GRAVEL DESERT TRIP

Francesco Bonato
11 min readFeb 26, 2023

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Granada di notte è silenziosa, vuota. Montiamo le biciclette su un marciapiede, nel centralissimo passeo de la Bomba, mangiamo un kebab e ci mettiamo in sella. Manca poco alle 4, una lunga giornata ci attende, eppure c’è l’emozione della partenza, l’energia che si sprigiona quando finalmente arriva un momento tanto atteso. La salita comincia a due passi dall’Alhambra, in un bosco profumato che conduce sui sentieri del parco Dehesa del Generalife.

Pedalare di notte su una strada sconosciuta innesca meccanismi sensoriali primitivi. Vista, olfatto, udito percepiscono segnali in maniera più precisa, puntuale, quasi sorprendente. La strada si inerpica lasciandosi alle spalle le luci della città, la temperatura cala, la pendenza cresce. Superati i paesi di Sudar e Quentar, il fondo stradale si fa più aspro e accidentato, e la strada sale ripida e spietata. A tratti si è costretti a scendere dalla bici e spingere.

L’alba arriva finita la prima importante salita di giornata. Si giunge ad una cava bianchissima che riflette i primi raggi di luce e finalmente riusciamo a vedere il paesaggio che ci circonda. Ci siamo arrampicati fino a quota 1400 mslm, ancora non abbiamo incrociato nessuno da quando siamo partiti, e in quel momento forse realizziamo dove siamo e cosa stiamo facendo. La luce permette di guardarsi in faccia, scambiarsi un cenno come per dire “ci siamo, non si torna più indietro”.

Ci pensava da molto Nicola, girava nella sua testa l’idea di provare l’esperienza del bikepacking. Girava e girava come girano i pedali quando la discesa è dolce. Un’idea informe, nata dalla voglia di fare un viaggio con la bicicletta e documentarlo, riprenderlo, fotografarlo. Negli ultimi due anni abbiamo avuto la fortuna di lavorare molto su progetti legati al mondo ciclismo, ma questa idea serviva per ribaltare le cose e, come spesso serve, fare qualcosa di nuovo.

E così un giorno abbiamo deciso. Abbiamo segnato una data sul calendario e ci siamo promessi che quel giorno saremmo partiti. Non più parole, ma fatti ad attenderci. Mettersi in una situazione nuova, imparare a gestirla e godere degli imprevisti, costruendo nuove abitudini.

Abitudine nel pensare fuori dalla zona di comfort. Abitudine nel trovare una soluzione. Abitudine nel costringersi a non fermarsi, ad andare avanti, non per godere della sofferenza ma per dimostrare a se stessi che si può fare.

E così dopo tutta la trafila, l’autostrada — il parcheggio — l’aereo — il transfer notturno — il marciapiede — il bosco profumato — il fondo accidentato, ci siamo. Sorge il sole sul giorno uno di quattro, in sella ad una bicicletta, con tutti i nostri averi caricati nelle borse. Una sensazione di autonomia, di possibilità, di libertà ci pervade. E così la prima vera discesa è una liberazione, dopo quasi 5 ore di solo dislivello positivo. Il sole ancora basso filtra tra i rami degli alberi, il fondo polveroso si alza al nostro passaggio, i freni fischiano.

Mi apposto per fotografare Nicola. Lui arriva, frena, e in un’esplosione di polvere cade. Capisco subito che c’è qualcosa che non va. Lui rimane fermo in silenzio al centro della carreggiata, poi si alza in piedi tenendosi stretto il ginocchio sinistro.

“Ti sei fatto male?”

“Si.”

L’impatto con un sasso nascosto sotto la polvere gli ha aperto una profonda ferita. Cerchiamo di mantenere la calma e di disinfettare il ginocchio malconcio di Nicola, ma è evidente che le nostre rudimentali soluzioni non sono sufficienti. Arriviamo in discesa fino al paese di Purullena, e da li fino all’ospedale di Guadix. 7 punti e la raccomandazione di stare a riposo non fermano Nicola dal proseguire fino alla nostra meta.

Si susseguono paesaggi diversissimi e sorprendenti. Dapprima la strada è bianca, circondata da calanchi e aride valli; poi in pochi chilometri il terreno cambia che sembra di stare in un safari in Kenya, fango rosso e piccoli arbusti tutto attorno; infine l’ultimo tratto si srotola in una valle aperta, con dolci colline che fanno da contorno. Mi giro indietro e Nicola arranca, rallentato dal dolore, ma ormai manca poco per raggiungere Gorafe.

Il paese ci accoglie nella forma di una signora che sta attraversando la strada principale per buttare le immondizie.

“Signora è suo questo hotel?”

“Si.”

“È aperto?”

“No.”

“Non c’è modo di dormire da qualche parte qui in paese?”

“Se state solo una notte, va bene.”

Sdraiato sul letto guardo Nicola medicarsi la ferita. Lo vedo che soffre per il dolore e per il pensiero che forse è meglio fermarsi, accettare il fatto che così non è possibile continuare. Però cosa faccio, proseguo da solo? Modifichiamo il giro e lo accorciamo drasticamente, magari lasciando un giorno di pausa?

