La necessità di generare valore

filippo scorza
6 min readJan 25, 2019

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Premessa

Sto scrivendo un libro sulla trasformazione digitale insieme ai migliori digital officer ed innovatori in Italia: una sorta di libro collettivo fatto di diversi punti di vista, esperienze e background.

In pratica, un libro collettivo

E abbiamo deciso, prima della pubblicazione cartacea, di condividere ogni draft dei capitoli online, su differenti piattaforme: da Linkedin a Medium, da Quora al mio Blog.

Se vuoi iniziare a leggere, trovi a questo link il capitolo introduttivo e, al suo interno, il collegamento ai successivi.

Vuoi magari partecipare anche tu alla stesura? scrivimi due righe a hello@filipposcorza.com

Se le aziende riescono a comprendere l’importanza che i consumatori attribuiscono ai propri dati, di conseguenza possono sviluppare soluzioni con un’offerta di valore proporzionata.

Ma questo “scambio” deve essere basato sulla fiducia e, quest’ultima, va costruita nel lungo periodo considerando in primis quali tipologie di dati possiamo trasformare in informazioni utili ad attivare nuovi servizi.

Esistono fondamentalmente tre tipologie di dati che possiamo prendere in considerazione:

  1. i dati forniti spontaneamente dal consumatore (proprietario del dato stesso): riguardano tutte quelle informazioni che l’utente fornisce a seguito di una richieste esplicita come, ad esempio, l’indirizzo mail per la ricezione di una newsletter, il proprio numero di telefono per assicurare un doppio controllo del proprio account, la banale compilazione di un questionario o l’accettazione dei cookie richiesti per la fruizione dei contenuti su un sito web.
  2. scorie digitali: sono quelle informazioni che derivano, ad esempio, dalla propria cronologia di navigazione sul web oppure dai luoghi fisici che abbiamo raggiunto mediante un servizio di navigazione (Maps, Waze e analoghi).
  3. i dati di profilazione: tutti quei associati al proprio profilo digitale che vengono utilizzati per mappare i comportamenti dell’utente, i suoi interessi e la propensione verso un determinato servizio o prodotto.

In una scala gerarchica di importanza attribuita dal proprietario ai tali dati, vengono classificati in ordine di minor valore i dati esplicitamente dichiarati, le scorie digitali e i dati di profilazione.

Questi tre strati non sono gli unici dati digitali che consentono di creare predizioni sul futuro comportamento dell’utente: ve ne sono altri!

Tra questi troviamo quelle informazioni che vengono richieste, ad esempio, da un’applicazione mobile che chiede all’utente di condividere la propria attuale posizione per fornire un’esperienza migliorata basata sulla geolocalizzazione. Il classico “luoghi interessanti da visitare intorno a te” oppure “la pizzeria più vicina”.

Ricevere annunci pubblicitari basati sulla propria cronologia di navigazione è un’altro contesto in cui si scambiano tali informazioni a fronte di annunci che possano risultare appropriati all’utente in questione.

Informazioni che possono essere, inoltre, cedute a terze parti per poter generare ricavi sulle nostre abitudini di consumo.

In queste ultime due situazioni, il valore di ritorno atteso cresce notevolmente in quanto l’utente diventa inconsapevole del percorso e dei punti di destinazione delle proprie informazioni in quanto cambia l’ampiezza della loro distribuzione e la sensibilità del dato stesso.

Alcuni sistemi operativi dei nostri smartphone chiedono all’utente se desiderano inserire i numeri di telefono chiamati con più frequenza all’interno della lista dei preferiti veicolando, di conseguenza, una facilitazione di fruizione delle chiamate.

In questo caso, la frequenza di chiamata verso un contatto, viene classificata come scoria digitale al pari della cronologia di navigazione ma che, lato azienda, può essere trasformata in informazione utile e azionabile per classificare l’utente in maniera più dettagliata e specifica.

Google Now, ad esempio, utilizza i dati di profilazione associati all’utente gmail al fine di creare un assistente virtuale in grado di fornire servizi automatici al consumatore; setacciando i contenuti delle nostre e-mail può creare automaticamente eventi all’interno del calendar in relazione, ad esempio, ad un volo aereo in quanto abbiamo ricevuto la conferma dell’acquisto nella nostra casella di posta.

Analogamente potrà compilare nel nostro calendario l’evento e le informazioni relative ad un hotel che abbiamo prenotato tramite Booking perlustrando, nuovamente, le e-mail che riceviamo.

In contesti come questi, emerge la disponibilità da parte della maggior parte degli utenti a fornire accesso a tali contenuti in quanto il valore restituito viene percepito come di alto valore aggiunto.

Quando il valore percepito dall’utente sull’utilizzo di tali facilitazioni risulta alto, allora l’utente stesso sarà il primo a voler condividere i propri dati nonostante questi possano essere utilizzati non solo per la generazione di quel servizio ma, soprattutto, anche di affini.

