La Bibbia con le pagine bianche. Su ‘La terra dei figli’ di Gipi

L’apocalittica “terra dei figli” è una distopia post-social, che viene dopo la caduta di un mondo che tanto somiglia al nostro, iperconnesso

Fabio Chiusi
4 min readOct 28, 2016

Di Fabio Chiusi

La terra dei figli di Gipi è la distopia di una società annientata dal fallimento di razionalità e progresso. Un’apocalisse da dopobomba i cui rari protagonisti sono dominati da emozioni effimere, manipolabili. E manipolate, da una setta di “fedeli” il cui grido, non a caso, è: “puro sentimento!”.

“In questi anni di lavoro ho fatto l’orridonauta”, spiega Gipi al Venerdì di Repubblica. “Ho navigato alla ricerca degli ingredienti di una specie di religione catodica diffusa, che fa del suo centro il cuore e il sentimento, che combatte scienza, logica, ragione”. Una religione che adora “una Bibbia con le pagine bianche, dove puoi scrivere tutto quello che vuoi e il contrario di tutto”. Capire perché debbano essere bianche è fondamentale, cela credo il messaggio da affidare al lettore.

Il primo passo è riconoscere che quei sentimenti guida sono immediati, scanditi dal tempo reale più che dal tempo. L’apocalittica “terra dei figli” è una distopia post-social, che viene dopo la caduta di un mondo che tanto somiglia al nostro, iperconnesso. Una sorta di ‘Gaia’ di Gianroberto Casaleggio — fonte esplicita della creatività dell’autore — rivelatasi per ciò che è: non un’utopia di uguaglianza e informazione distribuita, ma una distopia di barbarie e di una assurda “religione dal basso”, come recita l’omonima pagina Facebook, in cui “ognuno vale un dio”. Un mondo in cui la comunicazione istantanea è passata, ma ha lasciato dunque un segno nella lingua, nei modi.

A testimoniarlo, il “laic” pronunciato dai “fedeli” a misura di ogni cosa. Soprattutto, il fatto che la loro divinità sia detta il “dio fiko”, come fosse una sorta di super-blogstar, un maestro di memi intolleranti — questo basta, dice Gipi: “idolatrare l’intolleranza” — à la Mike Cernovich, il propagandista virale di Donald Trump appena raccontato in un lungo profilo dal New Yorker. Così gli stregoni consultano i “gattini”, come fossero su un social network. Lì dove, diceva Gipi a Wired, “si creano nuovi schemi a ogni istante, pronti a contenerti e uniformarti”.

I pochi che resistono, in questa civiltà morta, sono disarmati. “Ho pensato a dei sedicenni con i loro idoli youtuber gettati nel vuoto, a costruire una nuova società”, dice l’autore. Sono i protagonisti del racconto, le bestie “abbandonate”. Il loro sembra ricalcare il cammino del ‘Grande quaderno’ di Agota Kristof se avesse incontrato il critico del digitale Evgeny Morozov: un cinismo purissimo, essenziale, che serve da disciplina, per sopravvivere all’orrore che circonda la vita, ogni vita.

Dove dominano le credenze, il vero non conta. Così quello immaginato da Gipi è un mondo in cui la lettura è un ricordo del passato, di padri che i figli non comprendono; luogo di rivelazioni più che di fatti, di verità assolute e comandamenti. Ma è anche un mondo in cui i “fedeli” sono ricompensati con il soddisfacimento delle pulsioni erotiche, rappresentato per esempio dall’abituale stupro delle schiave. Le emozioni, come sa ogni propagandista, vanno stimolate e insieme neutralizzate; nessuna deve potersi tradurre in violenza incontrollata — l’autore sembra volerlo sottolineare.

Infine, la Bibbia bianca. Tra le pagine, incantate dalla grazia stilistica di Gipi, scorre poco alla volta il ritratto satirico e disperato di un mondo in cui, se tutti credono, è facile diventare oggetto di venerazione. Le ultime tavole fanno intuire che chi possiede il libro del “dio fiko”, se sa leggere, può inventarne il contenuto a suo piacimento. E, dunque, comandare. La Bibbia, anche scritta, è sempre bianca; si può sempre riscrivere. Per gli altri, i “fedeli”, saranno comunque ordini divini.

Questo fa l’ignoranza, il “puro sentimento”, dice insomma questo volume bellissimo: prima di tutto ubbidire. Chi dissente, è una “strega” — i Radiohead di ‘Burn the Witch’ sembrano averne scritto la colonna sonora ancor prima di leggerlo. Gipi è bravo a sfruttare la familiarità, attualissima, dell’ambientazione distopica, post-apocalittica, aggiungerci un pizzico — mai invadente — di sentire iperconnesso, e mettere tutto insieme per un fine fiabesco, ma insieme forte, vitale: criticare il fondamentalismo, ogni fondamentalismo.

Alla radice, dice il racconto, è superstizione, fede cieca e ingorda di ricompense immediate, emozionali. E non può che diventare crudeltà, cattiveria. Il risvolto, non banale, è che non fa meno male di quell’altra fede, speculare, nel progresso e la sola ragione; in quella diversa Bibbia che, scarabocchiata a nostro piacimento, aveva portato l’apocalisse.

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