Edicola, amore

Francesco Guglieri
7 min readMar 2, 2017

Il digitale ha cambiato la «dieta informativa» di tutti noi. Allargandola e diversificandola, certo, ma con delle conseguenze con cui dobbiamo ancora fare i conti. Non a livello di mercato, pubblici da raggiungere, sopravvivenza delle imprese editoriali (quello è un discorso che si è fatto e si sta facendo): ma su come sta cambiando la discussione pubblica. Risentimento, populismo, bolle informative, presunte élites, cosmopolitismo: tutto passa da qui. Ne ho scritto qualche settimana fa su pagina 99, nel pezzo che ripubblico qui. E poi è stata anche l’occasione per parlare del mio grande amore per lei, l’edicola…

Tra le tante nevrosi che possono affliggere la vita di un uomo la mia è, tutto sommato, una delle più innocue. O almeno così mi auguro. Arreca al massimo un po’ di fastidio a chi, in quel momento, mi accompagna. La mia mania è questa: mi devo fermare davanti a ogni edicola. Ecco, l’ho detto. O almeno rallentare il passo così da poter dare un’occhiata alle rastrelliere e agli espositori, controllare le copertine delle riviste, scoprire le novità, qualche gustoso allegato, il primo fascicolo di una raccolta. Lo faccio anche se so bene che non c’è nulla di nuovo, niente che mi interessi o che non sappia: e lo so perché l’avevo già verificato all’edicola di quattro isolati fa. E se da bambino pensavo che quello dell’edicolante fosse il lavoro più bello del mondo (poter leggere tutti i giornali che si vuole in ogni momento!), ancora oggi accarezzo l’idea di scrivere un libro che celebri questi cubicoli umili e famigliari, altari laici dell’identità nazionale.

A differenza di altre nevrosi, non mi sono serviti anni di analisi per venirne a capo. So benissimo da dove nasce questa ossessione: “quando non c’era internet” (per citare un bel libro di Angelo Morino di qualche anno fa), per un ragazzino in provincia l’edicola era l’unica finestra attraverso cui il mondo esterno faceva capolino nella tua vita. Come i campi in cui gli aerei delle organizzazioni umanitarie paracadutano le derrate alimentari, così correvi all’edicola per saziare la tua fame di novità, informazioni, fantasie, illusioni: prima fra tutte l’illusione di partecipare a una discussione pubblica più grande della cittadina in cui stavi. O almeno origliarla. Era il piccolo mondo antico della scarsità, in cui ci si doveva far bastare quello che c’era, anche se quasi mai quello che c’era bastava, o era esattamente quello di cui avevi bisogno.

Negli ultimi tempi, però, mi sono accorto di una cosa: sempre più spesso capita che passi davanti a un’edicola senza fermarmi. Meglio! direte voi: Era ora! Può darsi, ma il fatto è che l’epoca della scarsità è finita da un pezzo e oggi la mia “dieta informativa” è completamente diversa. Ricevo il New Yorker direttamente sull’iPad il giorno stesso dell’uscita, la mattina do un’occhiata al New York Times, attraverso i feed rss o twitter sono informato dei pezzi più interessanti del Guardian, dell’Atlantic, di New Republic, sospiro davanti alle copertine del New York Times Magazine (le più belle, opera dell’art director Matt Willey e della design director Gail Bichler), mi salvo i pezzi lunghi di Bloomberg, perdo la testa dietro le riviste più eccitanti degli ultimi tempi come Outline, The Ringer o Real Life. Pure troppo, glosserà qualcuno: e non ha tutti i torti. La quantità di informazione a cui ognuno è sottoposto non solo è ben al di sopra della disponibilità di tempo per consumarla, ma è tale che quasi altrettanto tempo è richiesto per la sua gestione: selezionare i contatti sui social network che so che mi passeranno i link più freschi, creare dei filtri per ricevere solo i contenuti che mi interessano davvero, tenere in ordine e non far proliferare la lista degli articoli salvati (ad esempio su Pocket, un’app per archiviarli e leggerli offline), ricambiare l’affetto di internet condividendo a mia volta quello che ho trovato di più interessante. Filtri umani e digitali per arginare l’oceano di notizie, articoli, storie, longform, contenuti in cui sono immerso come l’omino nel detersivo di un vecchio carosello. Certo, questa più che dell’abbondanza è l’età della distrazione, il grande tema psicologico, economico e politico dei prossimi anni. Ma quello che non è mai abbastanza chiaro è che siamo distratti dalle cose belle, non da quelle brutte. Dai contenuti insulsi, stupidi o poco interessanti, insomma: dal rumore, siamo tutti in grado di difenderci — non foss’altro che a un certo punto uno si stufa. È il bello che ti frega. Quello che riesce a passare questi filtri — ed è tanto — forse mi fa perdere tempo ma allo stesso tempo mi informa, arricchisce gli strumenti con cui leggo il mondo, mi diverte e intrattiene, mi è utile al lavoro e come cittadino: mi fa crescere. Insomma, alla fine tutto il contrario di una perdita di tempo.