Quando l’esperienza utente viene semplificata, siamo in grado di raccogliere dati.

Pensiamo ad esempio al braccialetto MagicBand della Disney che consente di generare servizi a valore aggiunto ai visitatori dei propri parchi tematici se l’utente acconsente alla sua profilazione; chi utilizza tale dispositivo riceve delle facilitazioni di esperienza quando deve accedere ad un’attrazione, entrare in hotel e nelle strutture partner. Può inoltre effettuare pagamenti tramite il braccialetto se vi associa la propria carta di credito e, di conseguenza, acquistare souvenirs o pagare il pranzo senza dover tirar fuori il portafoglio dalla proprie tasche.

In questo contesto gli utenti cedono una considerevole mole di dati che possono essere utilizzati per migliorare, ad esempio, le attrazioni del parco; immaginiamo di poter semplicemente avere indicazioni sul livello di frequentazione di un’attrazione nel corso del tempo: potremo prendere decisioni “data driven” promuovendo maggiormente tale attrazione mediante azioni di marketing, renderla maggiormente raggiungibile oppure, eliminarla definitivamente dalle offerte del parco in quanto non interessante.

Proviamo ad immaginare di poter visualizzare i flussi degli utenti, nel loro insieme, all’interno del parco distribuiti per fasce orarie o temporali: tutte questi dati possono essere facilmente trasformati in informazioni e successivamente in azioni.

From data to decision, questo dovrebbe essere l’approccio ed il fine ultimo della raccolta dei dati dei nostri utenti che, come accennato in precedenza, devono ricevere qualcosa in cambio: un’esperienza migliore, un servizio personalizzato alle proprie esigenze, un semplice sconto o un momento “wow” (il cosiddetto “aha moment”).

Ma come possiamo attivare tali servizi a fronte di uno scambio di dati dell’utente?

Alcune strategie possono essere le seguenti:

Sii trasparente: ovvero informa in maniera esplicita, chiara e diretta l’utente dell’utilizzo che farai dei suoi dati personali. Termini e condizioni non vengono generalmente letti dai consumatori in quanto, forse, troppo complessi ed estesi e perchè richiedono uno sforzo cognitivo elevato.

Alcune società che operano nel contesto medicale hanno creato dei video esplicativi dei propri termini e condizioni affinchè l’utente possa fruire di tali contenuti in una visione sintetica ed esaustiva in formato mediatico. Questo approccio informativo riscontra una percezione di trasparenza, salvaguardia dei diritti e riduzione dello sforzo comunicativo verso il consumatore che li interpreta positivamente e di buon grado.

Lasciare all’utente la “possibilità di scelta” o la “possibilità di scelta informata” hanno percezioni diametralmente opposte!

  1. Gli utenti devono avere il controllo dei propri dati: fornire all’utente finale la possibilità di visionare il flusso e le destinazioni dei dati generati, ad esempio, dal proprio smartphone o da un’applicazione specifica, sembra garantirne il controllo. Nel contesto sanitario, quello dove ricadono i dati più sensibili, dovrebbe essere il paziente stesso ad essere consapevole della sua proprietà del dato e non la clinica o ASL in essere. Sono dell’opinione che in tali contesti non vi sia ancora una corretta ed efficace consapevolezza della proprietà: se io genero quel dato, quel dato resterà mio e, se lo cedo per ottenere un servizio, ho il diritto e il dovere di sapere dove sia quel dato, come venga utilizzato ed i suoi fini.
    Quando le aziende approcciano il tema della profilazione in maniera trasparente ed instaurano una relazione di fiducia con il consumatore fornendogli le informazioni di cui sopra, allora, potrà avvenire lo scambio.
  2. Restituire un valore non monetario: se i dati sono il nuovo petrolio digitale significa che hanno anche un valore economico (si pensi ad esempio al valore monetario di un profilo Facebook). Ma lo scambio dato — servizio non avviene quasi mai mediante una ricompensa monetaria anche se sono state avanzate alcune ipotesi in tal senso che mirano a far monetizzare l’utente che vende (e non scambia) le proprie informazioni digitali. Poter ricevere servizi personalizzati a fronte della profilazione utente è, oggi, l’approccio di gran lunga utilizzato dalle grandi corporate. Servizi quali Pandora Music, Spotify e Deezer, utilizzano le preferenze musicali dell’utente al fine di sviluppare una pubblicità mirata che si sposa con il suo profilo musicale: questo modello sembra funzionare visti i numeri di utenti attivi che hanno tali applicazioni (si parla di ottanta milioni di abbonamenti attivi).

La necessità di offrire valore, facilitare l’esperienza dei nostri utenti, renderla più fluida mediante servizi umano centrici diventano le chiavi per aumentare non solo la “customer satisfaction” ma, lato azienda, per prendere decisioni data driven sulla base dei dati generati dagli utenti stessi.

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