Decidiamo che le scelte le prenderemo domani, a colazione. Che ora, dopo 111 chilometri e 2400 metri di dislivello positivo, non abbiamo la forza e la lucidità necessaria.

Apro gli occhi e capisco subito che Nicola non ci sta. Ha disposto tutte le sue cose sul letto e le sta mettendo nelle borse, indizio che mi fa capire che il nostro viaggio non finirà oggi. Aspettiamo che il bar del paese apra e facciamo colazione, ammirando le montagne che si colorano con la luce del sole. Il cielo è azzurro terso.

Il primo chilometro è durissimo, soprattutto se sei appena partito, soprattutto se hai appena fatto colazione. E, nel caso di Nicola, ancora più duro, con un ginocchio malconcio e 7 punti che devono ancora adattarsi alla pedalata. Si raggiunge prima un piccolo altipiano costellato da alberi da frutto e poi il mirador, da dove finalmente si comprende l’estensione e la bellezza del deserto di Gorafe.

La vista è grandiosa, emozionante. Davanti a noi si apre un dedalo di calanchi, canyon e gole, sculture di terra modellate dall’attività di erosione dell’acqua.

Perdiamo del tempo per guardarci attorno, attoniti, con la stessa sensazione di quando si guarda una nevicata, o il mare.

Il deserto ti fa sentire piccolo, un minuscolo testimone di una grandezza immutata e immanente.

E allo stesso tempo il deserto ti fa sentire grande, ti riempie di un’energia nuova, primordiale. In questa vorticosa stasi affiorano sensazioni e istinti inesplorati, sono idee e intuizioni che non dovrebbero appartenerci, o che forse ci appartengono da sempre. Uno slancio improvviso, una spinta.

E poi c’è una discesa lunga, dolce, su una strada che non ha senso di essere, di esistere in un luogo cosi remoto. Sei costretto a guardare il terreno ma vorresti continuamente distrarti ad ammirare lo scenario. Si finisce in una gola stretta, percorrendo un trail che segue le orme di un fiume preistorico. A ripensarci ora forse il segmento più bello e scenico di tutto il giro.

Da qui, si risale. Anzi a guardare bene il tracciato, sarà tutta una lunga risalita fino a sera. Abbiamo deciso che il percorso andava rivisto, quindi togliamo deviazioni e optiamo per soluzioni più veloci per non compromettere i giorni successivi. Così facendo però perdiamo i nostri punti di riferimento, le pause ristoro che avevamo programmato. Probabilmente distratti dal percorso e da quello che avevamo attorno a noi, nel deserto abbiamo mangiato e bevuto poco, sofferto il caldo, e ora trovare qualcosa di aperto sembra un miraggio.

Dopo troppe porte chiuse arriviamo finalmente, in riserva, a Gor. Il Café Bar Hogar del Pensionista è tutto quello di cui avevamo bisogno. Un luogo magico, mistico, proprio di fronte alla Fuente de los 7 caños y lavaderos, fonte e centro del paese.

Il bar ha tutte le caratteristiche per esagerare. La giusta location, a soli 10 chilometri dall’arrivo quotidiano, la giusta clientela, che sorseggia birre ghiacciate e rumoreggia giocando a carte e il giusto menù, un plato combinado formato principalmente da cose fritte di diversa provenienza. E così esageriamo.

A Las Juntas c’è un solo hotel, un solo ristorante ed un solo bar. E sono lo stesso posto. Arrivarci è teoricamente molto semplice ma praticamente un’impresa nelle nostre condizioni, con la pancia piena e qualche birra di troppo. All’ombra di una tettoia un variopinto gruppo di avventori ci squadra mentre parcheggiamo le nostre biciclette. Probabilmente non sono così tante le persone che arrivano e decidono di pernottare qui, una sperduta manciata di case stretta nella valle del fiume Gor. Il giorno due è terminato, la sensazione è quella di essere a metà dell’opera, e in fin dei conti poteva anche andare peggio. Abbiamo accorciato, si, ma abbiamo ancora negli occhi l’immensità del deserto di Gorafe. Parlando con Pablo, il giovane oste sorridente che ci ha accolto come se fossimo dei lontani cugini che non vede da tempo, gli raccontiamo da dove veniamo e dove stiamo andando.

“Domani volete arrivare a Tabernas?”

“Si.”

Ci guarda con stupore, accenna una risata poi si accorge che siamo seri.

“Sicuri? È molto lontano.”

