L’equivoco catalano

Federico Dolce
5 min readSep 21, 2017

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In molti in Italia hanno guardato con stupore e malcelata confusione a quanto sta accadendo in queste ore in Catalonya, Spagna.
La Guardia civile spagnola, un corpo della gendarmeria nazionale, ha arrestato Josep Maria Jové, un membro del governo catalano guidato da Carles Puigdemont. L’arresto è avvenuto durante una delle operazioni della polizia spagnola iniziate il 20 settembre a Barcellona: la polizia, che ha agito su ordine di un giudice, era stata incaricata di controllare se il governo catalano stesse proseguendo nell’organizzazione del referendum sull’indipendenza della Catalogna convocato per il primo di ottobre, ma giudicato illegale dalla Corte costituzionale spagnola. La polizia ha arrestato 14 persone legate al governo catalano — membri del governo e direttori di agenzie governative, per esempio. Forti proteste popolari hanno inondato le vie di Barcellona in protesta.
La confusione deriva principalmente dagli opposti schieramenti politici attraverso le cui lenti siamo ad interpretare i fatti all’estero. Qui in Italia siamo abituati a ritenere il separatismo una prerogativa della destra, motivato da un generale razzismo ed egoismo economico, di conseguenza si fatica a trovare solidarietà con l’autodeterminazione del popolo catalano — storicamente invece bandiera della sinistra spagnola in opposizione al nazionalismo franchista.

Differenze ed incomprensioni

Prima di tutto va sfatato un mito: le rivendicazioni catalane sono tutt’altro che semplicemente “economiche”.
In Spagna la questione regionalista è esplosa ed è stata affrontata con più intensità che altrove. Qui la tensione centro-periferia è sempre stata una ragione importante dei conflitti politici e sociali, il regime franchista credette di rafforzare le fragili basi dello stato-nazione, negandola. La Catalogna ha sempre mantenuto nel corso dei secoli segni distintivi rispetto al resto della penisola iberica. La salvaguardia da parte dei catalani della loro lingua e della loro cultura favorì, al momento dell’industrializzazione, nella seconda metà del XIX secolo, la nascita di un sentimento regionalista che assunse presto i contorni di un’ideologia, il “catalanismo”. I suoi teorici più radicali diffusero il principio che la Catalogna era una nazione e come tale aveva diritto al suo stato. Convertitosi, per ragioni di opportunità economica oltre che politica, ad un più moderato autonomismo, il catalanismo riaffermò le sue pretese di autodeterminazione dopo la prima guerra mondiale (alla quale la Spagna non aveva preso parte). Il catalanismo sopravvive tuttora e si riaffaccia nei programmi dei partiti regionalisti, ma è stato e rimane un orizzonte teorico. Nella pratica i movimenti e i partiti catalanisti si sono battuti, con qualche eccezione, nell’ambito del regionalismo, cioè nella richiesta di autonomia in vari settori e di proprie risorse, accontentandosi del riconoscimento della nazionalità, ottenuto una prima volta nel 1931 con la nascita della seconda repubblica. Ultimo baluardo repubblicano fino alla s a caduta al termine della guerra civile nel 1939, la Catalogna rimase esposta alla repressione franchista che tentò di cancellare ogni peculiare segno distintivo, a cominciare dell’uso della lingua.

Alla caduta della dittatura la Catalogna fu alla testa delle rivendicazioni delle autonomie regionali. Per sé reclamò lo statuto con una forma speciale di autonomia. La sua comunitad cerca da allora un ruolo di primo piano non solo in Spagna, ma anche in Europa (un suo slogan diffuso dice “La Catalogna è una nazione europea”). Il catalano è fa lingua ufficiale, la prima lingua insegnata nelle scuole ed è parlata correntemente dall’80% della popolazione.
Usano il catalano case editrici, canali televisivi, giornali e periodici locali; la toponomastica è tutta e soltanto catalana.
La Catalogna esiste come una comunità coesa, culturalmente omogenea e vogliosa di autodeterminarsi anche perché in perenne contrasto con uno stato spagnolo centrale che a ondate ha cercato in passato e cerca oggi in virtù di un colpo di coda revanchista dei nazionalismi, di reprimere i sentimenti autonomisti in nome dell’unità dello stato-nazione.

Il contesto è quindi chiaramente differente rispetto al separatismo in salsa italiana, fatto di un malcelato razzismo verso i meridionali e creato a tavolino inventandosi all’uopo una nozione padana mai esistita e culturalmente inesistente, il cui partito di riferimento nasce per un’alleanza tra un neonato movimento autonomista lombardo e quello valdostano, e che negli hanno ha sempre scontato le fortissime differenze e diffidenza al suo interno tra i vari gruppi regionali.

Perchè l’autonomia — le ragioni economiche non sono il male

Ma quindi perchè è così importante l’autodeterminazione, le richieste culturali ma anche economiche, l’autonomia?
Si parte dal concetto di “cittadinanza”, che si compone a sua volta di due grossi pilastri: quello dei diritti e quello identitario. Il primo definisce grazie al suo status legale una serie di diritti e responsabilità derivante dal far parte di una comunità retta da un’istituzione che determina leggi alle quali l’individuo sottosta. Il secondo invece è espressione della partecpazione del singolo alla comunità politica e civile. Ognuno di questi elementi deve essere sperimentato in un contesto geografico, a prescindere da come questo contesto venga definito (Marshall Thomas, Citizenship and social class, 1964).
Il fattore economico non va inteso come separato dai fattori culturali e le identità: la gestione delle risorse è da sempre un fattore chiave nella creazione dei rapporti gerarchici, reti di movimenti di merci ma anche di persone, rapporti personali ed istituzionali che stanno alla base di una comunità. Tutte le comunità espressioni degli stati liberal democratici sono stati attraversati da una gestione del welfare inclusiva, tesa ad integrare la cittadinanza attraverso i diritti ma anche permettendo di partecipare attivamente e passivamente alal gestione delle risorse economiche, alla rappresentanza politica, alla costruzioni delle leggi a cui sottostare (Aansi Pansi, The region, identity and power, 2011).

In questo senso, quando ci si trova in presenza di una comunità culturalmente affermata e coesa come quella catalana (ma anche altri casi come la Scozia) si può ben vedere come le prerogative economiche siano parte integrante di un processo di legittimazione dei propri legami intracomunitari, e avversione verso un corpo ritenuto estraneo quando non occupante — lo Stato centrale.

In totale assenza di queste premesse — come nel caso padano — la pretesa economica è fine a sè stessa, una sorta di buono sconto desiderato e richiesto per mero calcolo classista: produco mediamente di più, non voglio dare i miei soldi a chi produce meno. Come si è visto recentemente, oltretutto, il regionalismo padano è stato foriero di inefficienze economiche e ruberie che nulla hanno da invidiare allo Stato centrale, non avendo un nocciolo di coesione identitaria a comprovarne una efficienza che motivasse rappresentanza ed autodeterminazione nelle istituzioni.

Originally published at Argo.

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