A che cosa stai pensando in questo momento?

Daria Bernardoni
6 min readMay 1, 2016

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Mentre sei in ufficio, pensi alla partita di tennis. Mentre giochi a tennis, pensi a tua moglie. Mentre sei con tua moglie, pensi al tuo capo. E così la tua vita scorre, giorno dopo giorno, mentre tu stai pensando a qualcos’altro. Questa cosa non ti manda in bestia?

Attenzione, sto parlando di qualcosa di molto diverso dal concetto americano di blurring, quello per cui i confini tra famiglia e lavoro, vita privata e vita professionale sfumano sempre di più uno nell’altro. Sto parlando di vivere davvero il momento presente, un compito che sembra impossibile per la nostra mente, continuamente impegnata a vagare altrove. Dove? Nel passato, nel futuro, nella fantasia. Sempre altrove.

Per rendersene conto, basta sperimentare qualche basilare tecnica di concentrazione: rivolgere e mantenere ferma l’attenzione su un oggetto non è affatto semplice. La maggior parte delle persone non riesce a stare davvero concentrata nemmeno per pochi secondi, che subito la mente scivola via: che cosa preparo per cena, come gestisco la riunione di lunedì, devo svuotare la lavatrice.

Qualche tempo fa, durante una lezione di yoga, la mia insegnante Tess Privett ha citato l’interessante caso di Track Your Happiness, un progetto di ricerca con l’ambizione di rispondere in maniera scientifica alla domanda che cosa ci rende felici attraverso un’applicazione che ti contatta durante svariati e imprevedibili momenti della giornata e ti chiede di rispondere a un semplice questionario.

La ricerca ha documentato che il 46.9% delle persone trascorre il tempo pensando a qualcosa di diverso da quello che sta facendo in quel momento. Matthew Killingsworth e Daniel Gilber, analizzando i risultati, hanno poi messo in luce come, per dichiararci felici, il tipo di attività che stiamo facendo conta meno del livello di concentrazione che dedichiamo a quell’attività. Insomma, è più probabile stare bene mentre si lavora, se si è concentrati sul lavoro, piuttosto che mentre si fa sesso, se lo si fa pensando ad altro.

In fact, what activity a person was engaged in only accounted for about 5 percent of a person’s happiness, whereas whether that person’s mind was on- or off-task accounted for over 10 percent.

Perché? Da dove si origina questa irrequietezza?

Oriente e Occidente

Mentre il pensiero filosofico occidentale si è sviluppato attorno al valore della conoscenza fine a se stessa, la saggezza delle tradizioni contemplative orientali è di tipo più pratico e si rivolge direttamente a questo vissuto di irrequietezza della mente ordinaria, descritta con diverse metafore: mente scimmia, mente elefante selvaggio, mente fiume furioso, mente cucciolo scatenato. La prima grande lezione che insegna la tradizione sramanica, dopo la presa d’atto dell’impetuoso scorrere del fiume di pensieri, è quasi disturbante nella sua semplicità: noi non siamo i nostri pensieri.

Le tradizioni contemplative affermano (…) che la nostra autentica identità non si nasconde nei contenuti mutevoli della nostra coscienza, ma in uno strato più profondo (…) della mente. Per raggiungere questo strato più profondo, ci si deve liberare dall’identificazione automatica con i contenuti della coscienza. (Mircea Eliade, Enciclopedia delle religioni, vol. 3)

La pratica della meditazione lavora su questa dis-identificazione.

Che cos’è lo Zen?

Il grande maestro zen Matsu Daoyi (709–788), della dinastia cinese Tang, alla domanda di un discepolo che gli chiede Che cos’è lo zen? risponde:

«Dormire quando si è stanchi, mangiare quando si ha fame.»

Questo è un mondō, ossia una forma di dialogo tra un allievo e un maestro caratteristica della tradizione Zen, un dialogo che, se letto da un occidentale, appare composto da chiare domande dell’allievo e incomprensibili risposte del maestro.

Daisetsu Teitarō Suzuki, massima autorità giapponese nel campo del buddismo zen e grande divulgatore, in Lo Zen e la Cultura Giapponese ci svela come si tratti invece di un dialogo composto da incomprensibili domande di un allievo e chiare risposte del maestro.

Eccone un altro esempio:

“Che cos’è lo Zen?” “Non capisco” rispose un maestro. “Che cos’è lo Zen?” “Il ventaglio di seta basta a farmi aria” rispose un altro maestro. “Che cos’è lo Zen?” “Lo Zen” rispose un terzo maestro».

Il maestro zen è consapevole che le parole tendono inevitabilmente a sganciarsi dalla realtà e a trasformarsi in concetti, mentre insiste sulla necessità di concentrarsi sulle cose. Il maestro zen non si lascia coinvolgere in discussioni su temi astratti, il maestro zen agisce. La parola non si deve separare dall’oggetto, dal fatto o dall’esperienza, mai: altrimenti si svuota.