Usciamo presto che ancora è buio, l’aria è pungente a dir poco, e i chilometri dei giorni precedenti si fanno sentire questa mattina. Ho addosso tutti gli strati possibili e ancora non sembrano essere abbastanza, ma so che appena lasciato il paese troveremo la salita che ci porterà nel cuore del parco naturale della Sierra de Baza. Con il rapporto più agile che ho a disposizione affronto i primi tornanti, rompo il fiato, comincio ad alzare la testa. La foresta di betulle lascia spazio ad un bosco di pini, e poi, ad un tratto, dopo una curva, il sole. La strada che prima era bianca si è fatta rossa, polverosa. A quota 2000 mslm c’è il passo che divide Granada da Almeria, la montagna dal mare, la partenza dall’arrivo. Celebriamo l’obiettivo con una colazione al sacco preparata la sera prima, tostada all’olio con jamon serrano, per poi lanciarci a capofitto in discesa. 20 chilometri d’asfalto, 1000 m di dislivello negativo, e una strada che pare disegnata per non frenare mai. Tutta d’un fiato e una sola pausa per vedere, in fondo in fondo, il mare.

Passiamo Escullar e raggiungiamo l’autostrada A-92 a Dona Maria, la costeggiamo per parecchi chilometri e poi teniamo la destra su un lunghissimo rettilineo che ci porta al paese di Las Alcubillas, porta d’entrata per il deserto di Tabernas. In piazza c’è un signore solitario, e in qualche modo capiamo che non ci sono bar o ristoranti aperti. Persino la fontana è chiusa, sostituita da una cisterna parcheggiata sotto un grande albero, che funge da risorsa di acqua potabile per gli abitanti di questo minuscolo paesino. Finiamo rapidamente la tostada cominciata a colazione, e decidiamo di affrontare il deserto di petto, senza perdere tempo, come se dovessimo sfidarlo. Timore reverenziale e voglia di dimostrare.

Il deserto di Tabernas è l’unico vero deserto in Europa. La forma non è quella di un deserto africano, con le dune di sabbia a perdita d’occhio, ma la sostanza è la stessa: un luogo remoto, inospitale, dove la totale mancanza di acqua e le temperature torride estive lo rendono incompatibile con la vita. Un paesaggio immobile, ruvido e acerbo ma allo stesso tempo affascinante, coinvolgente, esaltante.

Il termine rambla o meglio ramblas pensavo significasse strada, passeggiata. Le ramblas di Barcellona, la via principale, la più famosa. E scopro invece che rambla significa «letto naturale delle acque pluviali», dall’arabo ramba «terreno sabbioso». La definizione perfetta della strada che stiamo percorrendo, La rambla de Gergal, è scritta nero su bianco sul vocabolario. Un terreno difficile e faticoso, lento. In pratica pedaliamo sul letto di un fiume secco, dove si alternano rocce, punti ghiaiosi, altri più battuti e accumuli di sabbia che ti fanno sprofondare. Sono solo due, forse tre chilometri, ma sono lentissimi e molto insidiosi, considerando anche il peso delle nostre biciclette. Entriamo a sinistra in un canyon stretto, caldissimo, e quando ne usciamo siamo al paese abbandonato di Fuente Santa: edifici semidistrutti, una stazione e dei binari del treno, che la nostra traccia dice di attraversare. Ci deve essere stato qualcosa di davvero miracoloso nell’acqua che sgorgava da questa fonte, per insediarsi qui, nel bel mezzo del nulla.

Ci lasciamo alle spalle Fuente Santa, e prendiamo un single trail che si inerpica su per la collina. Il sentiero è stretto e in alcuni tratti molto ripido, e procediamo incerti, poco convinti. A dirla tutta, probabilmente troppo stanco per affrontarlo con il giusto mood, quello ad essere poco convinto sono io, mentre Nicola, che ha creato la traccia, mantiene le sue convinzioni e procede testardo. Dopo alcuni punti troppo ripidi, e altri troppo tecnici, il sentiero si addolcisce e il deserto cambia forma: morbide colline di terra bianca e arbusti ci circondano. Scendiamo dalla bici per fare delle foto e per godere di tanta bellezza. Il terreno sotto alle scarpe è morbido e croccante allo stesso tempo, un terreno bianco e secco dal quale inspiegabilmente crescono degli arbusti. L’ultima breve salita ci fa arrivare ad una forcella dalla quale possiamo ammirare il panorama. Scuotiamo per l’ennesima volta la testa di fronte ad un paesaggio che lascia senza parole.

L’ultimo giorno è un cocktail strano di emozioni e sensazioni, e tanta strada asfaltata che ti da modo di pensare, ripercorrere. Senza smettere di pedalare ripenso alla notte a Granada, alla paura di non essere in grado di affrontare un viaggio simile, e allo stesso tempo alla semplicità che c’è voluta per arrivare fin qui. La bandierina finale è Cabo de Gata e quindi il mare. Arriviamo proprio con le biciclette in spiaggia, in modo da fugare ogni dubbio. Ripenso ad ogni singolo metro, ogni curva, ogni tornante, che probabilmente rimangono così impressi perché vissuti più intensamente, guadagnati. Rimangono impresse le situazioni insolite in cui decidiamo volontariamente di metterci, come pedalare di notte. E quei momenti puri, di totale simbiosi con la strada, in cui ci sentiamo liberi perché focalizzati sulle cose più semplici, elementari.

Testo di Francesco Bonato — Fotografie di Francesco Bonato e Nicola Rossi

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