Tutto bene allora, anzi benissimo: evviva. Adesso però proviamo a uscire dalla bolla.

Il primo effetto di questa dieta informativa è che non mi fermo più davanti alle edicole. Fuor di metafora: quando sfoglio un quotidiano italiano mi sembra di precipitare in un tunnel temporale in cui vedo il mondo di una settimana fa. Articoli presi dai grandi giornali internazionali, soprattutto anglosassoni, e rimasticati per il lettore di qui qualche giorno dopo. Il problema però non sono i giornali, sono io. Certo, le grandi macchine editoriali hanno i loro limiti e le loro strutturali pigrizie, ma non è questo il punto. Quello che mi interessa adesso è un’altra cosa: mai come oggi chi possiede gli strumenti culturali e sociali adeguati può vivere “la vita dello spirito” — informarsi, leggere, discutere — come se abitasse in un luogo diverso da quello in cui vota, lavora e consuma. Internet ha fatto sì che gli strumenti e le fonti attraverso cui mi informo, leggo e discuto a Torino sono gli stessi che userei a Parigi, Londra o New York e che usa un mio omologo di quelle città. Omologo con cui condivido molte più cose che col mio vicino sull’autobus.

È ormai entrato nel dibattito corrente il tema della diseguaglianza economica che il “carattere distruttivo” del digitale non fa che aumentare — i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Ma non si parla abbastanza della diseguaglianza culturale e di quanto internet la faccia crescere. La rete è uno straordinario acceleratore della conoscenza — quanto e più della stampa — ma solo se fin dall’inizio possiedo gli strumenti che mi permettono di controllarne la complessità. Altrimenti — ed è così per la maggioranza delle persone — affondo in uno tsunami di fake news, complottismi, dati falsi oppure veri ma manipolati per dire l’opposto, fomentatori d’odio, cazzate.

Tempo fa sulla bacheca di un amico ho letto uno scambio tra tre o quattro addetti ai lavori sulla necessità di tradurre i libri di una scrittrice americana che compone piccoli poemetti in prosa, di una riga o due, quasi degli aforismi. Stavo per intervenire: non si traducono perché il pubblico potenziale è già tutto su questa bacheca e probabilmente li hanno già letti in originale! I lettori per la letteratura in traduzione, soprattutto se “di ricerca”, in Italia sono ormai così pochi che la piccola nicchia di chi legge in originale è in grado di influire sulla vita di un libro — e prima ancora sulla sua fattibilità e sostenibilità. Questo, per quanto anti-intuitivo possa essere, rende più difficile la vita di chi vorrebbe pubblicarli nel nostro paese e renderli accessibili a un maggior numero di persone.

È sempre esistita un’élite che aveva accesso alla produzione culturale di altri paesi, che poteva viaggiare e comunicare al di là di Chiasso: era una classe cosmopolita di mediatori, intellettuali, accademici, scrittori, scienziati, che poi portavano in Italia “quello che avevano visto” all’estero. Era la cuspide della piramide della produzione culturale, piccola nei numeri ma capace di far arrivare il frutto del suo lavoro al corpaccione e alla base della piramide, impollinatori di un prato a cui accedeva un pubblico vasto, non elitario. Quello che mi pare stia avvenendo oggi è che questa punta della piramide si è senz’altro allargata nelle cifre assolute, perdendo molte delle sue caratteristiche elitarie, ma è come se si fosse staccata dal resto della piramide. Come se si fosse rotta la cinghia di trasmissione tra la nicchia e la produzione di massa di più ampio respiro: quasi che internet avesse arricchito a dismisura le possibilità di crearsi una propria astronave informativa totalmente autonoma, che non ha più bisogno di scambiare dati la superficie. La coda lunga ha prodotto l’esatto opposto di quello che profetizzava Chris Anderson nell’omonimo libro (La coda lunga, Codice edizioni, 2010): non la fine del mainstream ma il suo aumento e sempre più in una coloritura provinciale, insulare. Al contrario le nicchie sono aumentate così tanto da raggiungere dimensioni molecolari, incapaci di qualsiasi influenza.

Non è solo la fine dell’egemonia, dell’idea stessa di un’egemonia in senso gramsciano, ma proprio della conversazione: cosa si dicono questi due paesi? Di cosa parlano se non hanno più nulla di condiviso? A chi si rivolge chi scrive o chi pubblica? Uno scollamento che tra l’altro produce cortocircuiti pericolosi: a cominciare da un risentimento verso le élites culturali (socialmente e economicamente disagiate tanto quanto gli indignati di turno) e che non sfiora quelle economiche e le loro responsabilità. Oppure si arriva, come Stefano Fassina in un tweet del 21 gennaio, a fare del termine cosmopolitismo un polo negativo (“La risposta della sinistra a #Trump non può essere il cosmopolitismo”). Quando invece mi sembra che ora come non mai sia il caso di dire: Cosmopoliti di tutto il mondo, uniamoci!

Originariamente apparso su pagina 99 del 18 febbraio 2017.

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