La denuncia e il contesto del piccolo Aylan.

Luca Alagna
3 min readSep 3, 2015

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gli abiti dei migranti che tentano la traversata sulla riva di una costa turca

Il contesto è importante.
Il primo quotidiano a pubblicare le foto del piccolo Aylan esanime sulla spiaggia è stato The Independent​, con lo scopo dichiarato di sollecitare il pubblico britannico sempre più chiuso verso gli immigrati e indurre il premier Cameron a cambiare atteggiamento in un momento di gravi prospettive come quelle espresse da Theresa May.
Quindi è una strumentalizzazione, l’immagine del piccolo viene usata per raggiungere un obiettivo, in un contesto ben preciso.

Una volta che è nel circuito internazionale (quello che rifornisce di immagini tutta la stampa mondiale) la foto può essere pubblicata da chiunque.
Il Manifesto l’ha usata nelle sue tipiche “copertine” ad effetto per creare uno shock non tra i suoi lettori abituali, che sono già abbastanza avvisati, ma tra chi l’avrebbe vista altrove, nelle rassegne stampa, nelle discussioni che avrebbe sollevato sui media e fuori.
Anche questa è una strumentalizzazione, l’immagine del piccolo viene usata per accendere la discussione nel Paese più xenofobo d’Europa (secondo alcune statistiche) e sbattere in faccia la realtà ai sostenitori dei movimenti anti-immigrati.

N.B. anche La Stampa l’ha pubblicata in prima pagina e il suo Direttore ha spiegato perché (attenzione, se cliccate vedrete la foto del bimbo).

Molti la riprendono e la pubblicano anche online, sui Social Media, sulle proprie pagine Facebook, in mille tweet, sul web, annacquando sempre più la drammaticità dell’immagine e il dolore che nasconde.

un approfondimento su questa foto su Il Post http://www.ilpost.it/2012/06/08/storia-foto-bambina-vietnam-napalm/

La strumentalizzazione è l’altra faccia della denuncia pubblica, solo il contesto ci può dire da quale lato siamo.
La foto della piccola Kim Phúc nuda e ustionata dal napalm fu una denuncia, quando comparve in prima pagina sul New York Times nel 1972.
La verità della guerra in Vietnam non arrivava apertamente e di continuo al grande pubblico (come accadrebbe oggi con i Social Media e i canali tv all-news) e quella foto suscitò grande emozione, forse contribuì alla fine di quella guerra e il suo fotografo ricevette il Premio Pulitzer.
Il contesto è fondamentale.

Altre volte mi sono schierato contro immagini o video che non aggiungevano nulla alla notizia e che si moltiplicavano inutilmente, e continuo a sostenerlo, ma dobbiamo ammettere che a volte alcune immagini diventano potenti denunce durante stravolgimenti epocali grazie ai differenti contesti.

Ogni volta che immagini di questo tipo vengono decontestualizzate e moltiplicate all’infinito, andando oltre la denuncia, creiamo un vulnus.
Per questo non mi piace che vengano strumentalizzate.
Però il problema non si risolve facendo scomparire queste immagini o regolamentando solo alcune situazioni professionali.
Abbiamo bisogno come l’aria di contesto, della storia che c’è dietro.
Se proprio decidiamo di pubblicare quella foto, deve essere parte di un racconto della sua vita, della famiglia, della guerra, della Siria e di tutto quello che è accaduto negli ultimi anni.
È il racconto (chiamiamolo storytelling se volete) che deve avviare una grande discussione in ogni contesto e in ogni Paese, non lo shock di una foto una tantum.
Moltiplichiamo il racconto, non la foto del bimbo, rendiamoli inscindibili.
Col racconto, il corpo del piccolo Aylan fermo per sempre sulla riva del mare ci deve parlare e insegnare tante cose.

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