«Non appena noi consideriamo, riflettiamo e formiamo concetti, l’inconsapevolezza originaria va perduta e sorge un pensiero. Non mangiamo più quando mangiamo, non dormiamo più quando dormiamo.» (Daisetsu Teitarō Suzuki)

Il maestro Matsu ci insegna che lo zen è la coscienza quotidiana, l’essere costantemente presenti a se stessi e al mondo. Questa coscienza quotidiana delle cose che non astrae, ma resta immersa nell’esperienza presente è anche detta satori.

Lavora, quando sei in ufficio. Divertiti, quando giochi a tennis. Ama, quando stai con tua moglie. Sii davvero presente a te stesso in quello che fai.

Già, ma come?

Il tirocinio della coscienza, attraverso il corpo

Ci sono delle attività che, più di altre, se praticate con costanza, aiutano a raggiungere lo stato di satori. Tra queste, il tiro con l’arco. Che cos’hanno di speciale queste attività?

Così il tiro con l’arco non viene esercitato soltanto per colpire il bersaglio, la spada non s’impugna per abbattere l’avversario, il danzatore non danza soltanto per eseguire certi movimenti ritmici del corpo, ma anzitutto perché la coscienza si accordi armoniosamente all’inconscio. Per essere veramente maestro nel tiro con l’arco la conoscenza tecnica non basta. La tecnica va superata, così che l’appreso diventi un’arte inappresa, che sorge dall’inconscio. Nel caso del tiro con l’arco questo significa che il tiratore e il bersaglio non sono più due cose contrapposte, ma una sola realtà. L’arciere non è più consapevole d’essere uno che ha da colpire il bersaglio davanti a lui. Ma questa condizione di inconsapevolezza egli la raggiunge solo se è perfettamente libero e distaccato da sé, se è tutt’uno con la perfezione della sua abilità tecnica.

Tra queste attività, c’è anche lo yoga. Il fine del yoga, posto che ne abbia uno diverso dalla stessa pratica, è quello di entrare in contatto con il nostro Sé più profondo. Il mezzo per raggiungere questo fine è un viaggio con e attraverso il proprio corpo. È anche per questo che un libro di anatomia può essere un’autentica guida spirituale allo yoga.

Scrivo in corsivo spirituale perché, secondo la tradizioni degli Yoga Sutra di Patanjali, l’unico vero maestro di yoga è il respiro (“respiro” è uno dei primi significati della parola “spirito”, in latino spiritus). Il respiro è un’azione che possiede contemporaneamente la caratteristica di essere un automatismo dell’organismo e un atto volontario dell’individuo.

Leslie Kaminoff, autore di Yoga Anatomy, ha individuato nella relazione che esiste tra respiro e colonna vertebrale il tratto che rende lo yoga un principio integrato per lo studio dell’anatomia. La sua definizione di yoga verte sull’integrazione tra mente, respiro e corpo: una disciplina che ci permette di pensare in modo più chiaro, respirare senza sforzo e muoverci con più efficenza. Lo Yoga è un insieme di pratiche che ci invita a cercare il nostro personale percorso di saggezza attraverso il corpo.

Il corpo è una risposta che l’Occidente non ha mai dato all’imperativo socratico del “conosci te stesso”, almeno fino a Nietzsche.

Nietzsche interpreta la storia del pensiero occidentale come la storia di una
malattia, i cui sintomi vanno dalla costruzione di concetti a opera dell’intelletto fino alla posizione di una realtà trascendente il mondo sensibile (Socrate, Platone, Aristotele, tutto il pensiero cristiano, Cartesio, Kant).

Nietzsche chiama questa malattia “nichilismo”, anche se il termine è usato in modo diverso da come molti di noi sono oggi abituati a sentirlo: il vero nichilismo è quello di chi sostiene la necessità di un altro mondo per dare valore a questo — Il mio regno non è di questo mondo.

L’affermazione della realtà sovrasensibile degrada al rango di copia imperfetta questa vita, delineando un altrove ultraterreno, migliore. Il mondo delle idee diventa l’unico vero, quello restituito dai sensi — che, guarda un po’, ingannano — è mera apparenza.

Questa guerra teoretica alla sensibilità in generale che ha mosso il pensiero occidentale, questo rifiuto della testimonianza dei sensi che restituisce la molteplicità e l’instabilità del reale, diventa la base della condanna occidentale del corpo.
Paura della morte, rifiuto del divenire, rifiuto dei sensi che testimoniano il divenire, rifiuto del corpo: rinunciamo a ciò che abbiamo più paura di perdere. Ecco perché secondo Nietzsche il rimedio è peggiore del male: attaccare il corpo significa attaccare la vita.

La saggezza orientale, invece, passa proprio attraverso il corpo e lo yoga è una delle sue filosofie. La felicità è di questo mondo, dobbiamo solo rimuovere alcuni ostacoli che impediscono al nostro corpo di trovare il proprio equilibrio. Per farlo, non bisogna fare programmi: bisogna fare pratica.

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