da “Anatomy of news consumption on Facebook”, Schmidt et al. — Proceedings of the National Academy of Sciences

Siamo sempre più radicalizzati e le fake news sono un effetto collaterale

Luca Alagna
4 min readMar 7, 2017

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A cosa stiamo assistendo quando un Presidente degli Stati Uniti “governa” quotidianamente via Twitter esaltando i propri sostenitori con notizie infondate?

A qualcosa di inedito.
Benché le notizie false e la disinformazione siano sempre state il sale della politica e delle società in ogni epoca, quello che è possibile ottenere oggi nel sistema mediatico digitale e ibrido, per dimensione e pervasività, dovrebbe far alzare lo sguardo.
Il sistema dell’informazione e del giornalismo, probabilmente l’ultimo intermediario col potere, si sta sgretolando e le bufale si fanno largo in ampie fasce di cittadini.
Cosa sta succedendo? Di chi è la colpa? Cosa si può fare?
A un problema complesso non può esservi una risposta semplice ma stiamo iniziando a comprendere scientificamente alcuni meccanismi.

Ci aiutano alcune ricerche degli ultimi tempi (soprattutto nell’ambito delle scienze sociali computazionali) di cui l’ultima “Anatomy of news consumption on Facebook” (coordinata da Walter Quattrociocchi) ci svela un ulteriore tassello: le persone si rinchiudono sempre più in bolle alimentate da poche fonti informative.
La prima conseguenza è che le “fake news” (le bufale) sono l’effetto e non la causa del fenomeno che porta disinformazione e cattiva informazione.
Perciò cercare una soluzione alle “fake news” è come tentare di curare la febbre ma non l’infezione.

Dallo studio dei dati di 5 anni sui comportamenti di 376 milioni di utenti in 920 pagine Facebook di testate informative emerge che i lettori attingono a un numero progressivamente inferiore di testate e solo quelle di cui si condivide la narrazione della realtà.
Il modo in cui le persone usano i Social Media (Facebook in questo caso) invece di facilitare la circolazione delle informazioni, fornendo ampia scelta, finisce per restringere l’orizzonte.
Il giornalismo (sia quello tradizionale che quello non ufficiale dal basso) contribuisce a questi meccanismi trasformandosi da racconto dei fatti a una narrazione conforme a una specifica visione, sempre più emotiva.
Questa informazione sembra più interessata a nutrire la propria community online, confermando i pregiudizi, che a fornire punti di vista differenti e ricchi.
I lettori attivano un processo di segregazione in camere dell’eco all’interno delle quali ogni idea contrastante viene respinta e anzi rafforza l’identità del gruppo (come mostrato da precedenti ricerche).
Ne consegue che il fact-checking non corregge le bufale presso chi le prende per buone ma anzi induce una ulteriore conferma. Il fact-checking agisce sulle community di debunking come elemento identitario tanto quanto la bufala per le community complottiste: non ha un valore al di sopra delle parti.

Se questi sono gli effetti, quali sono le vere cause?
La risposta non è semplice ma certamente passa dagli aspetti sociologici e psicologici e molto meno da quelli tecnologici e algoritmici.
In altre parole, non è “colpa della Rete”, non è colpa dei social, di Facebook o degli algoritmi.
Un aspetto particolare alla base di tutto questo è la radicalizzazione (o polarizzazione) che viviamo.
In questa ricerca, come in altre, questo aspetto viene addirittura quantificato.
In questo diagramma il gruppo di ricerca mostra l’attività degli utenti (rappresentata dalla posizione di un punto) rispetto alle 5 principali community analizzate (ognuna identificata da un colore diverso) nel caso ideale di neutralità dei comportamenti: molti utenti frequentano mediamente molte community eterogenee.

“Anatomy of news consumption on Facebook”, polarizzazione degli utenti — caso neutro

Ma quello che lo studio rileva e che accade nella realtà è in questo diagramma, in cui quasi tutti gli utenti sono polarizzati attorno a una o due community.

“Anatomy of news consumption on Facebook”, polarizzazione degli utenti — caso reale

Partendo da questa distribuzione, le“fake news”, le camere dell’eco, lo sfruttamento dei pregiudizi per penetrare nei gruppi e le ulteriori radicalizzazioni sembrano inevitabili.
Cosa causa la radicalizzazione? Ancora non è pienamente accertato ma quello che sembra già evidente è che la radicalizzazione, che già esista o meno, può essere indotta.
Non è un caso che il successo dei leader populisti nel mondo (a partire proprio da Trump) faccia leva su questo meccanismo.
È come se, dopo il crollo delle grandi ideologie del Novecento, il progressivo vuoto dei valori fosse stato colmato dalla polarizzazione fine a se stessa.
E così anche il racconto della realtà da parte dell’informazione di ogni tipo sembra si sia trasformato da supporto ai valori democratici a narrazione polarizzata di una specifica visione.
Se i cittadini sono l’hardware della nostra società, il software oggi sembra sempre più preda della radicalizzazione.

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