e fondermi totalmente con le parole, i suoni, le pure immagini. Tentai in uno slancio di emulazione di trasformare la mia confusione in poesia, ma la scarsità dei miei mezzi e il costante paragone con la mia più recente ossessione mi fece inorridire. Decisi che non ero tagliata per il testo poetico, forse pensai di non essere tagliata per i testi in generale, ma per il momento affossai le velleità solo parzialmente. Sarei rimasta legata alle poesie di Plath per tutta la vita, già lo sapevo e così è stato.

Gli esami di maturità furono superati senza troppa convinzione, lavorai qualche mese per pagarmi un viaggio a Parigi. Attendevo di iniziare l’università con speranza rinnovata ed energia. I miei propositi di arricchimento intellettuale in un ambiente stimolante furono ridimensionati con velocità sorprendente: ero pendolare, frequentavo le lezioni, sostenevo gli esami e poi me ne tornavo a casa, a un’ora circa di treno. Non avevo conoscenti intorno e non fui capace di acquisirne di nuovi. Le materie che studiavo erano comunque interessanti e mi aprirono a scoperte letterarie, filosofiche e artistiche straordinarie. Mi mancava ancora il confronto con un gruppo di spiriti affini, ma mi accontentavo di discutere le mie scoperte con una me stessa più ricca. Paradossalmente, una delle scoperte letterarie più influenti di quegli anni arrivò per puro caso. Passeggiando tra gli espositori di un giornalaio aspettando il treno che mi avrebbe ricondotto in provincia, mi saltò all’occhio un piccolo volume allegato a un noto quotidiano. Era L’entrata di Cristo a Bruxelles di Amélie Nothomb.

Incuriosita dal titolo che citava il quadro di James Ensor me l’accaparrai per pochi spicci. Divorato nel breve tragitto verso casa, scoprii una delle più prolifiche e peculiari scrittrici di questo secolo, m’innamorai del suo linguaggio curato, delle immagini vivide e dei personaggi bizzarri.

Zoe, che aveva letto troppo Barbey d’Aurevilly, cercò di masticare una rosa: fece una smorfia. — È buona solo nei macarons — commentò. — Le rose ci saranno utili per un’altra cosa — disse Salvator. — È l’unico fiore bello sia intero sia quando se ne spargono i petali. — Davvero? Sparse per lei i petali di un giglio, di un’orchidea, di una peonia, di un iris, di un gladiolo, di un pisello odoroso, di un’ortensia, di una sassifraga ombrosa, di una margherita, di un garofano, di un non-ti-scordar-di-me, di una clematide, di una zinnia, di una pneu-de-Cythère, di una camelia nera, di una fucsia e di un dente di leone e la convinse: la frammentazione si confaceva solo alla rosa. Era l’unico fiore che, sparso, aveva un’aria voluttuosa e non agonizzante. Si fecero un letto di petali di rosa.

Nothomb e il suo inseparabile cappello a cilindro mi colpirono sulla carta come nella realtà. La vita intensa e cosmopolita della scrittrice belga mi affascinarono, rendendo la lettura di gran parte della sua produzione ancora più ammaliante. Con un rigore che trovavo, e trovo, incredibile, Amèlie scrive e pubblica un libro all’anno, pescando dalle proprie esperienze o dalla propria capacità di reinventare il reale in metafore affilate, narrante con schiettezza ed eleganza. Mi sconvolge come per Nothomb la scrittura sia un’attività rigorosamente quotidiana, regolare, urgente al limite dell’automatismo. Mi sconvolge perché vorrei fosse altrettanto per me, che invece galleggio ancora nella medesima bolla di indecisione di due decenni fa.

Mentre ancora tiravo le somme di un 2017 ferito da scandali sessuali e prevaricazioni venute alla luce, ho compiuto 30 anni. Ho analizzato mentalmente, e supportato, i movimenti di reazione alle disparità di genere, da #quellavoltache a #meetoo e Time’s Up. La sento come una presa di posizione necessaria e anche terribilmente spontanea, lo sfociare organico di una vita passata a definirmi senza timore una femminista, con tutte le contraddizioni e le manchevolezze del caso. Ho sempre amato il femminismo abbracciandone il potere trasversale e la mancanza di un’ideologia sclerotizzata, dovuta alla capacità di adattarsi nel tempo alle trasformazioni della Storia, ai cambiamenti e al sorgere di nuove battaglie. Non mi sento ancora addosso la saggezza di una vera maturità, ma non sono neanche più una ragazzina. Strano come per descrivere la mia attuale situazione sia perfetto andare a pescare tra uno dei miei idoli della pre-adolescenza: “I not a girl, not yet a woman”, come diceva Britney Spears. Biologicamente, forse emotivamente, sono una donna, ma quanto mi sono impegnata nel creare una base culturale accurata per la mia identità femminista? Nel linguaggio che mi è più familiare, quanto sono preparata teoricamente sui pilastri del femminismo? In risposta ho avuto un acuto senso di colpa, lo stesso che mi assale quando in una conversazione non riesco a partecipare per mancanza di argomenti. Mi distrugge. Sono una cattiva femminista, almeno dal mio personale punto di vista, ma accetto con umiltà l’ennesimo difetto e tento di porvi rimedio. In Bad Feminist, Roxane Gay dice: “Abbraccio l’etichetta di cattiva femminista perché sono umana. Sono un disastro. Non sto cercando di essere un esempio. Non sto cercando di essere perfetta. Non sto cercando di dire che ho tutte le risposte. Non sto cercando di dire che ho ragione.” Mi sento già meglio.

Nel mio percorso di redenzione, ho deciso di partire dalla lettura di un’autrice che ho sempre considerato straordinaria per inerzia. Forse anche per la sua vicinanza a uno degli scrittori del ‘900 (uomo) che amo maggiormente (cattiva, cattiva femminista!), Jean-Paul Sartre. Di Simone de Beauvoir avevo letto qualche estratto ai tempi del liceo, en passant, poi qualche intervista e mi ero illusa di aver assorbito ciò che c’era da assorbire con quell’arrogante superficialità, atteggiamento che ho poi ritrovato con sorpresa nell’autoanalisi dell’adolescenza di Beauvoir stessa.

Io non ho personalità, mi dicevo tristemente. Ero curiosa di tutto, credevo nell’assolutezza del vero, alla necessità della legge morale; i miei pensieri di modellavano sul loro oggetto; se a volte uno di essi mi sorprendeva, voleva dire che rifletteva qualcosa di sorprendente. Preferivo il meglio al bene, il male al peggio, disprezzavo lo spregevole. Non scorgevo alcuna traccia della mia soggettività. Mi ero voluta senza limiti ed ero informe come l’infinito. La cosa paradossale è che mi accorgevo di questa deficienza proprio nel momento in cui scoprivo la mia individualità: la mia pretesa all’universale fin allora mi era apparsa ovvia, e invece, ecco che diveniva un tratto di carattere.”

Ho letto Memorie d’una ragazza perbene e mi sono trovata, per l’ennesima volta, con l’esistenza sconvolta. Nell’infanzia e nell’adolescenza della scrittrice ho trovato una sconvolgente serie di analogie con me stessa. La fame di libri, il ristretto numero di interazioni sociali, la hybris tipica di chi pensa di essere speciale e il tonfo assordante nel momento in cui si scopre di non esserlo affatto, la perdita di Dio, la ricerca febbrile di un gruppo intellettuale con cui confrontarsi, la volontà di grandezza che si sgretola sotto l’evidente incapacità ad attuare ciò che si è elaborato in teoria. Mi è sembrato a più riprese di guardare in uno specchio, di vedere finalmente il casino della mia giovinezza espresso in maniera profonda, sistematica e spietata. In Simone ho trovato un’amica di cui voglio sapere tutto, perché ho soltanto iniziato a grattare la superficie e non ho nessuna intenzione di accontentarmi. Non stavolta.

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